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Introduzione alla Kabbalah

Il significato della parola Kabbalah è Tradizione, o più
precisamente: trasmissione orale per Tradizione.

Le origini si perdono nei tempi: di derivazione culturale
ebraica con influssi neo-platonici,neo-pitagorici, gnostici, del
Parsismo, come la conosciamo oggi è una teoria di sintesi.

Testi sacri: lo Zohar, il Libro dello Splendore, un commento
tutto interiorizzato del Pentateuco (Genesi, Esodo, Levitico,
Numeri, Deuteronomio) più appendici varie ed il Sepher Yetzirah,
il Libro della Formazione, in cui viene descritta la formazione del
mondo con numeri e lettere.

Noi prendiamo lo schema cabalistico, o Albero della Vita, o
Glifo Otz Chiim e con esso interpretiamo i Testi Sacri che
consideriamo guide dateci dai Maestri dell’Antichità per giungere
alla reintegrazione, alla riunione con l’Assoluto, scopo della vita.
Passiamo ora ad esaminare i suoi simboli:


Su di essi sono stati scritti numerosi libri.


Unità, perfezione, forza, nulla, tutto eccetera


Ritmo di potenza, organizzazione del potere,
trinità


Completezza, solidità, ordine, sistema

I numeri da 0 a 10.

Le 22 lettere dell’alfabeto ebraico che corrispondono ai
Tarocchi.

Facciamo corrispondere i numeri (0-10) alle Sephiroth
(radiazioni, emanazioni) e le lettere (Trionfi dei Tarocchi) ai


Cineroth (Sentieri). Lo studio del simbolismo e dei rapporti tra di
loro delle 11 Sephiroth e dei 22 Cineroth, costituisce quello che è
chiamato studio delle 33 vie della Saggezza.

Studiando questo schema in noi attraverso i Testi Sacri
dovremmo arrivare alla comprensione per analogia,
comparazione, intuizione o visione della Causa delle Cause,
essendo noi fatti a sua immagine.

Noi consideriamo l’universo manifestazione di una Sostanza
Primordiale Assoluta, Dio e lo schematizziamo così:

Ain = negatività


Piani dell’esistenza
Ain Soph = infinito

non manifestazionale
Ain Soph Aur = luce infinita

Al centro poniamo lo 0, Kether, la Corona alla sommità della
colonna centrale dell’Albero, corrispondente al centro al di sopra
della testa, loto dei 1.000 petali, l’Antico degli Antichi, l’Avo.

Da questa Sephirah, Kether emana Chockmah,
la Saggezza, alla cima della colonna di destra, maschile detta della
Grazia, corrispondente ad un altro centro fuori della testa, il
Grande Padre, il Nonno (1).

Da Chockmah emana Binah (2), suo reciproco ed interagente,
che poniamo alla sommità della colonna sinistra, femminile, della
severità. Binah = Comprensione, la Grande Madre, la Nonna,
corrispondente sempre ad un centro fuori della persone fisica.

Da Binah emana Daath (3), la Coscienza, la Sephirah occulta
che si manifesta solo nel “ritorno al Padre”, al Kether, corrisponde
al centro in mezzo agli occhi, è il figlio. Verbo.

“Tutto fu fatto per mezzo di Lui e senza di Lui nulla fu fatto
di quanto esiste”. (Giov. 1,1)

Termina così il primo piano manifestazionale, il primo
quadrato, il piano divino Atziluth (Emanazione) archetipale,
corrispondente al Fuoco; perfetto dove non entra errore, al di sotto
del quale si trova l’Abisso; è questa la sede della Shekinà, forza
divina, il suo serbatoio.

Da Daath emana Chesed (4), Giustizia, Amore, Grazia, il
Padre, Giove. Occupa il secondo posto sulla colonna maschile.

Virtù: obbedienza, equilibrio, retto comando.

Vizio: tirannia, gola. Centro della gola.

Da Chesed emana Geburah (5), la Forza, la Severità, la
Madre. Occupa il secondo posto nella colonna di sinistra
femminile. Marte.

Virtù: coraggio.


3

Vizio: violenza. Centro in mezzo alle spalle.

Da Geburah emana Tipheret (6), Bellezza, Arte, il figlio,
l’Agnello sacrificale. Sole. Al terzo posto nella colonna
dell’Equilibrio.

Virtù: dedizione all’Opera.

Vizio: orgoglio, invidia. Centro del cuore.

Termina qui il secondo quadrato, il piano Briah, mondo della
Creazione corrispondente all’elemento Aria, mentale.

Da Tipheret emana Netzach (7), Vittoria, donna florida,
Venere.

Virtù: abbondanza, altruismo, donazione.

Vizio: lussuria. Al terzo posto nella colonna della Grazia.
Centro del Plesso Solare.

Da Netzach emana Hod (8), Splendore, Mercurio, centro al di
sotto dell’ombelico, al terzo posto nella colonna della Severità.

Virtù: abilità in ogni campo, scienza, verità.

Vizio: falsità. Disonestà.

Da Hod emana Yesod (9), il Fondamento, Luna. L’Ebreo
errante nel deserto.

Virtù: indipendenza tale da far decidere il ritorno al Padre.

Vizio: pigrizia. Centro degli organi genitali, quarto posto nella
colonna dell’Equilibrio.

Termina qui il terzo quadrato, quello del piano della
formazione Yetzirah astrale, corrispondente all’Acqua.

Da Yesod emana Malkuth (10), il Regno, la Sposa del figlio,
alla base della colonna centrale centro, alla base della spina
dorsale (piedi).

Virtù: salute.
Vizio: malattia. La Terra. Corrisponde al quarto quadrato , al
piano fisico, Assiah, mondo concreto.
Lo studio dell’Albero della Vita consiste nel meditare sui

centri e sui sentieri che li uniscono, i 22 Trionfi studiando e
approfondendo i loro significati in noi, nella nostra esperienza
quotidiana (qui e ora).

Per il significato esoterico dei Tarocchi, rimandiamo al testo
di O. Wirth “I Tarocchi” e ai nostri raccontini.



TAVOLA DEI 22 SENTIERI

Numero Lettera Valore Tarocco
1 A 1 Il Mago

2 B 2 La Porta del Santuario
3 G 3 Iside Urania
4 D 4 La Pietra Cubica
5 E 5 L’Iniziato
6 V-U 6 Le due Strade
7 Z 7 Il Carro

CH
8 H 8 La Giustizia
9 TH 9 L’Eremita
10 I–Y 10 La Ruota
20
11 C-K 500 La Forza
12 L 30 Il Sacrificio
13 M 40 La Morte
600
14 N 50 La Temperanza
700
15 S-X 60 Il Diavolo
16 O 70 La Torre
17 P-PS 80 Le Stelle
F-PH 800
18 T-S 90 La Luna
900
19 Q 100 Il Sole
20 R 200 La Resurrezione
21 S-SH 300 La Corona dei Magi
22 T 400 Il Folle


5

Canto
I


Versi 1-13

Cominciamo con l’inquadrare subito tutta la vicenda storica in una
visione cabalistica e col porla tutta sull’Albero; fatto questo avremo
ovviamente semplificato di molto il lavoro di interpretazione e reso molto
più facile ritrovare i vari personaggi vivi e operanti in noi stessi Due
eserciti, quello dei figli di Dhritarâstra e quello dei figli di Pându sono l’uno
di fronte all’altro per contendersi il “Regno”.

Ad “esercito” diamo il significato di forza e a “regno”, come al
solito, quello di Malkuth, Pietra, piano fisico, Assiah. Abbiamo due
eserciti, uno legittimo e uno usurpatore, a servizio uno dei re legittimi e
l’altro degli usurpatori, vale a dire una forza legittima (volta al bene) e una
forza usurpatrice (volta al male): cioè l’albero bianco e l’albero nero in
lotta fra di loro.

Quale è stata la causa prima di questa contrapposizione? Perché si è
avuta la separazione della forza originaria “Una” in due forze contrastanti
fra di loro? Rivediamo il fatto storico narrato: il re primogenito Dhritarâstra
è cieco, vale a dire non “vede” come dovrebbe non ha l’occhio aperto
(quello della visione interiore). Questa simbologia del primo nato
imperfetto ci riporta alla qualità propria dell’umanità terrestre; tutti coloro
che si trovano su questa terra hanno il loro “primogenito accecato”
(ricordiamo Caino che uccide Abele; Esaù che cede la propria
primogenitura a Giacobbe; Zera che deve cedere a Perez della Genesi) ciò
vuol dire che una “cecità” (caduta) si è verificata all’inizio ed ha generato
questa nostra situazione di “scontro” e, come vedemmo nei succitati episodi
della Genesi, è al secondo nato (e ai suoi eredi) che spetta di “governare” il
“Regno”: non a

D H R I T A R Â S T R A

4 + 8 + 200 + 10 + 400 + 1 + 200 + 1 + 300 + 90 + 200 + 1 = 1415 = 11


(Forza cieca), ma agli eredi di

P Â N D U

80 + 1 + 50 + 4 + 6 = 141 = 6

(Innamorato) di colui che sa amare il duro sentiero nel modo “giusto” nel
Tiphereth (6) bianco, toccherà il “Regno”. Notiamo che i figli di
Dhritarâstra sono 100 (valore del Sole, Tiphereth nero, il solito 666 numero
del Dragone dell’Apocalisse) mentre i figli di Pându sono solo 5; ma 5 è il
numero dell’iniziato, della quintessenza, del punto 0 della croce Zen.
Quando i figli di Pându sono cresciuti abbastanza

Y U D H I S T H I R A

10 + 6 + 4 + 8 + 10 + 60 + 90 + 8 + 10 + 200 + 1 = 407 = 11

(11, Forza che agisce al bianco) richiede il regno che spetta di diritto a lui e
ai suoi fratelli.

K R I S N A

20 + 200 + 10 + 300 + 50 + 1 = 581 = 5

nella sua qualità di “Pontifex”, 5 = Papa, cerca di comporre il dissidio tra le
due Forze, ma alla fine la guerra vera e propria è inevitabile. Il conflitto si
svolge nel campo di

K U R U

20 + 6 + 200 + 6 = 7, nel “Carro” e

S A N J A Y A

60 + 1 + 50 + 3 + 1 + 10 + 1 = 126 = 9

(Eremita nero), scruta, esamina per il suo re nero la scena: egli valuta le
potenzialità attive nemiche (bianche). Vengono nominati ben 15 personaggi
tutti operanti nell’albero bianco 15 = (16 – 1) i quattro elementi per i quattro
piani meno il fuoco di fuoco, lo 0 Kether, Motore Immobile.


Vengono poi esaminate le proprie qualità attive (nere) e nominati 7
personaggi, il che significa che l’albero nero si riconosce attivo, a quel
punto della situazione, solo su due piani (nei quattro elementi dell’astrale e
nei tre elementi inferiori del mentale) e non ancora sul piano fisico, essendo
il Regno, il Malkuth in contestazione; è il solito processo di avanzamento
della forza del male: mentale, astrale, fisico. Viene poi riconosciuta
l’incompletezza dell’albero nero e la completezza dell’albero bianco
(incompleto il primo, sufficiente il secondo) ma, ciò nonostante, è
confermata la decisione di combattere.

Da

B H Î S M A
2 + 8 + 10 + 300 + 40 + 1 = 361 = 1
ricaviamo il Bagatto capovolto, nero, la volontà di male-operare e questa,
da parte dell’esercito nero, va “protetta” a tutti i costi. Quando tale
decisione è riconfermata, si dà inizio alla guerra vera e propria. L’anziano
dei Kaurava, il serpente antico, suona la conca marina ed ecco il conflitto.

Versi 14-19

All’esercito nero risponde l’esercito bianco: ad una ad una le energie
volte al bene si sollevano e si fanno udire, ciascuna di loro con la sua
qualità specifica; il suono delle “conche divine” è il suono che risveglia il
chackra e lo mette in azione. A Hrisîkesa (Krisna) che suona la Gigantea,
attribuiamo le Sephiroth Tiphereth e Daath (come al Cristo del Vangelo); a
Dhanañjaya (Arjuna) che suona la Diodonata, Yesod; a Sahadeva che suona
la Gemmata, Chesed; a Vrikodara che suona l’Arundinea, Geburah; a
Yudhisthira che suona la Vittoriosa, Netzach; a Nakula che suona la
Dulcisona, Hod. E tutto l’albero con tutti i suoi sentieri si riscuote e il suono
delle armi delle forze del bene (che fa echeggiare la terra e il firmamento)
“punge il cuore di tremore” delle forze del male.


Versi 20-30

Il Pândava,

A R J U N A

1 + 200 + 3 + 6 + 50 + 1 = 261 = 9

è il nostro Yesod, il nostro Eremita che, di fronte alla battaglia, si
pone il problema della validità della lotta, di qui “l’angoscia di Arjuna”,
titolo del primo canto. Egli vuol vedere, fare il punto della situazione e
prega la sua Coscienza, Krisna, Io Sono, Cristo, Daath: “O Immortale,
guida il mio carro nel mezzo, fra i due eserciti” così da rendersi conto della
realtà della lotta e delle forze in giuoco. Arjuna per mezzo del suo Sé
superiore “vede” i padri, gli avi, i maestri, gli zii ecc. cioè le sue stesse
energie legate alla colonna di destra in entrambi gli eserciti sia nel bianco
che nel nero.

Arjuna si sente svenire, inizia a tremare e subisce tutti i sintomi della
confusione psichica e mentale (“avversi auspici scorgo a Kesava”).

L’illusione gli fa velo dinanzi agli occhi e il “regno”, il piano
assianico, la Pietra, perde di significato, la stessa vita gli si depaupera
davanti. Vedere la propria energia parte volta al bene e parte al male e
laceratesi in se stessa suggerisce il suicidio (o il lasciarsi morire) come
unica soluzione possibile; questa soluzione può sembrare a prima vista
meno cruenta e violenta di quella di combattere.


Versi 31- 47

Il discorso di Arjuna col suo “Io Sono” è carico di tristezza: la
personalità in Yesod bianco ha già superato un certo attaccamento alla
vittoria, al regno, ai piaceri (di Assiah), ma teme la sofferenza (Yetzirah);
quando l’unità in noi è compromessa, anche una possibile vincita del bene
sembra una sconfitta, tanto è dolorosa al perdita di parte di noi (maestri,
padri, figli, avi ecc., volti al male), soprattutto se la contestazione sembra
riguardare solo il piano fisico (Malkuth) e non l’astrale e il mentale; la lotta
infatti porta all’inizio la sofferenza solo sul piano fisico e poi, in seguito,
scompensi sugli altri due piani. Ricordiamo che il male nasce in Briah
(mentale, v. commento alla Genesi 3, 1: “perché non dovete mangiare del frutto dell’albero del bene e del male?” >),
viene coltivato in Yetzirah e si palesa in Assiah, nello “sterminio delle
famiglie”. Poi però con lo sterminio delle famiglie si “perdono le
osservanze eterne” e con la loro perdita “prevale l’empietà”; da questa
deriva la “corruzione delle donne” e dalla loro corruzione “la mescolanza
delle caste”; noi diciamo che la colonna femminile dell’albero quando si
“corrompe” dimentica i suoi regolari rapporti con la colonna di destra (Hod
con Netzach e Geburah con Chesed) e li altera nei piani… creando così
“l’inferno”.

