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Simone Weil


RIFLESSIONI
SULLA GUERRA


Traduzione di Ottavio Fatica

retrovie

(6)
Adelphiana


www.adelphiana.it
11 ottobre 2002


Il demone dell’analogia mal si presta a essere maneggiato dai dilettanti, e i richiami storici hanno la sgradevole
caratteristica di ritorcersi, spesso, contro chi li propone.
Così, a forza di considerare il satrapo di Baghdad l’erede naturale – o l’equivalente postmoderno – di quello che
governò Berlino fra il 1933 e il 1945, si pensa di scatenargli contro una guerra. Non più «nuova», stavolta,
ma semplicemente «preventiva» – proprio come quella di
cui si discuteva nell’Europa del 1933, e a cui Simone Weil
dedicò, su «La Critique sociale» (X, novembre 1933), queste pagine dense e ferventi.

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La situazione attuale, e lo stato d’animo che suscita, rimettono una volta di più all’ordine del giorno
il problema della guerra. Oggi noi viviamo nella perenne attesa di una guerra; il pericolo è forse immaginario, ma la sensazione di pericolo esiste, e ne
costituisce un fattore non trascurabile. Ebbene, l’unica reazione che sia dato constatare è il panico,
non tanto il panico del coraggio di fronte alla minaccia di una carne$cina, quanto il panico degli animi di fronte ai problemi che pone tale minaccia.
Ed è proprio nel movimento operaio che si avverte di più lo smarrimento. Il rischio, se non ci impegniamo in un serio tentativo di analisi, è che un
giorno o l’altro la guerra ci sorprenda incapaci
non solo di agire, ma per$no di giudicare. Per prima cosa bisogna fare un bilancio delle tradizioni
sulle quali abbiamo $nora vissuto più o meno coscientemente.
Fino all’ultimo dopoguerra il movimento rivoluzionario, nelle sue diverse forme, non aveva nulla in
comune con il paci$smo. Le idee rivoluzionarie sulla guerra e la pace si sono sempre ispirate ai ricor

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di di quegli anni, 1792-1793-1794, che furono la culla di tutto il movimento rivoluzionario del XIX secolo. In contraddizione assoluta con la verità storica, la guerra del 1792 appariva come uno slancio
vittorioso che, oltre a far insorgere il popolo francese contro i tiranni stranieri, avrebbe al tempo stesso infranto il dominio della Corte e della grande
borghesia per portare al potere i rappresentanti
delle masse lavoratrici. Da questo ricordo leggendario, immortalato nella Marsigliese, nacque la concezione della guerra rivoluzionaria, difensiva e offensiva, come forma non solo legittima, ma come
una delle più gloriose della lotta delle masse lavoratrici contro gli oppressori; concezione comune a
tutti i marxisti e a quasi tutti i rivoluzionari $no
agli ultimi quindici anni. In compenso, quando si
tratta di giudicare le altre guerre, la tradizione socialista ci offre non una ma diverse concezioni, le
quali tuttavia, per quanto contraddittorie, non sono mai state contrapposte le une alle altre in modo
chiaro.
Nella prima metà del XIX secolo la guerra in quanto tale sembra aver avuto un certo prestigio agli occhi dei rivoluzionari che, in Francia per esempio,
rimproveravano aspramente a Luigi Filippo la sua
politica di pace: Proudhon scrisse un sentito elogio della guerra e per i popoli oppressi, insieme alle insurrezioni, si sognavano guerre. La guerra del
1870 costrinse per la prima volta le organizzazioni
proletarie, in questo caso l’Internazionale, a prendere posizione in modo concreto sulla questione
della guerra; e l’Internazionale, attraverso la pen