Arjuna in un primo tempo vede solo la prima parte dell’opera del
male, poiché non è stato ancora illuminato da Krisna, crede allora che “non
combattere” sia il male minore; “pose in disparte le frecce e l’arco e nel
carro si assise”, ma poi si sveglierà dalla sua illusione e “combatterà perché
quello è il suo “dovere” di Guerriero.


CANTO II

Versi 1- 3.

Allorché la personalità in Yesod (Arjuna = 9) chiede al suo Sé
Superiore (Krisna) aiuto e consiglio, la risposta non tarda ad arrivare. Da

M A D H U
30 + 1 + 4 + 8 + 6 = 49 = 13
ricaviamo il 13 della Morte, infatti il Sé Superiore è il vincitore della morte,

Colui che distrugge la morte; da

P Â R T H A
80 + 1 + 200 + 400 + 8 + 1 = 690 = 6
ricaviamo il 6 del Bivio e da

P A R A N T A P A
80 + 1 + 200 + 1 + 50 + 400 + 1 + 80 + 1 = 814 = 4
il 4 dell’Imperatore. L’Io Sono esorta la sua personalità a non essere vile e a

decidere (6) con volontà (4) quello che deve fare.


Versi 4 – 5.

Arjuna espone il suo problema: come combattere contro Bhîsma (10)
e

D R O N A ?

4 + 200 + 70 + 50 + 1 = 325 = 10

il 10, Malkuth è la base dell’albero su ogni piano, corrisponde al centro
dove la forza stessa nella sua primordialità “dorme”, uccidere tale forza
porterebbe solo a godere “gioie intrise di sangue”; poiché la lotta, come
abbiamo visto nel 1° canto si svolge tutta sull’astrale e sul mentale e il
sangue è il veicolo dell’astrale, lottare con il proprio Yesod nero (Malkuth
di Yetzirah) e con il proprio Tiphereth nero (Malkuth di Briah), non può
essere pagato che a prezzo di sangue, del proprio sangue.

Versi 6 – 8.

La personalità di per sé “non sa” e non sapendo non può che
assumere la posizione di discepolo di fronte al Maestro Interiore, una volta
che l’ha riconosciuto: “Te ne supplico, m’insegna” ; essa teme di perdere
parte di se stessa nella lotta tra bianco e nero per la conquista del piano
fisico, il “prospero regna sulla terra” ed è disposta a rinunciare perfino al
“dominio degli Dei” (astrale-mentale, essendo gli Dei le Sephiroth).

Versi 9 – 15.

La risposta dell’Io Sono alla personalità timorosa è data
“sorridendo”: all’umiltà della sua creatura il Sé Superiore risponde
amorevolmente, anzi, gli riconosce addirittura di “parlare savie parole”,
infatti chi si pone in Yesod (Arjuna) è Eremita e profeta, saggio in un primo
grado di saggezza; non dimentichiamo che Yesod è il Kether del piano
fisico, il punto in linea diretta di comunicazione con Daath; in fondo tutte le
Sephiroth della linea centrale non sono altro che specchiature del Kether di
Atziluth e ad Esso affini ed intime. Inizia ora l’insegnamento del Maestro:
“Né per i vivi né per i morti i saggi menano cordoglio”. È subito messa in
evidenza la centralità della posizione del saggio (distacco dalle due vie, sia
di destra, [i vivi] che di sinistra, [i morti] ). L’identità nella sostanza con il
Principio Primo, “Quello”, anche se nella specchiatura, è affermata e
sottolineata: “Né vi fu tempo mai in cui Io non fossi ecc.”; questa frase ci
riporta al Vangelo di Giovanni: “In principio era il Verbo (Daath), e il


Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio ecc.”. All’inalterabilità dello 0
Kether, “Innominabile Ciò”, “Quello”, si oppone la mutevolezza della
manifestazione e ciò è talmente ovvio da essere subito compreso dal saggio,
come pure il fatto che solo alla manifestazione, all’esistenza quale noi la
conosciamo, è legata la schiavitù della sofferenza dei contrari: caldo e
freddo, piacere e dolore, eccetera.

Da

K A U N T E Y A

20 + 1 + 6 + 50 + 400 + 5 + 10 + 1 = 493 = 16 = 7

ricaviamo le due sfingi del Carro e da

B H Â R A T A

2 + 8 + 1 + 200 + 1 + 400 + 1 = 613 = 1

l’uno del Bagatto e diciamo che il saggio, colui che sta sul Carro, il Bagatto
ormai conscio della sua missione, se vuol trascendere i contrari non deve
lasciarsi turbare da essi.

Versi 16 – 30.

Inizia con questi versetti l’insegnamento di Krisna ad Arjuna su ciò
che è proprio dello Spirito, la parte immortale che è in ognuno di noi. Esiste
una parte peritura, quella della manifestazione che, rimanendo come è
(irreale) mai può divenire Reale ed una parte imperitura, quella Reale, che è
all’origine della manifestazione, (l’Immanifesto) che mai può divenire
irreale, è il Tao, il Kether, l’Assoluto, il Ciò, Dio. I corpi della
manifestazione sono per questo Quid, X, Tao, ecc. come abiti che Egli
depone quando li ha usati, per prenderne altri nuovi, pertanto non ci si deve
preoccupare se le nostre energie nella lotta tra bene e male vengono uccise,
in ogni caso prima o poi verranno ad esaurirsi, poiché “per chi è nato la
morte è sicura e per chi è morto è certa la nascita”. L’apparire e lo
scomparire degli esseri a causa della manifestazione è ciclico: quando la
manifestazione rientra nello 0 Kether, oltrepassa i tre veli della non
manifestazione Ain, Ain Soph, Ain Soph Aur di cui nulla sappiamo, quando
dal Kether essa ha origine appare nella coppia complementare Chockmah-
Binah e di lì, attraverso la discesa dei vari piani si solidifica in Malkuth, da
cui di nuovo deve tornare al Kether; ma nessuno conosce la Realtà del
Kether (il Tao che può essere detto non è l’Eterno Tao) però sappiamo che è


in noi perché sentiamo di essere fatti a Sua immagine, (“Iddio creò l’uomo a
Sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschi e femmina lo creò”- Gen.
1, 27).

Versi 31 – 38

Ma la cosa importante per noi è conoscere il nostro dovere. Qual è il
nostro dovere? Quello inerente a ciò che noi siamo.

Se siamo giunti ad essere Ksatriya, cioè “Guerriero” inteso come
“colui che deve combattere le proprie battaglie interiori” (e non è una
qualifica da poco) allora il nostro dovere è la lotta e dobbiamo essere lieti di
tale lotta perché “felici i Ksatriya che tale guerra spontaneamente sorta
ottengono ecc.”, rifiutare di combattere se si è “guerrieri” vuol dire cadere
in peccato; “peccato” è quindi non compiere il proprio dovere, da ciò deriva
il “disonore”, la perdita della qualifica di “guerriero”; invece se si combatte,
anche perdendo nella lotta, si acquisterà sempre il “merito” (un relativo
premio, accumulo di Karma positivo) per averci provato (“otterrai il
Paradiso”).

Versi 39 – 40.

“Questo insegnamento si riferisce al Sânkhya”: Sânkhya vuol dire
“Sapienza”, ma letteralmente “misura”, cioè “numero”, vale a dire “la
Scienza delle Sephiroth”; a questo insegnamento Krisna affianca quello
inerente allo Yoga, al comportamento, ai mezzi atti alla realizzazione del
Sânkhya; Yoga vuol dire “unione”, vale a dire “la Scienza relativa ai
“Cineroth” (cinerah = sentiero, percorso tra una Sephirah ed un’altra)”.
Colui che partendo dal dubbio

P R I T H Â
80 + 200 + 10 + 400 + 8 + 1 = 699 = 6
si applica allo studio del Sânkhya e dello Yoga si libera dai legami del

K A R M A
20 + 1 + 200 + 40 + 1 = 262 = 10
la Ruota delle rinascite.


Versi 41 – 44.

Nell’applicazione cosciente dello Yoga, la legge dei sentieri, si
percorre il Sentiero, in cui si indirizza la mente ad un unico obiettivo: la
Reintegrazione; se invece si segue la religione nelle sue prescrizioni
letterali, cerimonie e riti vincolati al desiderio di ottenere il paradiso per
avere godimento e potere (v. Matteo 23, 5: “i Farisei fanno tutte le loro
azioni per essere veduti dagli uomini, portano larghe le loro filattèrie ecc.”)
si è stolti e si fallisce lo scopo.

Versi 45 – 53

Nei due attributi (Guna) Sattva = purezza e Tamas = oscurità noi
ritroviamo le due colonne dell’Albero e lo Yang e lo Yin della concezione
taoista; in Rajas, il terzo attributo il continuo cambiamento tra i primi due
attributi (v. il racconto n. 14 dei Tarocchi, la Temperanza) di essi uno dà,
l’altro toglie, ad essi sono legati tutti i contrari e i contrasti; le religioni
ufficiali, nella comprensione essoterica dei testi sacri (i Veda) su cui si
basano, si legano ai contrari perché di essi vivono, occupandosi del governo
e dell’educazione del popolo (prescrivono una cosa, ne proibiscono
un’altra); ma il saggio, l’iniziato ha già superato il problema etico, egli deve
compiere il suo dovere, l’azione, libero frutto dell’azione, cioè non per
ottenere un qualsivoglia premio, ma solo per il Sé Superiore.

La “devozione” all’Io Sono è la centratura dell’Albero, il percorso
diretto dopo aver abbandonato dare e avere, merito e demerito… allora le
Sacre Scritture, a quel punto, vengono usate solo come supporto e da ultimo
abbandonate per l’esperienza della contemplazione diretta.

Verso 54

Allorché la personalità comincia a capire il linguaggio del suo Io
Sono, ecco che le domande divengono pratiche: che debbo fare? ( = che
vuoi che io faccia?).

Versi 55 – 61.

E ora la risposta: abbandona tutti i desideri della mente, sii
soddisfatto in Te Stesso, tienti egualmente distante dalla gioia e dal dolore e
ritirati in Te Stesso; allorché avrai visto il Supremo in te, non desidererai
più nulla. Certo questo non è affatto facile (Kaunteya = 7, il Carro, saper
guidare il Carro) ma è allora che l’Io Sono si fa sentire più vicino; Krisna
dice: tu domina i sensi e fissati in Me, in un amore esclusivo, unico (quello
stesso che unisce Israele e Jahvé).


Versi 62 – 72.

È qui descritto il processo della caduta: il male nasce in Briah si
sviluppa in Yetzirah, si concretizza in Assiah; una volta concretizzato sul
fisico, distrugge il piano astrale prima, poi il mentale e conduce alla
disintegrazione, l’opposto della Reintegrazione. Krisna dice che il punto di
partenza è il pensiero, pensare all’oggetto dei sensi, poi segue il desiderio e
l’ira nell’azione e quindi la mancanza di discernimento (azioni errate) da
questo la confusione della memoria (si dimentica lo scopo
dell’incarnazione) e da essa al perdita del raziocinio e la follia .

Il controllo su di sé invece dà tranquillità, cessazione dei dolori,
costanza nello scopo ultimo (la Reintegrazione).

Obbedire agli irrequieti sensi significa non “saper navigare nelle
acque” e lasciarsi da esse travolgere. Invece comandare loro

M A H Â B Â H U
40 + 1 + 8 + 1 + 2 + 1 + 8 + 6 = 67 = 4
Imperatore, colui che esercita la sua volontà vuol dire diventare di mente
costante; ed ecco che allora tutti i valori vengono rovesciati rispetto
all’uomo comune: la notte diviene giorno, il giorno, notte; cioè quello che
“vale” per l’uomo comune è negletto dall’iniziato (ricchezze, onori, ecc.),
quello che esso trascura è di valore per l’iniziato (solitudine, silenzio,
concentrazione, eccetera).

Il 2° canto della Gita, lo Yoga per mezzo del Sânkhya, il Sentiero per
mezzo della conoscenza degli Attributi Divini, termina dicendo che si deve
tendere alla “pace”, ma che questa può essere raggiunta solo con la
cessazione di ogni desiderio (anche quello della pace); solo lasciando l’idea
di ogni possessione e sciogliendosi da ogni attaccamento si perviene alla
Coscienza del quarto stato, quello che fa percorrere il sentiero Daath-
Kether, nella Riunificazione finale.


Canto III

Versi 1 – 9.

La personalità in Yesod (Arjuna = 9) entra sempre più nel vivo del
colloquio interiore col suo Sé; gli appellativi di

J A N Â R D A N A
3 + 1 + 50 + 1 + 200 + 4 + 1 + 50 + 1 = 311
300 = valore della Corona dei Magi (21) e 11 della Forza e

K E S A V A
20 + 5 + 300 + 1 + 6 + 1 = 333
valore del 3 (Daath) sui tre piani, fotografano la corretta comprensione del
rapporto di Arjuna col suo Krisna: solo nel giusto riconoscimento del Sé
superiore (333) come unica forza (11) in grado di conquistare il mondo (21)
c’è la possibilità di ottenere l’illuminazione che dà la beatitudine. Due sono
i problemi posti da Arjuna in questo canto; ecco il primo quesito: se la
devozione intesa come “contemplazione” è superiore all’azione perché
bisogna agire?

La risposta del Sé è subito chiarificante; da

A N A G H A
1 + 50 + 1 + 3 + 8 + 1 = 64 =1
ricaviamo l’1 del Bagatto e diciamo che Krisna si rivolge ad Arjuna nella
sua qualità di Mago, di Agente dei quattro elementi e gli spiega che la
devozione come applicazione della scienza del Sânkhya, contemplazione
delle Sephiroth, attributi divini, è una delle due vie, quella degli asceti;
l’altra via, quella degli yogî, è l’attuazione della devozione nell’azione,
svincolata dall’aspettativa del frutto dell’azione. È questo un non-agire
attivo, contrario del semplice non-agire, che è annichilimento. Il non-agire
attivo va inteso non come repressione dei desideri, ma come loro
sublimazione, è una trasformazione, trasmutazione dell’agire comune, è un
agire facendo “sacra” ogni azione, perché la “sacralizzazione” è la base
della Reintegrazione.


Versi 10 – 13.

All’inizio tutto era “sacro”;

P R A J Â P A T I
80 + 200 + 1 + 3 + 1 + 80 + 1 + 400 + 10 = 776 = 20
la Forza primordiale nella sua qualità creatrice, aveva stabilito che il
sacrificio, azione sacra, dovesse sostentare gli Dei, nutrire i chackra, nei
quali gli Dei risiedono; allora gli uomini avrebbero potuto fare qualsiasi
cosa avessero desiderato, gli Dei essendo da loro sostentati, avrebbero
elargito “i favori desiderati”. Il contrario avviene quando gli uomini
sfruttano gli Dei, i poteri delle Sephiroth, nell’egoismo del sé personale: è
come se “rubassero” la divina Shekinà, l’energia stessa. Si possono
“mangiare i resti del sacrificio”, cioè utilizzare per la personalità i poteri
solo se sono “resti” cioè se l’utilizzazione è secondaria allo scopo primo che
è la sacralizzazione, l’offerta di ogni cosa al Sé Superiore; preparare il cibo
per sé è peccato.

Versi 14 – 17.

E poi il Sacrificio è Dio stesso; come? Se la sostanza Prima
(Brahman), espressa come Verbo, ha donato la Sacra Parola e perciò la
Sacra Scrittura (i Veda), se nella Sacra Scrittura si prescrive la retta azione
sacrale che produce la pioggia e se da questa deriva il cibo che nutre tutte lo
creature da Dio create, allora si vede che il circolo si chiude e tutto è come
una ruota che gira. Questa ruota in termini cabalistici è rapportabile alla
discesa della Shekinà che dallo 0 Kether del Piano Atzilutico scende per
mezzo del Verbo (Daath) nel Piano Briatico (i Veda) poi attraverso il
sacrificio (Tiphereth) nel Piano Yetziratico (la pioggia, umido, vitale, che
nutre le creature) fino a raggiungere nel Piano Assianico, Malkuth, nella
Pietra da cui ritorna per mezzo del Sacrificio Tiphereth, nel percorso
centrale dell’Albero, in Kether. Chi fa girare la ruota in tale maniera compie
il Piano (“non vive invano”), tuttavia la centratura nel mozzo della ruota
(cfr. Tao tê Ching cap. XI) è ancora più realizzante, tanto che chi in quello
riesce a porsi (l’uomo che in Se stesso e nel Sé soltanto è soddisfatto) “non
ha più nulla da fare”.

Versi 18 – 24.

Per colui che è fisso nel Sé Superiore non c’è più alcun altro
interesse. Decadendo ogni interesse secondario, tutto è realizzato nello stato
di Coscienza dell’Assoluto; abbiamo esempio di siffatti Maestri in


J A N A K A
3 + 1 + 50 + 1 + 20 + 1 = 76 = 4
(Imperatore dell’Albero) e gli altri… noi diciamo: Mosè, Lao Tzé, Budda,
Gesù ecc. ma bisogna notare e prendere atto che ad un certo punto
dell’autorealizzazione (espansione verticale), deve subentrare il Servizio
(espansione orizzontale), “per il benessere della moltitudine dovresti agire”.
Il Servizio si compie dapprima con l’esempio (“quello che un grande uomo
fa, gli altri fanno del pari”) poi aderendo alla funzione Daatica,
coscienziale. La Coscienza Daath, infatti, pur non avendo nulla a che fare
con i tre mondi inferiori (Briah, Yetzirah, Assiah) pure ad essi si mescola
indefessamente per evitare la loro caduta nell’incoscienza; è invero la
Coscienza che mantiene l’ordine nei piani evitando la “mescolanza delle
caste” cioè i rapporti illeciti tra le Sephiroth delle due colonne all’interno
dell’Albero (v. commento al vers. 41 del 1° canto).

Versi 25 – 35.

Il disinteresse è alla base dell’agire senza agire, tuttavia nel suo
servizio il saggio non deve porre questo problema a chi non è in grado di
recepirlo e di con-prenderlo; egli si limiti a dimostrare con i fatti che cosa
significhi essere “devoto nell’azione”. I tre attributi (Guna) sono la causa
del “modo” di agire, ma l’uomo comune è illuso dall’egoismo e crede di
agire lui stesso (v. il n. 10 dei Racconti dei Tarocchi); colui che risvegliato
“vede”, conosce la differenza tra il Sé, gli attributi e l’azione, conosce come
funziona l’Albero (Daath, le colonne, i sentieri) e vede l’illusorietà dei piani
inferiori, ne rimane distaccato e non turba coloro che sono ignoranti, ciò
vuol dire che non “regala” la conoscenza esoterica (“non gettate le vostre
perle ai porci” Matteo, 7, 6): questa deve maturare all’interno di ogni
persona e da essa stessa essere coltivata. L’unica occupazione del Discepolo
Ksatriya (personalità in Yesod) deve essere quella di combattere con la
mente “fissa” (e non vagante) in Daath, senza “cavillare” l’insegnamento
del suo Maestro interiore, senza discutere, perché discutendo, obiettando e
protestando si perdono tempo ed energie, si rimane così “privi di
discernimento, illusi e perduti”.

D’altronde, ognuno di noi segue la propria “natura”: il saggio quella
relativa ad un karma positivo, lo stolto quella relativa ad un karma
negativo… questa legge non può essere alterata.

Ma chi può discernere la vera dottrina deve evitare a tutti i costi di
rendersi soggetto ai contrari: desiderio e avversione; egli deve solo
compiere il proprio dovere, quello inerente alla situazione in cui si trova,
sciolto dai legami dei contrari.


Se si tenta di evitare il proprio dovere (avversione) per desiderare
“altro” si crea solo ulteriore Karma. Se il proprio dovere non è che il
pagamento del karma precedente, creare altro karma vuol dire aggiungere
debito a debito, il che è assolutamente “pericoloso per chi vuole ottenere la
beatitudine”.

Versi 36 – 43.

Ed ecco il secondo quesito di Arjuna in questo canto: quale è la causa
del peccato, dell’errore, che a volta l’uomo commette senza neanche
volere? L’appellativo di

V Â R S N E Y A
6 + 1 + 200 + 300 + 50 + 5 + 10 + 1 = 573 = 15
il Diavolo ci dà qui l’identificazione di Krisna con il Signore dei contrasti
(solve, coagula) e come tale Egli risponde al suo Discepolo: è il desiderio
che capovolgendosi diviene “ira” (Geburah nero), la malefica divoratrice;
quando nel mentale e nell’astrale si verifica l’invasione dell’Albero, allora
nasce l’errore. La conoscenza (mentale) viene rivestita di questo desiderio
di possesso, che vuole avere per sé invece di essere uno con il Sé e ,
alterando quei due corpi sottili (mentale, astrale) giunge a “confondere”, a
velare, a rendere poco chiaro lo Spirito alla personalità.

Perciò l’unico nemico da combattere è questo desiderio di possesso.
Nella scala dei valori si deve riconoscere una graduatoria: nella creazione
tutto è “grande”, ma i sensi vengono trascesi dall’intelligenza, l’intelligenza
dalla ragione (intesa come discernimento), la ragione dallo Spirito;
conoscendo ciò il Discepolo guerriero (Mahabahu = 4) domina i sensi,
l’intelligenza e la ragione e uccide il nemico, il desiderio di possesso,
imparando così ad esercitare lo “Yoga dell’azione”.


Canto IV

Versi 1 – 3.

Consideriamo questi primi tre versetti come un riferimento all’antica
età dell’oro, quando ancora la dottrina “non era perduta nel mondo”; ecco
allora che ponendo Krisna in Daath, la diretta successione tra Krisna e
Vivasvat (il Sole) è il sentiero Daath-Tiphereth, così Manu risulta essere
Yesod e Iksvaku Malkuth; quando il Malkuth, il Mondo non segue più le
regole della Legge, la dottrina va “perduta”, fino a che (prima o poi) un
Malkuth-Yesod (Arjuna) ridivenuto “devoto e amico” di Daath (Krisna) non
ottiene di nuovo che “la dottrina venga dichiarata”: è questo “l’Altissimo
Mistero”, è la Redenzione del Cristo (Krisna).

Versi 4 – 10.

La personalità al suo livello di coscienza non vede l’Unicità dell’Io
Sono a livello sottile; quel poco che conosce del suo Sé Superiore lo sente e
lo vede legato alla sua propria vita terrena, egli non riesce a trascendere il
tempo e lo spazio, ma vuol sapere e chiede, ed ecco che il Signore gli parla
di Sé: Egli è la Monade che ha sperimentato numerose altre vite, tutte unite
fra loro ed ora a quella particolare personalità (Arjuna). Il Sé Superiore,
Daath, “quantunque non nato” (“In Principio era il Verbo e il Verbo era
presso Dio e il Verbo era Dio” Giovanni, 1, 1) di tempo in tempo si riveste
di un corpo e allorché nel Malkuth l’albero nero (i malvagi) sta per prendere
il sopravvento sull’albero bianco (i buoni) si manifesta per distruggerlo. La
personalità che conosce la vera natura del suo Sé Superiore, quando muore,
non rinasce, ma si identifica con Lui. Tutti i grandi Maestri hanno
sperimentato questa beatitudine; come? “Liberandosi da ogni attaccamento,
timore e ira, assorti nell’Io Sono, in Lui rifugiati e purificati dal fuoco della
Sapienza” (del Sacrificio della Sapienza).

Versi 11 – 12.

Qui è sottolineato il libero arbitrio della personalità (cfr. canto IX v. 25
“quelli che adorano gli Dei vanno agli Dei, agli avi vanno quelli che
adorano gli avi, vanno agli spiriti malvagi coloro che adorano gli spiriti
malvagi; ma quelli che Mi adorano vengono a Me”), ma poi in definitiva,
benché il modo per giungere all’Io Sono sia molteplice “qualunque sia”, il
Sentiero in realtà è Uno, è la Via del Signore.


Versi 13 – 22.

I quattro piani di Coscienza (la quadruplice divisione in caste) sono
stati creati dallo Stesso Verbo (“Tutto è stato fatto per mezzo di Lui, e senza
di Lui niente è stato fatto di ciò che esiste” Giovanni, 1, 3).

Ecco le quattro caste indù sull’Albero:

Atziluth


la casta dei Brahmana: conoscere

Briah

la casta dei Ksatriya: combattere

Yetzirah

la casta dei Vaisya: produrre

Assiah

la casta dei Sudra: servire

con i quattro stati di coscienza e i relativi attributi e doveri, ma la Sephirah
Daath (pur essendo il sostegno dei quattro stai) rimane “non agente e
indistruttibile” (occulta), non vincolata dalle azioni delle altre Sephiroth.

Nell’età dell’oro, prima della caduta (stato edenico) ogni azione era
compiuta “in vista della liberazione”, per la Divinità: bisogna tornare a
quello stato. È lo stato dell’azione pura, in cui si riesce a vedere l’inazione
nell’azione e l’azione nell’inazione (cfr. Tao tê Ching cap. XXVIII: “Colui
che si riconosce gallo ma si comporta come una gallina è il burrone del
mondo, ecc.; colui che conosce il bianco ma si attiene al nero è la misura
del mondo; colui che conosce l’onore ma resta nella vergogna è la valle del
mondo, eccetera”).

Questo stato è quello in cui, rinunziando all’attaccamento al frutto
dell’azione, si è sempre lieti perché agenti senza agire (cfr. ancora Tao tê
Ching cap. XXIII: “Perciò colui che agisce in conformità con la Via [Tao]
si identifica con la Via. Quando si identifica con la Via allora si rallegra
dell’acquisizione della Via. Quando si identifica con il successo, allora si
rallegra dell’acquisizione del successo. Quando si identifica con la sconfitta,
allora si rallegra con l’acquisizione della sconfitta, eccetera”).


Versi 23 – 30.

L’azione compiuta in tale stato non è azione, ma “sacrificio” in una
unificazione totale con l’Essere supremo: “Brahman è l’offerta, Brahman è
l’oblazione ecc.”. non c’è nessuna differenza tra l’oggetto, il mezzo, il
soggetto, il Fine. L’azione sacrificale che è poi basata sul comandamento
principale del Vangelo: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore,
con tutta la tua anima, con tutta la tua mente” (Matteo, 22, 37), può
riguardare ogni facoltà umana: udito, sensi, energie vitali, fortuna,
penitenza, meditazione, studio, saggezza, castità, digiuno (praticamente
ogni Sephirah di ogni piano) e il sacrificio di ognuna di queste facoltà,
purché corretto e totale (che collassa nel suo Kether), porta all’eterno
Brahman; noi diciamo che il passaggio per Tiphereth, la Sephirah del
Sacrificio è la via diretta per la Reintegrazione, Tiphereth essendo il punto
centrale della rotazione dell’albero (v. schema dell’albero ridotto a chackra
[ruota] in cui “il cielo scende, la terra sale” v. il n. 12 dei Racconti dei
Tarocchi).

Atziluth
Briah


Tiphereth
Yetzirah
Assiah

Atz.
Yetz. Bri.
Ass.

Versi 31 – 37.


Nel canto III, 10-11, Krisna aveva detto: “Il Sacrificio deve
sostentare gli Dei e gli Dei sostentati accordano agli uomini i favori
desiderati”; ora qui viene detto che chi non fa sacrifici non ottiene questo
mondo, né tanto meno gli altri; ne deriva allora che il “potere” (sempre
discendente dall’alto) non può che essere ottenuto che col “Sacrificio”,
operando al bianco, e che solo in seguito può essere capovolto per fini
egoistici, ma per breve tempo, solo fino a che l’energia accumulata
operando nel bene non si esaurisce.

I Testi Sacri (i Veda) prescrivono varie specie di sacrifici, ma il
sacrificio della Sapienza è il più alto perché comprende tutti gli altri. Far
sacra la Sapienza vuol dire prima imparare da Chi è Saggio (l’Io Sono),
facendosi discepolo, servendo e domandando, poi “sacralizzando” ogni atto,
ogni moto, tutto. Ad un certo momento si vedrà che tutti gli esseri non sono
altro che lo specchio di noi stessi e ciò che noi emettiamo (pensieri,
sentimenti, azioni) ci ritorna negli altri; così ci ritroviamo liberi e svincolati
o oppressi e legati a seconda di come ci siamo comportati (“in tal modo tutti
gli esseri vedremo prima in noi stessi”); da ultimo, quando avremo
identificato noi stessi col Sé Superiore, allora saremo in grado di vedere
tutti gli esseri in Cristo-Krisna: il lebbroso, la prostituta, l’assassino,
l’animale, il filo d’erba.

In quel momento, pur essendo stati i più grandi peccatori, conseguita
la Sapienza, bruceremo nel suo Fuoco tutti gli effetti delle nostre azioni.


Versi 38 – 43.


La Sapienza è la facoltà più alta a cui si possa aspirare; la vera
Sapienza è solo quella che si trova dentro di noi; i mezzi per ottenerla sono:
dominio dei sensi, diligenza, fede, devozione al Sé. La vera Sapienza dona
la pace al contrario dell’ignoranza che porta al dubbio e all’infelicità.

Sapienza, Saggezza, per la scienza cabalistica è Chockmah, la prima
Sephirah emanata dal Kether e non può che essere attribuita al quarto livello
di Coscienza, quello Atzilutico, infatti solo penetrando il Piano Causale nel
contatto con l’Io Sono si può conoscere realmente il proprio dovere
(Dharma), ma la penetrazione di quel Piano è consequenziale al silenzio dei
tre piani inferiori: del fisico nei sensi, dell’astrale per mezzo della diligenza,
del mentale per mezzo della fede e, una volta impugnata la spada della
Sapienza, bisogna saper recidere i legami che ancora ci imprigionano
“sorgendo”, risorgendo, come la Fenice dalle proprie ceneri…


CANTO V

Versi 1 – 5.

Il concetto del Wu-wei (agire senza agire) o “saper vedere (e
realizzare) l’inazione nell’azione e l’azione nell’inazione” (canto IV, 18) è
molto difficile da penetrare e assimilare, tanto è vero che Arjuna (la
personalità) in un primo momento fa confusione. Egli vede la non-azione,
vede l’azione, ma non riesce a intuire la trascendenza dell’azione non-
azione; però subito il suo Maestro, Krisna, Io Sono, gli chiarifica il
problema.

Il contemplare gli attributi divini (Sephiroth) che avevamo
identificato con la Scuola del Sânkhya e il percorrere i sentieri (Cineroth)
che avevamo identificato con la scuola dello Yoga, sono in realtà la stessa
cosa, perché tendono entrambi alla Reintegrazione; solo che lo Yoga
(ovviamente basato sulla rinuncia delle azioni, come viene spiegato in
questo canto) è preferibile in quanto corrispondente al dharma di uno
Ksatriya. In entrambi i casi chi “vede” veramente (perché ha sviluppato la
Sephirah Daath, centro in mezzo agli occhi) “vede” che le due scuole sono
una sola.