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na di Marx, invitò gli operai dei due paesi in lotta
a opporsi a ogni tentativo di conquista, ma anche
a partecipare risolutamente alla difesa del proprio
paese contro l’attacco dell’avversario.
Ma allorché nel 1892, evocando con eloquenza i ricordi della guerra scoppiata cento anni prima, Engels invitava i socialdemocratici tedeschi a contribuire con tutte le loro forze a una guerra che avesse eventualmente contrapposto alla Germania la
Francia alleata con la Russia, lo faceva in nome di
tutt’altra concezione.1 Non si trattava più di difesa

o di attacco, ma di proteggere, attaccando o difendendosi, il paese dove il movimento operaio risultava essere più forte e di annientare il paese più
reazionario. In altre parole, secondo questa concezione (che fu anche quella di Plechanov, di Mehring e di altri), per giudicare un conflitto bisogna
individuare la soluzione più favorevole al proletariato internazionale e schierarsi di conseguenza.
A questa concezione se ne contrappone un’altra,
che fu quella dei bolscevichi e degli spartachisti, i
quali sostenevano che in ogni guerra (a eccezione
delle guerre nazionali o rivoluzionarie secondo Lenin, a eccezione solo delle guerre rivoluzionarie
secondo Rosa Luxemburg), il proletariato deve augurarsi che il proprio paese sia scon$tto e sabotarne la lotta. Tale concezione, fondata sull’idea che
tutte le guerre, tranne le suddette eccezioni, sono
guerre imperialiste, e quindi paragonabili a una dis
1. Der Sozialismus in Deutschland, apparso in «Die neue Zeit»,
I, 19, 1891-1892, e, in francese, in «L’Almanach du Parti ouvrier pour 1892».
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puta di briganti che si contendono il bottino, va incontro a serie dif$coltà: essa infatti sembra spezzare l’unità d’azione del proletariato internazionale
poiché esorta gli operai di ciascun paese a collaborare alla scon$tta del proprio paese, favorendo in
tal modo la vittoria dell’imperialismo nemico, vittoria che altri operai devono sforzarsi d’impedire.
La celebre formula di Liebknecht: «Il nostro principale nemico è nel nostro stesso paese» mette chiaramente in luce questa dif$coltà giacché attribuisce alle diverse frazioni nazionali del proletariato
un nemico diverso, e $nisce così per contrapporle,
almeno in apparenza, le une alle altre.
È evidente che la tradizione marxista non presenta, riguardo alla guerra, né unità né chiarezza. Almeno un punto, però, era comune a tutte le teorie: il ri$uto categorico di condannare la guerra in
quanto tale. I marxisti, specialmente Kautsky e Lenin, amavano parafrasare la formula di Clausewitz
secondo la quale la guerra non fa che continuare
con altri mezzi la politica del tempo di pace, desumendone che una guerra va giudicata non per il carattere violento dei procedimenti impiegati, bensì
per gli obiettivi perseguiti attraverso quei procedimenti.
Il dopoguerra ha introdotto nel movimento operaio non un’altra concezione – perché non si possono certo accusare le organizzazioni operaie o sedicenti tali della nostra epoca di avere concezioni
su un argomento qualsiasi –, ma un’altra atmosfera morale. Già nel 1918 il partito bolscevico, che
desiderava ardentemente la guerra rivoluzionaria,

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dovette rassegnarsi alla pace, non per ragioni dottrinarie, ma sotto la pressione diretta dei soldati russi, ai quali l’esempio del 1793, che venisse evocato
dai bolscevichi o da Kerenskij, non ispirava alcun
desiderio di emulazione. E anche negli altri paesi,
sul piano della semplice propaganda, le masse straziate dalla guerra costrinsero i partiti che facevano
appello al proletariato ad adottare un linguaggio
puramente paci$sta, linguaggio che peraltro non
impediva agli uni di celebrare l’Armata Rossa, agli
altri di votare i crediti di guerra del proprio paese.
Ovviamente, questo nuovo linguaggio non fu mai
corroborato da analisi teoriche, anzi nessuno parve mai neppure notare che era nuovo. Fatto sta che
invece di bollare la guerra come imperialista, tutti
si misero a bollare l’imperialismo come guerrafondaio. Per farsi ascoltare, il cosiddetto movimento di
Amsterdam, che in teoria si batteva contro la guerra imperialista, dovette sostenere di battersi contro la guerra in generale. Nella propaganda, ancor
più del suo carattere proletario o sedicente tale, si
mise in risalto l’atteggiamento paci$co dell’URSS.
Le formule dei grandi teorici del socialismo sull’impossibilità di condannare la guerra come tale
erano state completamente dimenticate.
Il trionfo di Hitler in Germania ha per così dire fatto riemergere tutte le vecchie concezioni, inestricabilmente mescolate. La pace appare come meno
preziosa dal momento che può comportare gli orrori indicibili sotto il peso dei quali gemono migliaia di lavoratori nei campi di concentramento
tedeschi. Si riaffaccia la concezione espressa da En