Versi 6 – 10.

Studiando l’I Ching abbiamo verificato che ogni possibile
combinazione degli opposti (Yang e Yin, linee spezzate e linee intere), cioè
ognuno dei 64 esagrammi relativi alle 64 situazioni archetipali della vita
umana, se spinto (forzato) alla perfezione (al Kether), a causa della sua
struttura cabalistica, ad Albero (la maglia che compone il tessuto della
creazione) può divenire Realizzante. Che cosa intendiamo per Realizzante?
L’esperienza di vivere l’attimo come espressione dell’Eterno Presente “qui
ed ora”, come dice lo Zen: “Muori mentre vivi e sii interamente morto. Poi
fa ciò che vuoi e tutto sarà giusto (Bunan, Mumonkan 14° Koan)”. Ecco che
Krisna in questi versi indica ad Arjuna la stessa tecnica: pur agendo, “nel


vedere, nell’udire, nel toccare, nell’odorare, nel mangiare, nel muoversi, nel
dormire ecc.”, l’uomo devoto pensa: “Io non faccio nulla, i sensi si
muovono tra gli oggetti del senso”. In quel suo “non far nulla” il devoto
attua il Kether (0, non-azione) dell’azione, della Sephirah nel Sankhya,
della Cinerah nello Yoga… certo tale stato è difficile da conseguire, ma nel
momento che lo consegue, “il saggio tosto raggiunge Brahman”.

Bisogna tendere a questo stato. Come? Con l’essere dediti alla
devozione, puri di mente, dominando la propria natura e i sensi,
identificandosi col proprio Sé e col Sé di tutte le creature: solo così si agisce
senza essere contaminati. Anche nei Racconti dei Tarocchi avevamo
scoperto che lo spingere l’azione nel suo Kether (al suo estremo limite)
significa farla sbocciare ne Divino… è la trasformazione alchemica, il
compimento dell’Opera, è quello che nello Yoga avviene quando la
posizione “Si” produce, quando si entra in uno stato di Equilibrio
Impersonale. Perfetto: l’azione non è più azione, è Azione non-Azione.

Versi 11 – 17.

Allorché l’azione è compiuta senza attaccamento, allora purifica il
corpo, la mente, l’intelletto e i sensi, cioè svincola tutta la persona del
“devoto” dal suo Karma e gli permette di conseguire la pace; questo è tutto
il contrario di quello che avviene nell’uomo comune attaccato al frutto
dell’azione, che invece sempre di più si vincola con karma positivo o
negativo, costringendosi a tornare e a ritornare sulla terra per adempiere
ogni volta al proprio dharma. E lo Spirito, la Coscienza, Daath, che fa nel
frattempo? “Dimora sereno nella città delle 9 porte”, cioè nell’Albero,
nell’individuo. Le nove porte del corpo della tradizione indiana possono
corrispondere alle Sephiroth secondo questo schema:


Daath occhi (2) vista
Chesed bocca (gola) (1) parola
Gheburah narici (polmoni) (2) respirazione
Tiphereth orecchie (del cuore) (2) ricordo (delle vite prec.
)
Netzach pelle (fegato, stomaco) sangue (assimilazione)
Hod uretra (reni)



ricambio
Yesod genitale


(1) riproduzione
Malkuth ano
(1) escrezione
(le corrispondenze sono utili per concentrare la purificazione sul chackra
legato all’organo o all’apparato che ha qualche disfunzione).

Ora se “il Signore non riceve il peccato e nemmeno il merito di
alcuno” e se “Esso non agisce e non è causa di attività”, allora chi agisce?
La natura. Avevamo visto nel canto III, v.27 che “ogni maniera di azione è
causata dagli attributi della natura”, ma questa “natura” in noi si manifesta
come karma, cioè come effetto di cause create da noi in precedenza; ecco
che allora la “natura” in noi viene ad essere determinata da noi stessi non
però in quello che siamo, ma in quello che saremo; di qui la necessità di
agire con distacco per non creare vincoli di sorta, e di mantenere la mente
“concentrata in Ciò, essendo Ciò, intenti in Ciò, avendo come meta suprema
il Ciò”. Per andarcene e “non tornar mai più”.


Versi 18 – 29.


È qui elencata tutta la serie delle regole che permettono al discepolo
di stabilirsi definitivamente nell’azione non-azione reintegrativa. Molte
sono le ripetizioni, ma Krisna, essendo il Maestro per eccellenza sa
perfettamente che “repetita iuvant” e insiste: si deve essere equanimi,
impersonali, verso i maestri, verso gli animali, verso gli esseri di casta
inferiore.

Equanimità vuol dire centralità, né a destra, né a sinistra, ma al centro
e nel punto più alto, nel punto 0 Kether, Brahman. Riposando in Brahman
non c’è da rallegrarsi “quando si ottiene ciò che è piacevole” (si è già in
beatitudine, che cosa si può aggiungere?), né tanto meno “affliggersi
quando si ottiene ciò che è spiacevole” (in tale letizia indolore o la
sofferenza non può che sfiorarci solo superficialmente).

Le gioie legate ai sensi o Kaunteya (= 7, Signore del Carro,
dominatore delle due sfingi) iniziano e poi finiscono e quando finiscono
provocano dolore, il saggio (Kaunteya) non se ne occupa ma, ancora
nell’incarnazione, dominando il tumulto dei corpi inferiori, tutto
concentrato nel Sé, consegue la Pace di Brahman, sempre intento al
benessere di ogni creatura (Servizio), consapevole dell’unità del creato.

Ed ecco la tecnica pratica: rendere uguale l’inspirazione e
l’espirazione (prendere e dare, le due colonne dell’Albero) concentrando lo
sguardo (l’attenzione) sulla Sephirah Daath; escludere i contatti esterni
(avere come unico scopo la Reintegrazione); infine riconoscere il Sé come il
Supremo Signore di tutti i mondi e l’Amico di tutte le creature, solo così si
consegue la Vera Pace.


Canto VI

Versi 1 – 4.

L’accenno a non “trascurare il Fuoco Sacro” apporta un elemento
nuovo all’insegnamento di Krisna: il discepolo saggio, il “devoto”, colui
che riesce a unificare in sé le due qualità specifiche del rinunciatario
(Sannyâsî) e del devoto nell’azione (Yogî), è quello che “agisce” e “ha
cura” del Fuoco Sacro. Come dobbiamo intendere questo “Fuoco Sacro”?
probabilmente come fuoco di tutti i livelli di coscienza: da quello fisico
della custodia del fuoco in sé (più avanti si parlerà di voto di Brahmacâri,
castità, relativa a Yesod) a quello astrale, dei sentimenti, che possiamo
chiamare amore (relativo a Tiphereth), a quello mentale, che possiamo
chiamare Coscienza Universale (relativo a Daath). La cura del Fuoco Sacro
è dunque il percorso centrale dell’Albero; tale percorso sta in equilibrio tra
la colonna della Grazia (l’azione) e la colonna della Severità (la non-azione

o tranquillità), quando le due vie sono divenute entrambe mezzo di
innalzamento, armonizzate tra loro e svincolate dal desiderio di possesso (v.
canto III, 43).
Versi 5 – 9.

È qui sottolineata la verticalità dell’Albero: innalzarsi è dare la
scalata all’albero bianco, abbassarsi è capovolgere l’albero e quindi
discendere nell’albero nero. Nessuno ci spinge in una direzione o nell’altra;
noi soli siamo i nostri amici noi soli i nostri nemici. I tre corpi inferiori
possono essere di aiuto (“… la Pietra che i costruttori hanno scartata è
diventata testata d’angolo” Matteo 21, 42) può esserci inciampo (“… chi
cadrà sopra a questa Pietra verrà sfracellato eccetera.” Matteo 21, 44); sta a
noi, alla nostra capacità di soggiogarli, avere in essi collaboratori o
sabotatori a tal punto che in colui che ha dominio su di sé il Sé Supremo si
manifesta e il sé inferiore diviene centrato (“incrollabile nel freddo e nel
caldo, nel piacere e nel dolore altresì nell’onore e nel disonore”).


Lo Yogî, dice Krisna, per essere chiamato “devoto” deve
“considerare a un pari la zolla, il sasso e l’oro”: sono le stesse caratteristiche
del Budda della 101° storiella Zen (ed. Adelphi) e la definizione di “ottimo”
(“ottimo è colui che considera uguali i conoscenti, gli amici, i nemici ecc.”)
è molto simile a quella del “buon salvatore di uomini” del Tao Tê Ching
cap. XXVII: “così il Santo è costantemente un buon salvatore di uomini
perché lo è senza respingere nessun uomo. Anche tra coloro che non sono
buoni, chi viene respinto, eccetera?”.

Versi 10 – 15

Ecco un ‘altra serie di indicazioni tecniche per diventare Iniziati (cfr.
“I Ching” esagramma 52: “Tener quieto il proprio dorso, così che egli non
avverta più il suo corpo”, e Tao tê Ching cap. XXXIII): ritirarsi in
solitudine senza voler possedere nulla e, senza speranza di ottenere risultati,
meditare; in un ambiente puro (dove non ci sia fumo o aria viziata o
confusione e disordine, né ammalati e neppure ci siano state controversie o
discussioni) si pratichi la concentrazione e la meditazione con “il corpo, il
capo, il collo eretti” (è lo star ritti iniziatico, per la crescita del braccio
verticale della croce); “in un posto né troppo alto né troppo basso, su cui è
distesa l’erba kusa, la pelle d’antilope e il panno”: è qui indicato nel suo
simbolismo il mondo minerale, vegetale e animale, messo a servizio dello
scopo reintegrativo. “Lo sguardo fisso sulla punta del naso” è la
concentrazione (conversione) degli occhi e perciò dell’attenzione su Daath,
escludendo qualsiasi altro interesse. “La mente in pace” indica il tacere dei
pensieri inutili; “libero da timore” è l’osare iniziatico, “costante nel voto di
Brahmacâri” significa che l’energia che si risveglia nel Malkuth non viene
dispersa all’esterno, ma che tutta concentrata va fatta risalire fino a Daath
(“prefiggendosi Me quale meta suprema”) da cui il passaggio a Kether è
consequenziale essendo Daath e Kether tutt’uno nel Causale (“Come Tu
Padre sei in me ed io in Te” Giovanni, 17, 21).

Versi 16 – 23.

Il grande merito della “devozione” è la sua capacità di distruggere la
sofferenza, ma solo se legata ad un continuo equilibrio (“il correre sul filo
del rasoio” dello Zen): non mangiare troppo né troppo poco; non dormire
troppo né troppo poco; esercitarsi il giusto, rimanendo indifferente agli


oggetti del desiderio, con la mente fissa nel Sé come una fiamma “che non
vacilla”, poiché il vento del Briah (mentale) è stato placato (v. Tao tê Ching
cap. XLVIII).

Da che cosa si vede che è stato raggiunto lo stato della “devozione”?
Quando la mente è quieta, quando si è sempre sereni, sempre felici della
Realtà del Sé, quando in quella felicità non si è turbati neanche da grande
dolore; ecco, dal suo distacco dal dolore si riconosce il “devoto”.

Versi 24 – 32.

Le istruzioni date in questi versetti sono tutte relative al controllo
della mente; sembra di vederlo questo mostro multiforme (è il serpente a 12
teste del 3° racconto dei Tarocchi) che tenta di prendere il sopravvento e
che invece deve essere “frenato” da tutti i lati da parte dello Yogî che vuol
diventare uno con Brahman e ottenere la “sempiterna gioia”.

Poi ancora una volta viene riaffermato il rapporto speculare della
personalità con gli altri rispetto del Sé. Per la persona comune esistono tre
enti ben distinti e separati tra loro (se non in contrasto): la Divinità, l’io
personale con le sue continue attrazioni per il piacere e repulsioni per il
dolore e gli altri; nell’iniziato (Yogî) tutto è centralizzato e unificato: l’io
personale è unito al suo Sé per mezzo dell’adorazione, nella linea verticale
della croce ed è unito agli altri per mezzo della linea orizzontale della croce,
perché “egli giudica il piacere e il dolore di tutte le creature in analogia a se
stesso”. Questa centralità (v. schema dell’Albero ridotto a ruota, canto IV)
si realizza in Tiphereth, Sacrificio, e trasforma completamente la natura
dello Yogî, cosicché egli non è “perduto”, inutile, vano, “illuso” (come la
persona comune), ma vive direttamente nel Sé, nell’Io Sono, nel Cristo-
Krisna.

Versi 33 – 36.

Alla semplicità dell’insegnamento del Maestro Arjuna oppone la
difficoltà della pratica, chiamando Krisna con l’appellativo di

M A D H U S U D A N A

40 + 1 + 4 + 8 + 6 + 60 + 6 + 4 + 1 + 50 + 1 = 181 = 1


Chockmah, Saggezza, il dispensatore della conoscenza esoterica: è assai
difficile frenare la mente e in effetti se è facile identificarsi col Sé
Superiore, dopo cinque minuti però la mente se ne va per conto suo e pensa
ad altro… è come il vento che soffia dove vuole (Briah). Krisna riconosce
la difficoltà, ma poi specifica che due sono i mezzi per ottenere il dominio
della mente: esercizio continuo e distacco più completo da ogni desiderio di
frutto d’azione, dopo aver conseguito un buon controllo di sé.

Versi 37 – 47.

Ancora la personalità, timorosa di non riuscire a causa
dell’incostanza della propria mente, chiede al suo Sé Superiore conforto e
sicurezza; essa vorrebbe non perdersi, non perdere nel nulla tutti gli sforzi
compiuti per tentare di raggiungere la perfezione e amorevolmente l’Io
Sono spiega alla sua creatura (chiamandola “figliolo”) che nulla di buono va
mai perduto: ogni rinascita porta con sé una nuova possibilità di
raggiungere la Reintegrazione, ma nella nuova vita colui che ha già
percorso il Sentiero ritrova in sé gli stessi orientamenti prima (“anche
contro il voler suo è spinto dalla medesima pratica come nel passato”), poi
tutte le acquisizioni precedenti (“egli si innalza al di sopra delle scritture”).
In ogni modo la perfezione finale (la meta suprema) è il risultato di molte
vite vissute “sforzandosi grandemente” percorrendo il Sentiero… tuttavia la
cosa più importante resta quella di essere “un devoto” dell’Io Sono; questo
è preferito fra tutti e non ha più da percorrere sentieri perché essendo il
“Suo” devoto è già con Lui nel mozzo della Ruota.


Canto VII

Versi 1 – 3.

Nella completa aderenza all’Io Sono, al Principio Cristico, alla
Coscienza Daath, è la possibilità di conoscere l’Essenza della Divinità: una
volta conosciuta Questa per mezzo della sapienza e dell’esperienza “non
rimane più nulla a conoscere in questo mondo”; è il “Tutto è compiuto” del
Vangelo di Giovanni (19, 30).

Nella ricerca esoterica la decimazione è la regola: su 1.000 ricercatori
in Assiah, 100 in Yetzirah; su 100, 10 in Briah, su 10, 1 in Atziluth, perché
“molti sono chiamati ma pochi gli eletti”. Infatti pochi si sforzano verso la
perfezione (per mancanza di volontà) e pochissimi si identificano col Sé
Superiore (per mancanza di conoscenza).

Versi 4 – 6.

Ecco dunque la ripartizione con relativa spiegazione della natura
inferiore dell’Io Sono: otto elementi che possiamo comodamente collocare
sull’Albero: terra, acqua, aria, fuoco, etere: Assiah e Yetzirah; intelligenza,
ragione e coscienza: Briah; infine la natura che “è il principio di vita dal
quale questo universo è mantenuto”: il Piano Divino, Atziluth.

Da questa ottuplice natura (i quattro piani della coscienza)
provengono tutte le creature, come da una matrice (Prakriti, Binah, la
Grande Madre) e in essa si possono distinguere due funzioni, una di
costruzione e una di dissoluzione: sono le due colonne dell’Albero; alla
colonna della Grazia è legata la forza centrifuga che costruisce, alla colonna
della Severità quella centripeta che dissolve; sono le stesse due funzioni
della respirazione: l’espirazione che emette, l’inspirazione che prende.


Versi 7 – 11.


Krisna si identifica qui col principio maschile Chockmah che feconda
la matrice Binah (“il filo che penetra le perle”); Egli è quindi “il sapore
delle acque” (quello che le qualifica), “lo splendore del sole e della luna” (il
Daath di Tiphereth e Yesod nella linea centrale dell’Albero); “l’Om dei
Veda” (il Suono creativo, il Verbo che dona la Sacra Scrittura, che si riflette
nei piani più bassi e permette agli uomini di essere uomini e non animali).

“La fragranza della terra, il fulgore nel fuoco, la vita nelle creature,
l’austerità negli asceti” sono le qualità peculiari per cui tutte queste cose
sono quelle che sono; l’Io Sono è dunque il principio della loro essenza
specifica; l’Io Sono come Chockmah (essere), è il principio maschile,
“l’eterno seme di tutti gli esseri, l’intelletto dei sapienti, la gloria dei
gloriosi, la forza dei forti, l’affetto non incompatibile con il dovere” in cui
rispettivamente gli esseri, i sapienti, i gloriosi, i forti, ecc. rappresentano il
principio femminile di Binah (avere).

Il tutto però nella costruzione dell’Albero bianco (“la forza esente dal
desiderio e dalla passione” e “l’affetto non incompatibile con il dovere”),
specificazione necessaria ancora una volta per ribadire la completa in
contaminazione del Piano Atziluth.

Versi 12 – 19.

Ancora sulla natura dell’Io Sono abbiamo la spiegazione di come
possano coesistere Immanenza, Trascendenza e Immortalità nella Divinità,
ma per poter comprendere ciò bisogna non farsi ingannare dai tre attributi;
l’unico modo per oltrepassare l’illusione (Maya) da essi derivata è quello di
ricorrere direttamente all’Io Sono. Chi riesce in questo? Cominciamo con
l’escludere coloro che operano al nero (“gli operatori di iniquità ecc.”), e i
malvagi che si rendono simili ai demoni (forze accumulate al nero); costoro
sono completamente esclusi dalla conoscenza del Sé. Di quelli che operano
al bianco abbiamo, come al solito, quattro categorie: la prima è
caratterizzata dalla sofferenza; “colui che soffre” è chi opera al bianco in
Assiah (soffre = subisce), appartiene alla casta dei Sudra (v. schema pag.
38); la seconda categoria è caratterizzata dalla fortuna; “colui che ricerca la
fortuna” è chi opera al bianco in Yetzirah (fortuna = attività onirica legata
alle passioni e all’emotività), appartiene alla casta dei Vaisya; la terza
categoria è caratterizzata dalla sapienza; “colui che ricerca la sapienza” è


chi opera al bianco in Briah (sapienza come ricerca è studio ed è legata al
mentale), appartiene alla casta degli Ksatriya, come Arjuna che combatte
per trovare la sapienza, ormai consapevole della meta; infine la quarta
categoria è quella superiore alle altre, caratterizzata dal possesso della
sapienza: “colui che ha la sapienza” è chi opera in Atziluth, che adora
l’Uno, che è sommamente diletto alla Divinità, il “devoto”, che appartiene
alla casta dei Brahmana, di coloro che si reintegrano.

Tutte le quattro categorie sono valide, ma l’ultima, quella del devoto
è insuperabile perché entra a far parte della natura stessa dell’Io Sono.

Per poter far parte di questa quarta categoria bisogna aver vissuto
molte vite nella terza ricercando continuamente la sapienza e, dopo averla
ottenuta, è necessario deporla (perderla) nel Sé Superiore e a Lui
sacrificarla (v. canto IV, 33).

Versi 20 – 30.

E al termine della vita, delle altre tre categorie che avviene? Coloro
che adorano gli Dei (Sephiroth) vanno agli Dei, cioè a quegli Enti che essi
stessi hanno posto al di fuori di sé, con quelle caratteristiche che essi stessi
hanno attribuito loro; ma anche quando, ad essi dedicando la propria fede,
vengono esauditi nei loro desideri, in realtà vengono esauditi dall’Io Sono
(Daath) che è il sostegno occulto di tutto l’Albero. Tuttavia riuscire ad avere
i propri desideri esauditi è sintomo di “intelligenza limitata” (“a che vale
guadagnare il mondo intero se poi si perde l’anima?”, in cui per anima si
intende Spirito, Io Sono). Coloro che a tal fine tendono, ignorano l’Essenza
Suprema della Divinità e rimangono perciò illusi e nella loro delusione
perché non riescono a raggiungere la felicità.

La differenza tra il manifesto e l’Immanifesto è la Conoscenza; il
manifesto, l’Albero da Daath in giù, è soggetto ai tre attributi e perciò ai
contrari, l’Immanifesto (0 Kether) è libero da ogni legame.

L’Io Sono, il Cristo-Krisna, Daath partecipa delle due nature: del
manifesto è la Coscienza, dell’Immanifesto, 0 Kether è il Figlio (essendo
tutt’uno col Padre) Immortale.

Quando il devoto, l’iniziato, “giunge al termine del suo peccato” e
per peccato si intende venir meno al 1° Comandamento: “Io Sono il Signore
Dio tuo, non avrai altro dio all’infuori di me” (che corrisponde alla
“caduta”) e adora l’Io Sono, sforzandosi di liberarsi dalla nascita e dalla
morte, allora egli finalmente può penetrare il significato e l’essenza di


B R A H M A N
2 + 200 + 1 + 8 + 40 + 1 + 700 = 952 = 7
Tutto, Assoluto, dell’intero

A D H Y Â T M Â
1 + 4 + 8 + 10 + 1 + 400 + 40 + 1 = 465 = 15
del superamento degli opposti e di tutto il

K A R M A
20 + 1 + 200 + 40 + 1 = 262 = 10
la Ruota di causa ed effetto.
Conoscendo il Sé come

A D H I B H U T A
1 + 4 + 8 + 10 + 2 + 8 + 6 + 400 + 1 = 440 = 8
la giusta manifestazione (


) e come
A D H I D A I V A
1 + 4 + 8 + 10 + 4 + 1 + 10 + 6 + 1 = 45 = 9
l’Eterno Seme (Yesod), si giunge alla compenetrazione di

A D H I Y A J N A
1 + 4 + 8 + 10 + 10 + 1 + 3 + 50 + 1 = 88 = 7
l’Io Sono, il Cristo, che tutti li riassume e ci si può reintegrare (“Mi

conoscono al tempo della morte”).


Canto VIII

Versi 1 – 4.

Possiamo collocare sull’Albero tutti i termini della filosofia indiana
citati da Krisna e di cui Arjuna vuol conoscere il significato: Brahman è lo 0
Kether cosmico, l’Assoluto, l’Uno senza secondo, l’Innominabile Ciò da
cui deriva come scintilla il Kether individuale (Adhyâtmâ), Presenza dell’Io
Sono nell’individuo, il Padre del cristianesimo. Karma è la forza per cui la
divina Shekinà scende in esilio per sperimentare la realtà dei quattro mondi
fino a che l’esilio non termina ed Essa (la Sposa) si ricongiunge alla
Coscienza Daath (lo Sposo). In Adhibûta ritroviamo il principio di morte
(Binah) e in Adhidaiva il principio di vita (Chockmah). Infine consideriamo
Adhiyajna come Daath, la Coscienza del corpo incarnato, il Figlio, Cristo,
Krisna, Mentale Superiore, fuoco del mentale.

Versi 5 – 10.

Notiamo che nell’esortazione del Maestro a “ricordarsi di Lui al
tempo della morte” non viene fatta differenza tra Lui Stesso (Daath) e
“l’Antico Veggente”, Sovrano (Kether) più minuto dell’atomo, sostenitore
di ogni cosa, di forma inimmaginabile, splendente come il Sole (Tiphereth)
ecc.; è questa una dimostrazione del fatto che nella coincidenza Malkuth
Yesod (il discepolo)-Tiphereth Daath Kether (il Maestro) si attua
l’istantanea centratura dell’Albero e si realizza la perfezione finale, il che
ovviamente non avviene se ci si indirizza ad altre Divinità (Hod, Netzach,
Gheburah, Chesed).


Versi 11 – 15.


Questo sentiero centrale è “descritto brevemente”: è il Sentiero
indistruttibile indicato dalle Sacre Scritture (in generale e dai Veda in
particolare), che inizia col Malkuth-Yesod (il voto di Brahmacârî), prosegue
con il fissare la mente in Tiphereth (il cuore) e termina con la
concentrazione nel chackra in mezzo alla fronte Daath “ripetendo l’Una
sillaba Om”.

Esaminiamo un attimo questo O M = A U M: O corrisponde
all’ebraico Ayn = nulla; M = mem = morte (iniziatica, cioè resurrezione);
nell’Om si esclude la partecipazione dell’io personale che si recupera in A =
alef (bagatto agente) U = vau (Innamorato, cuore) M = mem e si rende
operante in I A M (inglese); è singolare questa trasformazione di mantra: la
pronuncia di “I A M” è A (alef) I (yod = ruota, chackra) E (hé = iniziato)
M (mem, la grande Madre che riassorbe tutto); noi però a essere sinceri
preferiamo il mantra “So ham” (Io Sono Quello) che comprende anche la
shin (S), ricordiamo che Alef, Mem e Shin sono le tre lettere madri, “segni
di base per tutto ciò che è stato fatto e verrà fatto” (Sepher Yetzirah par. 7).

Percorrendo tale Sentiero si accede allo Stato Perfetto da cui non si
torna “alla vita che è luogo di dolore e transitoria” perché si è diventati

M A H Â T M Â

40 + 1 + 8 + 1 + 400 + 40 + 1 = 491 = 5 (Iniziato)

Versi 16 – 17.

I quattro mondi o stati di coscienza sono tutti “manifestazione” e
perciò destinati a cessare (anche il Piano Divino), però nella Coscienza
Daath, il Figlio, che è tutt’Uno con il Padre e nella risalita della Shekinà
non c’è più ritorno ma realizzazione completa. In Daath si ha la Conoscenza
(con la capacità di essere attivi e non passivi, subendone l’alternanza) del
Giorno e della Notte; cfr. Genesi, 1, 4: “Dio vide che la luce era cosa buona
e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte”.
Solo Dio “conosce” (inteso come capacità di penetrazione) il Giorno e la
Notte e può stabilirli: “e fu sera e fu mattina, eccetera” (Gen. 1, 5).


Versi 18 – 22.


La manifestazione e la non-manifestazione sono legate al Giorno e
alla Notte di Brahman; sono le due funzione della respirazione cosmica
(Zim-Zum della tradizione cabalistica e “Chi” respira è “Quel Mistero
Supremo” del cap. I del Tao tê Ching: “Ciò che essi (i termini essere e non
essere) hanno in comune io lo chiamo il Mistero, il Mistero Supremo, la
Porta di tutti i prodigi”: Quel “Chi” è l’”Esistenza Immanifesta ed Eterna”,
e l’”Ain Soph Aur” della Cabala di cui non possiamo dire assolutamente
nulla, ma che forse potremo sperimentare (così qui ci viene promesso) per
mezzo della fede in Lui solo.

Versi 23 – 28.

In questi versetti affrontiamo un tema essenzialmente pratico:
nell’agire si deve operare in qualche modo, cioè in uno dei due sentieri o
poli: quello solare o quello lunare, essendo quello centrale o neutro
inafferrabile dalla nostra natura umana e solo di passaggio tra l’uno e
l’altro. Vengono qui dati i consigli per l’azione reintegrativa e per le opere
magiche in genere: fuoco, luce, giorno, luna crescente (inteso come
direzione e legato a Yesod con ascesa dell’energia) per andare a Kether e
non tornare; fumo (ombra), notte, luna calante (inteso come direzione e
legato a Yesod con discesa dell’energia) ecc. per andare e tornare.
Conoscendo la legge dei due sentieri (salita e discesa della Shekinà) non ci
si può sbagliare su quello che si vuole… anche “tornare” può essere la
scelta ad un certo livello di coscienza, quello dell’Avatar…

Ma tale livello di coscienza deriva ovviamente solo dalla
“devozione”… e qui il Maestro si tradisce… non è vero che bisogna agire
senza ricercare il frutto dell’azione; sacrifici, penitenze, carità danno
anch’essi il loro frutto e il Maestro lo vuole il frutto per il suo Arjuna (ma
che sia “sacro”, per piacere). Questo frutto è l’”altissimo seggio
primordiale” che è come dire “la poltrona nella stanza dei bottoni” in ogni
luogo e nel persempre!


Canto IX

Versi 1 – 3.

Come avevamo già visto nel canto III, 32 “cavillare” cioè discutere
l’insegnamento del Maestro è disintegrativi, mentre “non cavillare” è
reintegrativo. Alla personalità che non discute il Sé Superiore dichiara la
“sapienza segretissima” cioè “sé-creta” (distillata all’interno), che non è
mera teoria, ma è esperienza pratica e dimostrativa della liberazione
dall’illusione. Essa è detta “scienza sovrana, sovrano mistero”, è dunque
relativa alla regalità, propria della 4° casta o 4° livello di coscienza e anche
“ottimo purificatore”, è perciò inerente al fuoco, il miglior purificatore che
esista; essa, dichiarata dal Sé Superiore (Krisna) e “direttamente percepita”
dalla personalità (Arjuna), diventa “facile da seguire e imperitura”. Non
aver fede in questa “sacra scienza” vuol dire fallire lo scopo
dell’incarnazione e dover tornare per riprovare a perseguirlo.

Versi 4 – 6.

Ancora una volta è affermata l’immanenza e insieme la trascendenza
della Divinità che di tutta la creazione è il sostegno e il fondamento pur
senza essere da essa contaminata; possiamo vedere qui un parallelo con la
Trinità cristiana: il Padre è il “Divino Potere”; il Figlio, la Sapienza, il
Verbo, per mezzo di cui tutto fu fatto, è “l’Origine di tutti gli esseri”; lo
Spirito Santo è l’Amore che tutto unisce “… così tutte le creature sono in
Me”.

Versi 7 – 10.

Notiamo che se da

K A L P A

20 + 1 + 30 + 80 + 1 = 132 = 6


ricaviamo il 6, nel simbolo del 6 è la spirale centripeta quando


gli esseri rientrano nella natura Divina e

centrifuga quando
vengono di nuovo prodotti (Zim-Zum cabalistico): tale respiro cosmico
produce infinite volte la creazione, indipendentemente dalla volontà della
cosa creata e senza coinvolgere (vincolare) la Divinità. Rientra in tale
affermazione il concetto della creazione inteso come “lila”, giuoco divino
che, come al solito, possiamo appena lontanamente intuire e non certo
comprendere.