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gels nel suo articolo del 1892. Il nemico principale del proletariato internazionale non è forse il fascismo tedesco, come allora era lo zarismo russo|
Questo fascismo, che si estende a macchia d’olio,
può essere annientato solo dalla forza; e dato che
il proletariato tedesco è disarmato, solo le nazioni
rimaste democratiche possono, a quanto pare, assolvere questo compito.
Poco importa, del resto, che si tratti di una guerra
di difesa o di una «guerra preventiva»; anzi, una
guerra preventiva sarebbe meglio: Marx e Engels
non hanno forse cercato, a un certo punto, di spingere l’Inghilterra ad attaccare la Russia| Una guerra del genere non si presenta più, secondo molti,
come una lotta fra due imperialismi concorrenti,
bensì fra due regimi politici. E – proprio come faceva il vecchio Engels nel 1892 ricordandosi di quello che era successo cent’anni prima – tutti pensano che una guerra costringerebbe lo Stato a fare al
proletariato concessioni importanti; tanto più che,
nella guerra incombente, ci sarà necessariamente
conflitto fra lo Stato e la classe capitalista, e si avranno senz’altro misure di socializzazione di non poco conto. Sicché la guerra $nirebbe forse per portare automaticamente al potere i rappresentanti del
proletariato. Tutte queste considerazioni creano sin
d’ora, negli ambienti politici che fanno appello al
proletariato, una corrente d’opinione più o meno
esplicitamente favorevole a una partecipazione attiva del proletariato a una guerra contro la Germania; corrente ancora non molto forte, ma che può
facilmente ingrossarsi. C’è chi si limita alla distin

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zione fra aggressione e difesa nazionale, e chi alla
concezione di Lenin; altri, ancora numerosi, rimangono paci$sti, ma in fondo più per forza d’abitudine che per altra ragione. Dif$cile immaginare confusione peggiore.
Tanta incertezza e oscurità potranno sorprendere,
e devono far vergognare, se si pensa che si tratta di
un fenomeno che, col suo strascico di preparativi,
di riparazioni, di nuovi preparativi, sembra, tenuto conto di tutte le conseguenze morali e materiali che comporta, dominare la nostra epoca e costituirne il tratto caratteristico. La cosa sorprendente
sarebbe tuttavia che si fosse giunti a qualcosa di meglio partendo da una tradizione assolutamente leggendaria e illusoria, quella del 1793, e usando il metodo più difettoso possibile, quello che ha la pretesa di giudicare ogni guerra in base ai $ni perseguiti e non alla natura dei mezzi impiegati. Non che
sia meglio biasimare in generale l’uso della violenza, come fanno i paci$sti puri: la guerra costituisce,
in ogni epoca, una specie ben precisa di violenza,
e prima di esprimere un giudizio qualunque bisogna studiarne il meccanismo. Il metodo materialista consiste innanzitutto nell’esaminare qualsiasi
fatto umano tenendo conto, più che dei $ni perseguiti, delle conseguenze che necessariamente comportano i mezzi utilizzati. Non si può risolvere e
neanche soltanto porre un problema relativo alla
guerra senza aver prima smontato il meccanismo
della lotta militare, vale a dire analizzato i rapporti sociali che essa implica in determinate condizioni tecniche, economiche e sociali.

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Di guerra in generale si può parlare solo in termini
astratti; la guerra moderna differisce in modo assoluto da tutto quello che si designava con questo
nome sotto i regimi precedenti. Da una parte la
guerra non fa che prolungare quell’altra guerra
che si chiama concorrenza, e che fa della produzione stessa una semplice forma della lotta per il
predominio; dall’altra, tutta la vita economica è attualmente orientata verso una guerra a venire. In
questo inestricabile intreccio del militare e dell’e