“La natura produce ciò che è mobile e ciò che è immobile”: la
Prakriti (Binah) fecondata dal Purusa (Chockmah), le due prime
emanazioni, genera sotto la sovrintendenza della Divinità stessa, i 10.000
esseri del Tao, l’Albero tutto, l’universo che si muove.

Versi 11 – 15.

Ci sono due categorie di persone nell’umanità: gli stolti che ignorano
completamente l’Io Sono nella forma umana (i coltivatori dell’albero nero),
nei quali tutto è vanificato: “la speranza, la sapienza, l’attività” e dei quali
vana, inutile e disintegrativi è l’esistenza perché si legano alla natura
illusoria dei demoni, il mentale superiore capovolto, dominio del Dragone;
questa è una categoria; l’altra è composta da due generi di persone: i
pochissimi Mahatma, illuminati, santi, iniziati (gli Uomini Reali del Tao), i
quali conoscono direttamente il Sé Superiore, lo adorano e tutti concentrati
in Lui di continuo lo glorificano e i molti altri che, pur nella costruzione
dell’Albero bianco, non conoscono veramente l’Io Sono, ma lo adorano al
di fuori di loro stessi come l’Uno, il Diverso, il Molteplice… eccetera.

Versi 16 – 17.

Ecco di nuovo un lungo elenco esplicativo degli attributi e qualità
dell’Io Sono che chiarificano sempre meglio l’Onnicomprensività dello
Spirito: da

K R A T U

20 + 200 + 1 + 400 + 6 = 627 = 15,


abbiamo il Superamento dei contrasti; da
Y A J N A
10 + 1 + 3 + 50 + 1 = 65 = 11,
la Forza primordiale, da

S V A D R Â
60 + 6 + 1 + 4 + 200 + 1 = 272 = 2,
la Matrice. La virtù delle erbe è il potere guaritore; il Mantra è la Parola di

Potere; il grasso del Sacrificio è l’odore più gradevole; l’oblazione, il
Perdono: tutti riferimenti a Hod, Netzach e Tiphereth. Poi ancora: il Padre,
la Madre, il Creatore e l’Avo sono la descrizione del Piano Atzilutico:
rispettivamente Chockmah, Binah, Daath, Kether; “il fine della Sapienza,
la potenza purificatrice, l’Om sono tutte caratteristiche del Cristo-Krisna: la
Sapienza è il Figlio della Trinità; la potenza purificatrice è il Redentore;
l’OM il Verbo creativo.

Da
R I G
200 + 10 + 3 = 213 = 6
ricaviamo il 6 dell’Innamorato; da
S Â M A
60 + 1 + 40 + 1 = 102 = 3
il 3 dell’Imperatrice; da
Y A J U R
10 + 1 + 3 + 6 + 200 = 220 = 22
il 22 del Folle, vale a dire: l’Amore, l’Intelligenza costruttrice, la Fantasia.


Versi 18 – 19.


Poi le 12 qualità del versetto 18 la Mèta, il Sostenitore, il Signore,
ecc., le collochiamo tutte sull’Albero di Atziluth: attribuiamo allo 0 Kether,
Fuoco di Fuoco: la Mèta, l’Origine, la Dissoluzione; all’1 Chockmah, Aria
di Fuoco: il Signore, il Seme imperituro, il Sostenitore; al 2 Binah, Acqua di
Fuoco: il Ricettacolo, la Dimora, il Rifugio; al 3 Daath, Terra di Fuoco:
l’Amico, il Testimonio, il Sostegno.

Parimenti poniamo sulle due colonne dell’Albero: il caldo,
l’immortalità, l’Esistenza, sulla colonna di Chockmah; le piogge, la morte,
la Non-esistenza su quella di Binah.

Versi 20 – 27.

La sovranità dell’Io Sono è tale che Egli vuol donare alla personalità
costruita sull’Albero bianco ciò che essa stessa desidera: il Paradiso se essa
agogna il Paradiso (i divini conviti degli Dei, le musiche celestiali, le
armonie eccelse… ecc.), oppure l’oggetto dei desideri se essa lo desidera:
cioè poteri, ricchezze, amori, onori ecc.; ma tutto ciò, essendo legato ai
meriti dell’individuo, è destinato ad esaurirsi e lo obbliga a tornare e
ritornare, cioè a rinascere.

In realtà l’adorazione delle varie divinità da quelle solari a quelle
lunari, da quelle legate alle ricchezze della terra a quelle legate alle
ricchezze dell’acqua o dell’aria non può essere altro che l’adorazione
dell’Unico Dio Signore, l’Io Sono, il Sostegno dell’Albero nelle sue
molteplici manifestazioni; tuttavia poiché gli uomini sono dotati di libero
arbitrio, essi vanno alle divinità da loro scelte: “… agli Dei vanno coloro
che adorano gli Dei; agli avi vanno quelli che adorano gli avi, vanno agli
spiriti malvagi coloro che adorano gli spiriti (quelli che hanno capovolto
l’albero e costruiscono l’albero nero)” ma quelli che adorano l’Io Sono,
pochissimi, eccelsi, i Mahatma, quelli vanno all’Io Sono Krisna-Cristo.


Ancora qualche accenno alla tecnica pratica per divenire “devoto” il
diletto dell’Io Sono: offrire al Sé Superiore con “devozione” la foglia, il
fiore, il frutto (dell’Albero, ovviamente) ecc. e qualunque cosa uno faccia,
qualunque cosa uno offra, qualunque cosa uno dia… in definitiva proprio
“qualunque cosa”.

L’offerta di qualunque cosa a Daath, in altre parole la sacralizzazione
continua e costante della propria vita, libera dai legami dell’azione e
permette la liberazione finale. La Divinità è impersonale e imparziale con
tutte le sue creature (perché non viene coinvolta o contaminata dalla
creazione) ma permette solo a colui che l’adora ed è il Suo devoto di
diventare Lei Stessa. C’è perciò un’unica “giusta risoluzione” (o decisione o
direzione) da prendere ed è quella di adorare l’Io Sono; una volta presa, la
condizione sociale (re o mendicante), il sesso (maschio o femmina), lo stato
(innocente o peccaminoso) non contano più e non hanno più nessuna
importanza perché “si ha giustamente risoluto”.

È questa la sola libera scelta che viene richiesta ad ogni
incarnazione… non rimane che prenderla! Se poi in più si è già Re e
Sacerdoti, cioè già con un buon dominio del popolo (Malkuth) e si è già
abituati a sacralizzare, cioè si ha già sviluppati Yesod e Tiphereth, non
rimane che fissare la mente in Daath, adorarlo, prefiggerselo quale Mèta
Suprema! È solo questo il “Sovrano Segreto”!


Canto X

Verso 1

Notiamo in questo primo versetto due particolari assai indicativi del
rapporto discepolo-Maestro: il discepolo nella Suprema Parola “prende
diletto”, il Maestro la dichiara per “desiderio del bene del discepolo”; è
indubbio che un legame d’amore lega i due e tale legame inteso come
corrente continua a doppia polarità di attrazione ci riporta al concetto di
Sposo (Daath) e Sposa (Malkah) destinati a congiungersi nel “talamo”
punto del cervello in cui l’energia che scende si congiunge con quella che
sale, alla simbologia del “Cantico dei cantici” della Bibbia, alla letteratura
mistico-religiosa di alcuni santi quali San Giovanni della Croce, Santa
Teresa d’Avila, eccetera.

Versi 2 – 7.

Viene poi riaffermato il pensiero dell’impossibilità per gli Dei o i
Savi di conoscere l’Assoluto: la parte non può conoscere il Tutto a meno
che ad Esso non si identifichi, infatti solo “colui che Mi conosce (nel senso
di entrare) come Non-nato è liberato da tutti i suoi peccati”. Tutte le Qualità
(Sephiroth) nelle loro caratteristiche complementari e contrarie, legate ai tre
Guna (le tre vie dell’Albero) provengono dall’Assoluto (Ain Soph) come
emanazioni: i sette grandi Savi (che rappresentano le sette Sephiroth
inferiori: Malkuth, Yesod, Hod, Netzach, Tiphereth, Gheburah, Chesed) e i
quattro Manu Anziani (le quattro Sephiroth superiori: Daath, Binah,
Chockmah, Kether). “Quegli che veramente conosce questa mia sovranità
ecc.”, che veramente conosce l’Albero, “ottiene la devozione incrollabile; in
ciò non v’ha dubbio”.


Versi 8 – 11.

Regola base per il “devoto”, discepolo, yogi, è credere che l’Io Sono è
l’Origine di tutto; adorare l’Io Sono; tenere fisso il cuore in Lui; dedicarGli
la vita e, insieme ad altri “devoti”, conversare di Lui e, imparando l’uno con
l’altro, essere sempre contenti e felici (cfr. Matteo, 18, 15-22). “A questi
sempre devoti che Mi adorano con Amore Io concedo la devozione
illuminata per mezzo della quale essi Mi conseguono” che corrisponde al:
“Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, Io Sono in mezzo a loro”
di Matteo, 18, 20.

Versi 12 – 18.

Dalla frase del dubbio e dell’insicurezza, per mezzo delle ripetute
affermazioni della disponibilità del Maestro verso il discepolo devoto,
Arjuna passa alle asserzioni positive e realizzative attuando in sé, nell’unità
raggiunta Maestro-discepolo le potenzialità latenti che gli permetteranno nel
prossimo capitolo la contemplazione della “Visione Universale”.

Arjuna dunque riconosce nell’Io Sono il Cristo-Krisna, tutt’Uno col
Supremo Brahman, il Padre; il Redentore, il Dio unico, Onnipresente,
Primordiale, Uno senza Secondo, acclamato tale da tutti i saggi terreni e
celesti e afferma la sua completa fede e aderenza alla devozione. Né gli Dei
(Sephiroth operanti al bianco), né tantomeno i demoni (Sephiroth capovolte,
Qelipoth, operanti al nero) possono comprenderLo appieno: l’unica
possibilità di comprensione è essere Lui (“Tu solo da Te stesso conosci Te
Stesso”); che Egli dunque gli dichiari, gli mostri le sue Emanazioni e la
Forma specifica su cui vuole che egli mediti “perché d’ascoltare le Parole
Divine egli non è mai sazio!” (atteggiamento perfetto del discepolo: mai
essere sazio di Testo Sacro, ma continuare ad attingervi nutrimento
spirituale…).

Versi 19 – 20.

Inizia così la “dichiarazione” (inteso come “dire a chiarimento”,
facendo luce con la parola su un argomento oscuro e sconosciuto) delle
“Emanazioni” dell’Io Sono. Innanzitutto la sua locazione è il Cuore; lì
risiede l’atomo seme che racchiude la memoria di tutte le incarnazioni e di
tutti gli stati di coscienza; lì è Tiphereth, centro dell’Albero, centro della


coppa rotante in ogni direzione all’interno e all’esterno di se stessa, nelle tre
dimensioni dello spazio e nei quattro stai di coscienza (toiro).

Versi 21 – 38.

Poi vengono annunciate una per una tutte le qualità dell’Io Sono: ben
74; questo numero (10 + 64) ci riporta subito alle Sephiroth e agli
esagrammi dell’I Ching: tentiamo di stabilire un rapporto tra l’Albero e la
ruota dell’I Ching. Da una parte gli attributi di Krisna e dall’altra:

“Fra gli Aditya io son Visnu” 58 Il Sereno (il lago)
“tra i luminari il sole raggiante” 55 la Copia
“tra i Marut Io son Marîci” 57 il Mite (il vento)
“fra le case della luna la luna son Io” 54 la Ragazza che va
sposa
“dei Veda sono il Sâma Veda” 48 il Pozzo
“dei Deva son Vâsava” 20 la Contemplazione
“dei sensi la mente” 39 l’Impedimento
“degli esseri l’intelligenza” 46 l’Ascendere
“Dei Rûdra Sankara son Io” 18 l’Emendamento delle
(Shiva) cose guaste
“dei Yaksa Io son Vittesa” (ricchezze) 44 il Farsi incontro
“dei Vasu son Pâvaka” (fuoco) 30 il Risaltante (il fuoco)
“delle Montagne Io son monte Malkuth
Meru” (asse)
“Come Brihaspati, capo dei 35 il Progresso
Purodhasa” (sacerdote)
“fra i generali Skanda son Io” 7 l’Esercito
“dei mari son l’Oceano” 29 l’Abissale (l’acqua)
“Fra i Savi Io son Bhrigu” 19 l’Avvicinamento
“delle parole sono l’Om” Daath
“dei sacrifici sono il sacr. 25 l’Innocenza
della prece”
“delle montagne sono l’Himâlaya” 52 l’Arresto (il monte)
“di tutti gli alberi sono l’Asvattha” 53 lo Sviluppo
“dei Saggi Divini Io son Nârada” 34 la Potenza del Grande
“dei Gandharva sono Citraratha” 16 il Fervore
(cantori)
“tra i perfetti il savio Kapila son Io” 11 la Pace


“Fra i cavalli Ucchaihsravas” 42 l’Accrescimento
“tra gli elefanti Airâvata son Io” 3 la Difficoltà iniziale
“fra gli uomini il Monarca” 45 la Raccolta
“fra le armi la folgore son Io” 51 l’Eccitante (il tuono)
“fra le vacche Kâmadhuk” 9 la forza domatrice
piccola
“son Kandarpa causa della 2 il Ricettivo (la terra)
generazione”
“fra i serpenti Vâsuki son Io” 6 la Lite
“Dei Nâga sono Annata” (serpenti) 36 l’Oscuramento della
Luce
“degli esseri acquatici Varuna” 47 l’Assillo
“degli antenati Aryamân” 63 Dopo il compimento
“dei sovrani Yama son Io” (morte) 12 il Ristagno
“Fra i Daitya son Prahlâda” (demoni) 38 la Contrapposizione
“tra gli annov. dei peccati sono il 41 la Minorazione
tempo”
“fra gli animali sono il leone” 13 la Compagnia fra
(la forza) uomini
“fra gli uccelli Vainateya” (l’aquila) 26 la Forza domatrice
grande
“Dei purificatori sono Vâyu” (vento) 21 il Morso che spezza
“fra i guerrieri Râma son Io” 49 il Sovvertimento
“fra i pesci Makara” 61 la Veracità intrinseca
“dei fiumi Io sono il Gange” 59 la Dissoluzione
“Delle cose create la fine, il principio, 64 Prima del
il mezzo” compimento
“fra le scienze la Scienza del 40 la Liberazione
Supremo Spirito”
“di coloro che discutono l’argomento” 23 lo Sgretolamento
“delle lettere sono la lettera A” 5 l’Attesa
“delle parole composte Dvandva” 8 la Solidarietà
“l’inesauribile Tempo” 32 la Durata
“il Creatore dagli innumerevoli 1 il Creativo (il cielo)
volti”
“Sono la Morte” Binah
“e l’Origine di ciò che sarà” Chockmah
“sono la Gloria” Hod
“la Prosperità” 27 l’Alimentazione
“la Favella” 31 l’Influenzamento
“la Memoria” 62 la preponderanza del
piccolo
“la Fortezza” Gheburah


“la Pazienza” 4 la Stoltezza giovanile
“Fra gli inni del Sâma il Brihatsâman” 22 l’Avvenenza
“dei metri sono il Gâyatri” 60 la Delimitazione
“dei mesi Margasîsa” 37 la Casata
“delle stagioni la Primavera” 24 il Ritorno
“il giuoco” 43 la Decisione
“la Luce degli illuminati” Tiphereth
“la Vittoria” Netzach
“lo strenuo Sforzo” 28 la Preponderanza
del grande
“la Bontà dei buoni son Io” Chesed
“dei discendenti di Vrisni son 17 il Seguire
Vâsudeva”
“dei Pândava son Dhananjaya” 15 la Modestia
“tra gli asceti son Vyâsa” Yesod
“tra i vati il vate Usanâ son Io” 56 il Viandante
“Io son la verga di coloro 10 il Procedere
che governano”
“l’accortezza di quelli che 33 la Ritirata
desiderano vittoria”
“della segretezza sono il Silenzio” 14 il Possesso grande
“la Sapienza dei savi son Io” 50 il Crogiuolo.
Versi 39 – 42.