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conomico, in cui le armi sono messe al servizio
della concorrenza e la produzione al servizio della
guerra, la guerra si limita a riprodurre in maniera
esasperata i rapporti sociali che costituiscono la
struttura stessa del regime. Marx ha mostrato chiaramente che il modo di produzione moderno si
de$nisce grazie alla subordinazione dei lavoratori
agli strumenti di lavoro, strumenti che appartengono a quelli che non lavorano, e come la concorrenza, non conoscendo altra arma che lo sfruttamento degli operai, si trasformi nella lotta di ogni padrone contro i propri operai e, in ultima analisi,
dell’insieme dei padroni contro l’insieme degli operai. Allo stesso modo la guerra, ai giorni nostri, si de$nisce in quanto subordinazione dei combattenti
agli strumenti di combattimento; e gli armamenti,
veri eroi delle guerre moderne, sono, al pari degli
uomini consacrati al loro servizio, retti da coloro
che non combattono. E poiché questo apparato dirigente non ha altro modo di scon$ggere il nemico
che costringere i propri soldati ad andare incontro
alla morte, la guerra di uno Stato contro un altro
Stato si trasforma in guerra dell’apparato statale e
militare contro il proprio esercito; e la guerra si presenta in de$nitiva come una guerra condotta dall’insieme degli apparati di Stato e degli stati maggiori contro l’insieme degli uomini validi in età da
portare le armi. Senonché, mentre le macchine si
limitano a strappare ai lavoratori la loro forza lavoro, e i padroni come strumento di coercizione
hanno solo il licenziamento (arma resa meno ef$cace dalla possibilità che il lavoratore ha di scegliere

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fra i diversi padroni), ogni soldato è costretto a sacri$care la sua stessa vita alle esigenze della macchina militare, e vi è costretto con la minaccia di
una condanna a morte senza appello che lo Stato
tiene incessantemente sospesa sulla sua testa. A quel
punto importa poco che la guerra sia difensiva o
offensiva, imperialista o nazionale; ogni Stato in
guerra è costretto a usare questo metodo, dal momento che lo usa il nemico. Il grande errore di quasi tutti gli studi sulla guerra, errore nel quale sono
caduti specialmente i socialisti, è di considerare la
guerra come un episodio di politica estera, mentre
costituisce innanzitutto un fatto di politica interna –
e il più atroce di tutti. Qui il punto non sono riflessioni sentimentali o un rispetto superstizioso della vita umana, ma un’osservazione molto semplice:
che il massacro è la forma più radicale di oppressione, e i soldati non si espongono alla morte, ma
sono mandati al massacro. Come un apparato oppressivo, una volta costituito, sussiste $nché non
viene abbattuto, ogni guerra che fa pesare un apparato incaricato di dirigere le manovre strategiche
sulle masse che vengono costrette a servire da masse di manovra dev’essere considerata come un fattore di reazione, anche se a farla sono dei rivoluzionari. Quanto alla portata esterna di una tale guerra,
essa è determinata dai rapporti politici stabiliti all’interno: armi maneggiate da un apparato di Stato sovrano non possono apportare la libertà a nessuno.
È ciò che aveva capito Robespierre e che ha clamorosamente provato quella stessa guerra del 1792,

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dalla quale è nata la nozione di guerra rivoluzionaria. All’epoca la tecnica militare era ancora lontana dall’aver raggiunto il grado di centralizzazione odierno; e tuttavia, a partire da Federico II, la
subordinazione dei soldati incaricati di eseguire le
operazioni al comando supremo incaricato di coordinarle era rigidissima. Durante la Rivoluzione,
una guerra doveva trasformare la Francia, come dirà Barère, in un immenso accampamento, e di conseguenza dare all’apparato statale quel potere inappellabile che pertiene all’autorità militare. È il calcolo che fecero nel 1792 la Corte e i Girondini: la
guerra, che una leggenda troppo facilmente accolta dai socialisti ha presentato come uno slancio
spontaneo del popolo insorto sia contro i propri
oppressori sia contro i tiranni stranieri che li minacciavano, costituì di fatto una provocazione da
parte della Corte e dell’alta borghesia unite in un
complotto contro la libertà del popolo. In apparenza si sbagliarono, poiché la guerra, anziché apportare quell’unione sacra da loro sperata, esasperò
tutti i conflitti, condusse il re, e poi i Girondini, al
patibolo, e mise nelle mani della Montagna un potere dittatoriale. Il che non impedì che il 20 aprile
1792, giorno della dichiarazione di guerra, ogni
speranza di democrazia svanisse per sempre; e al 2
giugno tenne dietro il 9 termidoro, le cui conseguenze dovevano ben presto portare al 18 brumaio.
A che servì del resto a Robespierre e ai suoi amici
il potere che esercitarono prima del 9 termidoro|
Scopo della loro esistenza non era impadronirsi
del potere, ma stabilire una democrazia effettiva, a