Infine Krisna dopo il lungo elenco di ciò che è la Divinità, cioè Se
Stesso, conclude dicendo che non c’è assolutamente nulla di ciò che esiste e
di ciò che non esiste che non faccia parte di Lui o che non provenga da Lui;
tuttavia anche la conoscenza che deriva dalla “segretissima sapienza e dalle
esperienze sue” (canto IX, 1) non serve a nulla, perché con conoscenza o
senza conoscenza l’Io Sono rimane stabile, “dimora” (cfr. Mumonkan, koan

n. 23 pag. 174):
“Puoi descriverlo, ma invano, rappresentarlo ma senza risultato. Non
puoi mai lodarlo in pieno: smettila di brancolare e di usare stratagemmi.

In nessun luogo si può nascondere il vero Sé.

Quando il mondo crolla ”Ciò” è indistruttibile”.


Canto XI

Versi 1 – 9.

Arjuna afferma che ora la sua illusione è stata dispersa: egli conosce
la parola che concerne Adhyâtmâ, il supremo Mistero, l’Io Sono incarnato
nell’uomo e la Sua grandezza; notiamo che il riferimento agli “occhi di
loto” è un palese richiamo ai chackra: il loto ha la forma della ruota e gli
occhi rotanti sono i due centri al di sopra della testa (Binah, Chockmah) resi
visibili e attivati. Arjuna dunque crede fermamente che la Parola del suo Sé
Superiore è Verità ed ora aspira solo all’esperienza di ciò che conosce in
teoria. Se nel primo canto si poteva meditare sul “dubbio di Arjuna di fronte
al Bivio” ora si può ben riflettere sul “coraggio di Arjuna” (essendo stato il
Bivio oltrepassato, Pârtha = 6 e 6 = Tiphereth = cuore) facendo un parallelo
con l’episodio della vita di Giacobbe della Genesi cap. 32. Lì Giacobbe
prima vede le schiere di Elohim, poi combatte con l’Angelo, ma
l’operazione non gli riesce completamente, tanto è vero che rimane “offeso
all’anca”; qui invece Arjuna “vede”, non lotta con nessuno e rimane
integro; ciò vuol dire che c’è stata una preparazione migliore: egli nel
periodo dell’apprendistato si è affidato completamente al suo Maestro, cosa
che Giacobbe con tutte le mogli e i figli (nel senso letterale ed esoterico)
non ha certo potuto fare.

Poi il discorso continua diretto, Krisna fa ammirare al suo discepolo
il suo Albero: la Sapienza di Chockmah (1) poiché da

V A S U

6 + 1 + 60 + 6 = 73 = 1

ricaviamo l’1; la Comprensione di Binah (2) che ricaviamo da

M A R U T

40 + 1 + 200 + 6 + 400 = 641 = 2

la Coscienza di Daath (3) che ricaviamo da

A D I T Y A

1 + 4 + 10 + 400 + 10 + 1 = 426 = 3


la Bellezza di Tiphereth (6) che ricaviamo da

R U D R A

200 + 6 + 4 + 200 + 1 = 411 = 6

il Fondamento di Yesod (9) che ricaviamo da

A S V I N

1 + 300 + 6 + 10 + 700 = 1.017 = 9

l’Albero così schematizzato è † la Croce latina, è “l’Universo intero”
raccolto nella Forma dell’Io Sono, ma per poterlo “vedere” gli occhi fisici
non bastano, non sono adatti, bisogna avere l’Occhio Divino (il 3° Occhio,
Daath, la Coscienza stessa) aperto e attivo, che può essere “donato solo dal
Redentore” (Hari = Colui che toglie il peccato).

Veri 10 – 14.

Ora Arjuna, ricevuto l’Occhio Divino può vedere. La visione è
descritta con arditi accostamenti di parole che fanno intravedere
l’indescrivibile e intuire le dimensioni che noi non conosciamo, trascendenti
il tempo e lo spazio, “nello splendore accecante di mille soli”, in cui l’Uno e
il Molteplice si fondono e si identificano, visione terrificante ma sostenibile
da chi è pronto come Arjuna che ha i capelli irti, ma è

D H A N A N J A Y A

4 + 8 + 1 + 50 + 1 + 50 + 3 + 1 + 10 + 1 = 129 = 12

(l’Appeso), colui che permette la discesa del cielo e la salita della terra: v. il

n. 12 dei Racconti dei Tarocchi e il n. 11 dei Racconti dell’I Ching
(“chinato il capo e giunte le palme”).
Versi 15 – 20.

La Trimurti indiana ci si rivela con questa descrizione di Arjuna:
inizia ad apparire Brahmâ, il Dio Creatore, “sul suo trono di loto attorniato
da santi e serpenti celestiali” (v. il n. 1 dell’I Ching); il diadema, lo scettro e


il disco sono simboli delle tre vie dell’Albero e corrispondono alle tre
lettere madri dell’alfabeto ebraico (Alef, Shin e Mem: “Mem tace, Shin
stride e Alef risuona”, rispettivamente colonna di Binah, colonna di
Chockmah, colonna centrale v. Sepher Yetzirah par. 7), ognuna delle tre
“persone” della Trimurti ha manifesta la sua propria Qualità e latenti le altre
due: Brama quando si manifesta come Brama è tutto Brama ma ha in Sé
Shiva e Visnu; la stessa cosa avviene nella Trinità Cristiana: nel Potere del
Padre è latente la saggezza del Figlio e l’Amore dello Spirito Santo, per cui
la Divinità risulta sempre Una e Trina. Gli appellativi che Arjuna attribuisce
all’Io Sono quale Brama sono tutti relativi a Chockmah (Vita):
“Indistruttibile, Supremo, Meta della Sapienza, Ultimo Sostegno (ultimo nel
ritorno subito prima di Kether), Guardiano delle Leggi eterne (sempre di
Kether)”. È tutto l’Albero di Chockmah che viene visto ed esaltato;
nell’infinito (“senza principio, mezzo o fine”) nel potere, nella molteplicità,
nel sole e nella luna, gli occhi, che sono il Chockmah e il Binah di
Chockmah che, come prima Sephirah, è mezzo di congiunzione tra Kether
(il cielo) e il resto dell’Albero (la manifestazione) e che, visto, provoca il
tremore nei tre mondi inferiori (Briah, Yetzirah, Assiah).

Versi 21 – 31.

Nella Visione Universale alla Forma del Creatore Brama si
sovrappone la Forma del Distruttore Shiva, corrispondente all’Albero della
Sephirah Binah (Morte). Arjuna vede allora che gli Dei e i semidei (Briah) e
i personaggi della mitologia indiana e i demoni (Yetzirah) entrano in quella
Forma terribile “fornita di molti ventri e spaventosa per le innumeri zanne”,
trema e invoca Krisna con l’appellativo di Visnu, la Divinità Conservatrice,
manifestazione centrale di collegamento e sintesi delle due precedenti,
Daath, il Figlio di Chockmah (Brama) e Binah (Shiva) che li unisce e li
fonde. Ma malgrado la richiesta di aiuto Krisna per ora non soccorre il
discepolo (per fortuna non si interrompe l’operazione, il cuore batte forte
ma regge) e Arjuna può vedere Shiva che distrugge l’ultimo piano, Assiah,
tutto quello in cui la personalità ha creduto fino a quel momento: il re
(Malkuth e tutto il suo albero) i guerrieri, i parenti, gli amici; li vede
precipitarsi nel Dio Distruttore come farfalle che cadono nella fiamma
ardente e quel che è più terribile, vede la Divinità risplendere della
combustione del creato. Ma Arjuna resiste, non rinuncia (non torna indietro)
vuol sapere ancora e chiede a Krisna: “Dimmi, in questa forma terribile chi
sei?”, e lo saluta coraggiosamente: “Salve! O Sommo tra gli Dei, sii
propizio! Tu, il Primordiale, io bramo di conoscere, eccetera”.


Versi 32 – 34.

Krisna risponde come Shiva, come Binah, la grande Madre che tutto
riassorbe nel suo grembo di Morte e gli dimostra quanto inutile sia la sua
paura di uccidere i parenti e gli amici divenuti nemici (quella parte di sé
volta al nero, v. interpretazione del 1° Canto): la vita è talmente breve che
se non abbiamo noi stessi il coraggio di uccidere il nemico (difetti, vizi,
cattive abitudini, il nostro albero nero insomma) il Tempo stesso si
incaricherà di farlo, distruggendo i nostri veicoli perituri e noi avremo solo
sprecato un’incarnazione; che “senza timore” dunque Arjuna combatta, “ i
suoi nemici vincerà in battaglia!”.

Versi 35 – 40.

Da

K E S A V A

20 + 5 + 300 + 1 + 6 + 1 = 333

ricaviamo il 333, cioè il 3 (Daath) dei tre piani fisico, astrale e mentale e
diciamo che Arjuna,

K I R I T I

20 + 10 + 200 + 10 + 400 + 10 = 650 = 11, la Forza,

la Shekinà che risale l’Albero, la Sposa, ora si prostra allo Sposo e lo prega:
“O Somma Giustizia”

H R I S I K E S A

8 + 200 + 10 + 300 + 10 + 20 + 5 + 300 + 1 = 854 = 8 = Giustizia,

“della Tua Gloria si rallegra e gode tutto l’Universo”, da Te fuggono le
forze negative (Râksasa = demoni = Dragone) e “ le osti dei Siddha (i
perfetti) a Te si prostran tutte”: questo sutra ci riporta al “Ritorno del
Cristo” di Matteo 24, 20: “Allora comparirà nel cielo il segno del Figlio
dell’Uomo ecc.”. E che altro potrebbero fare di fronte al Signore Supremo?
Egli è più grande di Brama, egli è Brahman, la Causa Prima; l’Io Sono è
“l’Essere e il Non-essere e Ciò che trascende entrambi”, “il Mistero
Supremo la Porta di tutti i Prodigi” del Tao tê Ching cap. I.


Il riconoscimento di Arjuna, la sua “devozione” è perciò totale
(l’operazione si compie perfettamente); poi ancora seguono due serie di
appellativi in cui egli definisce l’Io Sono con due “insiemi” completi di 7
elementi ciascuno: 7 + 7 = 14 = 5 = Sapiente Maestro (Papa) e in seguito
glorifica il suo Sé “1.000 volte” (1.000 è il numero della perfezione): in
fronte, a tergo e da ogni parte. Nel Sepher Yetzirah, par. 6, avevamo che le
6 direzioni venivano suggellate da Jod, He, Vau (JHV), qui con Arjuna
abbiamo il riconoscimento della sacralità di tutte le direzioni che dal Nome
Sacro sono compenetrate ed è l’azione di Ritorno, la corretta risalita della
Shekinà.

Versi 41 – 46.

Successivamente, dal riconoscimento del Potere dello Spirito, Arjuna
passa ad esplorare la sua personale posizione: la personalità è praticamente
niente di fronte allo Spirito, tuttavia poiché con lo Spirito è sempre in
contatto diretto a causa del cordone di luce che entra nella sommità del
capo, egli chiede perdono di quando inconsciamente ha mancato di rispetto
al suo Sé per leggerezza, per troppa confidenza, per ignoranza,
dimenticando che Egli è il Sommo Signore dei tre mondi inferiori Briah,
Yetzirah, Assiah. Questa è la “giusta” posizione della personalità nei
confronti dell’Io Sono: chiedere perdono e supplicare amore e indulgenza
come “il figlio con il Padre, l’amico con l’Amico, l’amata con l’Amato, la
Sposa con lo Sposo del sutra n. 32. Se Egli, il Signore degli Dei è disposto
al Perdono e alla condiscendenza, mostri la Sua Forma più amorevole,
quella conservatrice di Visnu (Daath) dalle quadruplici braccia (Rosacroce), cinto del diadema (corona = 0, Kether) con lo scettro (1, Chockmah)
e il disco (2, Binah).

Versi 47 – 55.

Il Signore accondiscende rivelando che quella sua Forma terribile è
conoscibile solo dal Discepolo

K A U R A V A

20 + 1 + 6 + 200 + 1 + 6 + 1 = 235 = 10


Malkuth, Pietra, dalla Pietra che è divenuta Pietra d’angolo (Salmo 117, 2223).

Lo spavento di Arjuna al vedere di nuovo la Forma consueta, mite e
benigna del Maestro si dilegua. Egli ha ben superato la “prova”. Quella
forma Universale che è bramata dagli stessi Dei che continuamente in essa
si dissolvono, Arjuna l’ha conosciuta e sostenuta; riuscire a vederla e
rimanere “ritti in piedi” anche se in umiltà, senza essere disintegrati o
fuggire è quasi titanico ma è quello che può l’Iniziato. Non per lo studio dei
Testi Sacri, né per l’austerità né per il sacrificio si raggiunge quello stato di
Coscienza; solo con la “Devozione” all’Io Sono: compiendo ogni azione per
Lui, considerandoLo il Supremo, liberi da attaccamento e nell’Amore
universale; solo così è possibile la Reintegrazione!


Canto XII

Versi 1 – 12.