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un tempo democratica e sociale; per una cruenta
ironia della storia, la guerra li costrinse a lasciare
sulla carta la costituzione del 1793, a mettere in piedi un apparato centralizzato, a esercitare un terrore
sanguinario che non riuscirono neppure a rivolgere contro i ricchi, ad annientare ogni libertà, e a
farsi gli antesignani del dispotismo militare, burocratico e borghese di Napoleone. Almeno però rimasero lucidi $no all’ultimo. Due giorni prima di
morire, Saint-Just scriveva questa formula profonda: «Sono soltanto quelli che partecipano alle battaglie a vincerle, e sono soltanto i potenti ad appro$ttarne».1 Quanto a Robespierre, non appena si
presentò il problema, capì che una guerra non solo non avrebbe liberato nessun popolo straniero
(«non si porta la libertà sulla punta delle baionette»), ma per di più avrebbe consegnato il popolo
francese alle catene del potere statale, potere che
non si poteva più cercare di indebolire dal momento che bisognava lottare contro il nemico esterno.
«La guerra va bene per gli uf$ciali, per gli ambiziosi, per gli aggiotatori ... per il potere esecutivo ... È
una scelta che dispensa da ogni altro impegno,
quando gli si è data la guerra ci si è sdebitati con il
popolo».2 Robespierre prevedeva sin da allora il dispotismo militare, e non smise di predirlo in seguito, malgrado i successi apparenti della Rivoluzione;
lo prediceva ancora alla vigilia della sua morte, nel

1. In Discours et rapports, a cura di A. Soboul, Éditions Sociales, 1957, p. 208 (discorso del 27 luglio 1794).
2. In Textes choisis, a cura di J. Poperen, Éditions Sociales, vol.
I, 1956, pp. 129, 136, 137 (discorsi del 2 e 11 gennaio 1792).
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l’ultimo discorso, e lasciò dietro di sé questa predizione come un testamento di cui quelli che si sono
poi rifatti a lui non hanno purtroppo tenuto conto.
La storia della Rivoluzione russa offre in tutto e
per tutto gli stessi insegnamenti, e con un’analogia
impressionante. La costituzione sovietica ha avuto
la stessa identica sorte della costituzione del 1793;
Lenin ha abbandonato le sue dottrine democratiche per istituire, come Robespierre, il dispotismo
di un apparato statale centralizzato, ed è stato di
fatto il precursore di Stalin, come Robespierre lo
fu di Bonaparte. La differenza è che Lenin, il quale peraltro aveva già da tempo preparato questo dominio dell’apparato statale creando un partito fortemente centralizzato, deformò successivamente le
proprie dottrine per adattarle alle esigenze del momento, sicché non $nì ghigliottinato, e oggi è l’idolo di una nuova religione di Stato. Se c’è una cosa che colpisce, nella storia della Rivoluzione russa, è che la guerra costituisce costantemente il problema centrale. La rivoluzione venne fatta contro
la guerra da soldati che, sentendo disgregarsi sulla
loro testa l’apparato governativo e militare, si affrettarono a scuotere un giogo intollerabile. Kerenskij, evocando con una sincerità involontaria, dovuta all’ignoranza, i ricordi del 1792, appoggiò la
guerra per gli stessi motivi avanzati a suo tempo
dai Girondini: Trotzkij ha mirabilmente mostrato
come la borghesia, contando sulla guerra per rinviare i problemi di politica interna e riportare il popolo sotto il giogo del potere statale, volesse trasformare «la guerra $no alla disfatta del nemico in u

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na guerra per la disfatta della Rivoluzione».1 I bolscevichi chiamavano alla lotta contro l’imperialismo; ma in questione era la guerra stessa, non l’imperialismo, come ebbero modo di constatare quando, una volta al potere, si videro costretti a $rmare
la pace di Brest-Litovsk. Il vecchio esercito si era disgregato, e Lenin aveva affermato sulla scia di Marx
che la dittatura del proletariato non può comportare né esercito, né polizia, né burocrazia permanenti. Ma le armate bianche e il timore di interventi stranieri non tardarono a mettere l’intera Russia
in stato di assedio. L’esercito fu ricostituito, l’elezione degli uf$ciali soppressa, trentamila uf$ciali del
regime precedente reintegrati nei ranghi, la pena
di morte, la vecchia disciplina e la centralizzazione
furono ristabilite; parallelamente si andavano ricostituendo la burocrazia e la polizia. Tutti sanno cosa abbia fatto in seguito del popolo russo questo apparato militare, burocratico e poliziesco.
La guerra rivoluzionaria è la tomba della rivoluzione, e tale resterà $ntanto che non si sarà dato modo ai soldati stessi, o meglio ai cittadini armati, di
fare la guerra senza apparato dirigente, senza pressione poliziesca, senza giurisdizione speciale, senza pene per i disertori. Una sola volta, nella storia
moderna, la guerra si è combattuta così, durante
la Comune: e sappiamo bene com’è andata a $nire. Sembra che una rivoluzione impegnata in una
guerra non abbia altra scelta che soccombere sotto i colpi micidiali della controrivoluzione, o tra

1. In Histoire de la Révolution russe, vol. I, Le Seuil, 1967, p.
316.
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sformarsi a sua volta in controrivoluzione proprio
grazie al meccanismo della lotta militare. A questo
punto le prospettive di una rivoluzione sembrano
assai ridotte: come può una rivoluzione evitare la
guerra| Eppure è su questa labile possibilità che occorre puntare, o abbandonare ogni speranza. L’esempio che abbiamo sotto gli occhi dovrebbe metterci sull’avviso. In caso di rivoluzione, un paese
progredito non incontrerebbe le dif$coltà che, nella Russia retrograda, servono da base al barbaro regime di Stalin; ma una guerra di una certa portata
gliene provocherebbe altre per lo meno equivalenti.
A maggior ragione, una guerra intrapresa da uno
Stato borghese non può che trasformare il potere
in dispotismo, e l’asservimento in assassinio. Se la
guerra si presenta talvolta come un fattore rivoluzionario è solo perché costituisce una prova incomparabile per il funzionamento dell’apparato statale.
A contatto con la guerra, un apparato mal organizzato si disgrega; ma se la guerra non termina al
più presto e per sempre, o se la disgregazione non
è andata abbastanza avanti, si avranno solo quelle
rivoluzioni che, secondo la formula di Marx, anziché distruggere l’apparato statale lo perfezionano.
È quello che $nora si è sempre veri$cato. Ai giorni nostri, la dif$coltà che la guerra non fa che acuire è quella che nasce da una rivalità sempre più
grande fra l’apparato statale e il sistema capitalistico; il caso di Briey durante l’ultima guerra ne è
un esempio clamoroso. L’ultima guerra ha conferito ai diversi apparati di Stato una certa autorità
sull’economia, mettendo in uso l’espressione asso

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lutamente erronea di «socialismo di guerra»; dopo
di che il sistema capitalista si è rimesso a funzionare in maniera più o meno normale, a dispetto delle barriere doganali, del contingentamento e delle
monete nazionali. In una prossima guerra le cose
andrebbero senz’altro molto più lontano, e noi sappiamo che la quantità è in grado di trasformarsi in
qualità. In questo senso, la guerra può costituire ai
giorni nostri un fattore rivoluzionario, ma solo a
voler intendere il termine rivoluzione nell’accezione adottata dai nazionalsocialisti: come la crisi, la
guerra provocherebbe una viva ostilità contro i capitalisti, e tale ostilità, favorita dall’«unione sacra»,
tornerebbe a vantaggio dell’apparato statale e non
dei lavoratori. Del resto, per riconoscere la profonda parentela che lega il fenomeno della guerra a
quello del fascismo, basta rifarsi ai testi fascisti che
evocano lo «spirito guerriero» e il «socialismo del
fronte». In entrambi i casi abbiamo a che fare con
una cancellazione totale dell’individuo di fronte
alla burocrazia statale con il sostegno di un fanatismo esasperato. Se il capitalismo ne esce più o meno danneggiato, è però solo a spese e non a bene$cio dei valori umani e del proletariato, per quanto lontano possa forse spingersi in certi casi la demagogia.
Risulta quindi lampante l’assurdità di una lotta antifascista che assumesse la guerra come strumento
d’azione. Non solo si $nirebbe per combattere un’oppressione barbara schiacciando i popoli sotto
il peso di un massacro ancora più barbaro, ma si
$nirebbe per estendere sotto altra forma il regimeche si vuole sopprimere. È puerile supporre che un

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apparato statale reso potente da una guerra vittoriosa si metta ad alleviare l’oppressione che esercita sul proprio popolo l’apparato statale nemico, ed
è ancora più puerile credere che, appro$ttando della scon$tta, lascerebbe scoppiare una rivoluzione
proletaria in mezzo a quel popolo senza soffocarla
subito nel sangue. Quanto alla democrazia borghese annientata dal fascismo, una guerra non abolirebbe, bensì rafforzerebbe ed estenderebbe le cause che la rendono attualmente impossibile. Sembra
che in genere la storia costringa sempre più ogni
azione politica a scegliere tra l’aggravarsi dell’oppressione intollerabile che esercitano gli apparati
statali e una lotta senza quartiere rivolta direttamente contro di essi per distruggerli. Certo, le dif$coltà forse insormontabili che si presentano ai
giorni nostri possono giusti$care l’abbandono puro e semplice della lotta. Ma se non si vuol rinunciare ad agire, bisogna comprendere che non si può
lottare contro un apparato statale se non dall’interno. E, soprattutto in caso di guerra, bisogna scegliere fra l’intralciare il funzionamento della macchina bellica, della quale siamo un ingranaggio, e l’aiutare quella macchina a stritolare alla cieca le vite
umane. La celebre espressione di Liebknecht: «Il
nemico principale è nel nostro stesso paese» acquista così tutto il suo signi$cato, e si rivela applicabile a ogni guerra in cui i soldati sono ridotti allo stato di materia passiva in mano a un apparato militare e burocratico – vale a dire, $ntanto che persisterà la tecnica attuale, a ogni guerra in senso assoluto. E ai giorni nostri non è dato intravedere l’avvento di un’altra tecnica. Nella produzione come

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nella guerra, la maniera sempre più collettiva in
cui viene effettuato il dispendio delle forze non ha
modi$cato il carattere essenzialmente individuale
delle funzioni decisionali e direttive, e non ha fatto
che mettere sempre più a disposizione degli apparati di comando le braccia o la vita delle masse.
Finché non scopriremo come sia possibile evitare,
all’atto stesso di produrre o di combattere, questo
dominio degli apparati sulle masse, ogni tentativo
rivoluzionario avrà qualcosa di disperato: pur sapendo infatti quale sistema di produzione o di combattimento aspiriamo con tutta l’anima a distruggere,
ignoriamo quale sistema accettabile potrebbe sostituirlo. D’altro canto, ogni tentativo di riforma sembra puerile rispetto alle cieche esigenze chiamate
in causa dal funzionamento di questo congegno
mostruoso. La società attuale somiglia a un’immensa macchina che risucchi incessantemente degli uomini, e di cui nessuno conosca i comandi; e coloro
che si sacri$cano per il progresso sociale sono come persone che si aggrappano agli ingranaggi e alle cinghie di trasmissione per cercare di fermare la
macchina, facendosi stritolare a loro volta. Ma l’impotenza in cui ci si trova a un certo punto, impotenza che non è mai da ritenere de$nitiva, non dispensa dal restare fedeli a se stessi, né giusti$ca la
capitolazione davanti al nemico, indipendentemente dalla maschera che assume. E di qualunque nome esso si fregi – fascismo, democrazia o dittatura
del proletariato –, il nemico principale resta l’apparato amministrativo, poliziesco e militare; non
quello che ci fronteggia, e che è nostro nemico solo in quanto lo è dei nostri fratelli, ma quello che si

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dice nostro difensore e fa di noi i suoi schiavi. In
qualunque circostanza, il peggior tradimento possibile consiste sempre nell’accettare di sottomettersi a questo apparato e, per servirlo, di calpestare in
sé come negli altri tutti i valori umani.

éditions gallimard

(S. Weil, Oeuvres complètes, vol. II: Écrits historiques et politiques,
1988, pp. 287-99)
http://www.gallimard.fr/

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