Il problema che si pone ora Arjuna (la personalità) dopo la Visione
Universale è questo: quale differenza di realizzazione può esserci tra colui
che medita sull’Io Sono (Daath, Figlio, Coscienza) e colui che medita
sull’Immanifesto (Kether, Padre, Antico degli Antichi)? Poiché ci sono
alcuni che rifiutano di considerare degna di adorazione qualsiasi Forma di
Divinità Manifesta, sia pure altissima quale l’Io Sono e si rivolgono solo
all’Immanifesto con la meditazione del tipo “senza seme” o senza sostegno,
considerando questa Forma la più alta e perciò l’unica degna di adorazione.
Krisna ovviamente, essendo Lui stesso Daath, non può che preferire la
prima categoria di devoti, i “suoi devoti”; accetta naturalmente anche gli
altri, in quanto Egli è anche l’Immanifesto (Canto IX, 4 e X, 8) (essendo
tutt’Uno col Padre, Giovanni 1, 1), ma fa chiaramente intendere che la
strada scelta dalla seconda categoria di devoti è senza dubbio la più difficile
da percorrere. Come può chi è in manifestazione concepire “realmente”
l’Immanifesto se non altro che come una speculazione mentale? In ogni
modo è sicuramente una strada anche quella, ma non certo la via dello
Ksatriya (e noi siamo tutti Ksatriya, legati all’azione); la capacità “reale” di
fare il “vuoto mentale” è riservata a pochissimi; è molto meglio
accontentarsi di meditare su una Forma di Divinità più vicina a noi, su cui
poter “fissare la mente”, da considerare “quale Meta Suprema”, per la Quale
“rinunziare al frutto dell’azione”. Tanto più che Essa Stessa (Krisna)
assicura di “innalzare senza indugio il suo devoto fuori dall’oceano del
mondo della morte”. Poi, Krisna aggiunge, se questo “fissare la mente”
risultasse troppo difficile per alcuni, allora questi tentino di applicarsi
“gradualmente” alla meditazione dell’Io Sono. E se anche questo è per loro
troppo difficile, si dedichino almeno alle opere che all’Io Sono sono gradite
(costruzione dell’Albero bianco, con preferenza della linea centrale),
compiendo le varie azioni per amor suo. Se anche a questo non riescono,
prendano allora rifugio nella “devozione”, controllandosi e tentando di
rinunziare al frutto dell’azione. C’è una gradualità nell’ascesi spirituale e i
gradi si sviluppano l’uno dall’altro, prima di tutto occorre l’applicazione; a
questa segue la sapienza; poi viene la contemplazione, poi la rinunzia del
frutto dell’azione. Alla rinunzia tosto segue la pace. Non possiamo non


vedere in queste cinque tappe il percorso Malkuth, Yesod, Tiphereth, Daath,
Kether.

Versi 13 – 20.

In apparente contraddizione con quanto detto al versetto 29 del canto
IX (“Io sono lo stesso verso tutte le creature; niuna Io ne odio e niuna mi è
cara”), abbiamo qui un lungo elenco di qualità che rendono “caro” all’Io
Sono il suo devoto; nemmeno a dirlo, sono tutte qualità dell’Albero bianco
e poiché le loro caratteristiche sono tutte legate alla colonna dell’equilibrio,
tendenti alla perfezione e alla non – azione, possiamo considerarle come lo
sviluppo dell’Albero della Sephirah Tiphereth (la congiunzione tra Yesod,
Arjuna e Daath, Krisna); d’altra parte per un altro verso e precisamente per
la ripetizione musicale della frase “Mi è caro” (ben cinque volte), quelle
stesse qualità ci ricordano l’elenco di quelle altre che rendono “beato” il
cristiano, vale a dire l’elenco delle Beatitudini del Discorso della Montagna
del Vangelo di Matteo… cerchiamo allora un parallelo fra loro, basandoci
sempre sul glifo cabalistico.

v. 13
“colui che è amorevole e pietoso” – Tiphereth –
“beati i puri di cuore”
v. 14 “colui che è fermo nella determinaz.” – Hod –
“beati i perseguitati”
v. 15 “colui che è emancipato dall’ira” – Gheburah –
“beati gli operatori di pace”
v. 16 “colui che è spassionato, impavido” – Netzach –
“beati quelli che piangono”
v. 17 “colui che rinunzia a ciò che è piacevole” – Malkuth –
“beati i miti”
v. 18 “colui che è uguale con l’amico, ecc.” – Chesed –
“beati i misericordiosi”
v. 19 “colui che è taciturno, senza dimora” – Daath –
“beati i poveri di spirito”
v. 20 “quei devoti pieni di fede, ecc.” – Yesod –
“beati quelli che hanno fame e sete di giustizia”.
Notiamo che questi ultimi non sono solo “cari” ma “sommamente
diletti”, corrispondono infatti agli Arjuna, ai discepoli prediletti, coloro che
al termine di un colloquio col loro “Io Sono” dicono: “Distrutta è
l’illusione. Per Tua grazia, o Imperituro, ho ritrovato la mia memoria.
Dileguatisi i dubbi, io fermo resto. Seguirò la Tua Parola” (canto XVIII, 73)


Canto XIII

Versi 1 – 2.

In Genesi cap. 23 si parla dell’acquisto del “Campo di Efron” da
parte di Abrahamo per seppellire Sarah, la sua Donna, come base di
proprietà della Terra Promessa… è indubbio che la conquista della Terra
Promessa non è altro che la conquista di un gran Campo. Dunque “Campo”
e “Terra Promessa” possono essere omologati e non sono altro che il
Malkuth, Regno o Pietra o Terra di Assiah o Gerusalemme terrestre o
Terreno Sacro che deve essere “conosciuto” dal “Conoscitore del Campo”;
e Chi è il “Conoscitore del Campo”? È la Coscienza stessa, la Sephirah
Daath che completamente sviluppata diviene Krisna, il “Conoscitore del
Campo in tutti i Campi”.

“Vera Sapienza” è solo la Scienza che si occupa dello studio
dell’Albero tutto e delle relazioni tra le varie Sephiroth e la Sephirah Daath
(occulta).

Versi 3 – 4.

Krisna dà ora al suo Discepolo informazioni sul “Campo”, gli offre in
altre parole la Vera Sapienza e il modo di diventare il “Conoscitore del
Campo”.

Le notizie al riguardo sono”brevi” ma devono essere spunto per
studio e meditazione. Ovviamente i Testi Sacri da sempre trattano questo
argomento, perciò l’unico studio raccomandato è ancora una volta quello
che li riguarda.

Versi 5 – 6.

Il “Campo” è dunque l’Albero; esso comprende tutto: gli elementi su
quattro piani, la Coscienza (Daath), l’Immanifesto (Kether), l’uno, la mente


(Briah), i dieci organi dei sensi e i cinque sensibili che possiamo collocare
tutti sul Glifo: occhi – colore (Daath); lingua – sapore – laringe (Chesed);
tatto – mani, naso – odore (Gheburah); orecchi – suono (Tiphereth); organi
generazione (Yesod); organi escrezione, epidermide, piedi (Malkuth); o
sulle tre colonne: avversione e dolore sulla colonna della Severità, desiderio
e piacere sulla colonna della Grazia, intelligenza e fermezza sulla colonna
dell’Equilibrio.

Versi 7 – 11.

Segue ora un elenco di qualità che debbono essere coltivate dal
Discepolo che vuole ottenere la Sapienza; queste qualità, corrispondenti alla
costruzione dell’Albero bianco sono la Sapienza stessa: rettitudine
(Chesed), inoffensività (Gheburah), reverenza per il Maestro e purezza
(Tiphereth), semplicità (Netzach), pazienza (Hod), umiltà e costanza
(Yesod), padronanza di sé (Malkuth). In particolare sono messe in rilievo le
qualità della colonna centrale dell’Albero: nel v. 8 Malkuth, nei vv. 9 e 10
Yesod e nel v. 11 Tiphereth; al termine di questa scalata diretta dell’Albero
è la Sapienza, il Figlio della Trinità cristiana, l’opposto è ignoranza, il
peccato, il Dragone.

Versi 12 – 18.

Ora per mezzo della Sapienza (Figlio, Daath, Cristo, Krisna) si
giunge al Supremo Brahman (Padre, Kether), v. Giovanni, 14, 6 – 7: “Io
Sono la Via, la Verità e la Vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di
Me. Se conoscete Me, conoscerete anche il Padre; fin da ora lo conoscete e
lo avete veduto”.

La descrizione del Brahman è descrizione dell’Indescrivibile, con
termini relativi alle caratteristiche umane, poiché in Genesi 1, 26 Dio aveva
detto: “Facciamo l’uomo a Nostra Immagine, a Nostra Somiglianza”, allora
Dio può essere immaginato con una figura umana. Krisna Lo descrive come
un Uomo Infinito, Immenso, Supremo che tutto comprende e tutto sostiene,
senza essere vincolato; che concilia tutti i contrari, che media tutti gli
opposti, che è dentro e fuori, mobile e immobile, lontano e vicino, Uno e
Trino: Creatore come Brahma, Sostenitore come Visnu, Distruttore come
Shiva (Trimurti che avevamo fatto corrispondere rispettivamente a


Chockmah, Daath e Binah, v. commento al canto XI). Brahman è “la luce
delle luci”, è “oltre l’oscurità” termini che somigliano molto alla definizione
cabalistica dell’Ain Soph Aur = Luce infinita dell’Esistenza Negativa =
Fulgore Negativo; Krisna è la Sapienza, Daath; l’oggetto della Sapienza è
Malkuth, stabilito nel cuore Tiphereth. Il Devoto dell’Io Sono, conoscendo
tutto ciò entra nello stato di Coscienza Cristico e si identifica con “Quello”,
So ham = Io Sono Quello.

Versi 19 – 21.

Ora che Brahman è stato chiaramente definito (per quanto è possibile
con le parole e i concetti e nella consapevolezza della reale impossibilità di
definirLo veramente perché “il Tao che può essere detto non è l’Eterno
Tao”) Krisna tenta di spiegare al suo Discepolo l’essenza dei due Principi
della Creazione: “Purusa e Prakriti”, che noi abbiamo posto sull’Albero in
Chockmah e Binah, canto IX, 10 e che in Genesi 1, 2 avevamo fatto
corrispondere allo Spirito di Elohim (Purusa) che aleggia sull’Oceano
(Prakriti).

Purusa e Prakriti sono pure le due forze Yang e Yin del Taoismo
ovvero i cosiddetti “Termini” del Tao tê Ching, cap. I, che derivano
direttamente dal Mistero, il “Mistero Supremo”.

Se il bianco, il luminoso, il maschile non si mescolasse col nero,
inteso non come male, ma come oscuro, femminile, non si avrebbe la
manifestazione. Secondo la teoria del Sankhya (v. nota al canto II, 45) i due
principi sono coesistenti; secondo il sistema Vedanta esiste solo lo Spirito
(Purusa) mentre la Materia Primordiale (Prakriti) è illusione; per la Cabala
le Sephiroth Chockmah e Binah sono complementari e interagenti, anche se
Chockmah precede Binah come successiva emanazione nella discesa della
Shekinà (v. Genesi 1, 27: “Dio creò l’uomo a Sua Immagine, a Immagine di
Dio lo creò, maschio e femmina lo creò”.

“Purusa stabilito in Prakriti” a livello cioè mentale, nella svecchiatura
di Chockmah e Binah perciò in Chesed e Gheburah, diviene per l’individuo
l’origine del piacere e del dolore e di causa ed effetto; ed ecco che a questo
livello (dal mentale in giù) si verifica la possibilità di “nascere in buone o
cattive matrici”.


Versi 22 – 25.


La personalità che conosce lo “Spettatore”, Colui che permette, il
Sostenitore, Daath, insomma, Cristo, Krisna, il Figlio di Chockmah e Binah
Archetipali, conosce anche lo Spirito Supremo, v. commento al canto XI,
21 – 31, perché conosce l’Albero e il suo funzionamento e per questo non
nasce di nuovo e al termine della vita si Reintegra. Ma la possibilità di
Reintegrazione è data anche a chi si identifica direttamente col Sé; al
Devoto della Conoscenza, al Devoto nell’azione (azione ovviamente
staccata dal frutto dell’azione); infine possono anche Reintegrarsi coloro
che aderiscono per Fede al Sé pur senza conoscere la Scienza della
Sapienza.

Versi 26 – 34.

Krisna dice che qualsiasi cosa viene all’esistenza è il prodotto
dell’unione tra il Campo e il Conoscitore del Campo; questa frase si può
rapportare alla cabalistica unione della Sposa (Malkah) con lo Sposo
(Daath); nello Zoar infatti avevamo che quando il Re, il Santo, che sia
Benedetto, si unisce alla sua Regina, la Matrona, “… una voce risuona dalla
parte del Sud che fa udire queste parole ”Svegliatevi legioni e armate
celesti, è il momento in cui si manifesta l’Amore del vostro Signore…”, e il
Bene si diffonde in tutto l’Universo perché tutte le membra si sono riunite
al punto di formare l’Unità” (pag. 170 ed. Atanor)

Poi viene ripreso il tema della possibilità di Reintegrazione per il
Discepolo nello sviluppo della Coscienza come capacità di “vedere” (3°
Occhio) la natura del Brahman o Kether, o Assoluto: bisogna saper vedere il
Suo completo distacco, svincolamento e in contaminazione da qualunque
attrazione, anche da quella della Sua Creazione e il Suo Essere Radice di
quella (infatti tutte le Sephiroth emanano dallo 0 Kether).

Infine bisogna saper percepire la differenza tra il “Campo” (Malkuth)
e il “Conoscitore del Campo” (Daath) nonché la necessità della liberazione
dalla manifestazione intesa come vincolo, costrizione e attrazione: solo per
tale “giusta” percezione si giunge alla meta dell’incarnazione,
all’Ascensione “andando così al Supremo”.


Canto XIV

Versi 1 – 2.

Arjuna che nel canto XI aveva vissuto l’esperienza della Grande
Illuminazione, tornato allo stato normale, necessita ancora di consigli e
guida; continua perciò l’istruzione del Discepolo da parte dell’Io Sono, il Sé
Superiore, Krisna; viene ancora rinnovata la promessa del sicuro
Raggiungimento Supremo da parte di colui che “ricorre” alla Sapienza
(ricordiamo il Patto d’Alleanza di Jahvé con Abramo e le successive
riconferme di quello con Isacco e Giacobbe nella Genesi)..

Versi 3 – 4.

Qui viene completamente rovesciato (nel senso figurato) il concetto
di relazione tra Brahman, Kether, il Padre e Adhiyajña, Daath, il Figlio; ma
se noi entriamo nella comprensione del concetto di “Padre” come Potere
Assoluto (v. commento al Vangelo di Giovanni), del “Figlio” come
Sapienza (e dello “Spirito Santo” come Amore) ecco che l’immagine che ne
risulta può essere quella della “Matrice” (0 Kether) e del “Seme” (Daath), in
quanto la “Sapienza” feconda il “Potere” (“… tutto è stato fatto per mezzo
di Lui e senza di Lui niente è stato di ciò che esiste” Giovanni 1, 3),
cosicché mentre Chockmah feconda Binah in orizzontale, Daath feconda
Kether in Verticale e l’Albero Atzilutico si centra in Tiphereth (Amore) .
Questo accostamento inoltre ci riporta anche al concetto ermetico del
“Figlio che feconda la Madre o la Vergine”; ovviamente queste immagini
non sono altro che flash, baluginamenti usati per provocare una qualche
“percezione” di Quello che è In conoscibile, Immensurabile e
completamente superiore alla nostra capacità di comprensione manifesta,
non però alla nostra capacità di comprensione latente…


Versi 5 – 15.


Ora prendiamo in considerazione un altro capovolgimento di
attribuzioni: in precedenza avevamo abbinato ai tre “Guna” Sattva, Rajas e
Tamas le due vie dell’Albero e la loro alternanza e questo va bene perché ci
chiarisce un lato del concetto di manifestazione che è positiva, solare in
Sattva, negativa, lunare in Tamas e mutevole e instabile in Rajas (v. il n. 14
dei Racconti dei Tarocchi); ora però, da quello che ci dice Krisna, possiamo
leggere i tre Guna sull’Albero in un altro modo: a causa della volontà
(Chesed) della creatura in manifestazione, a livello di “subito dopo” Binah
(perché gli attributi sono da Prakriti prodotti e Prakriti = Binah e Daath è
“occulta”, cioè fuori gioco) da Chesed in poi, per intenderci, si verifica
questa possibilità:

Briah

Albero bianco: Sattva

Yetzirah

Rajas

Assiah (Malkuth)

Albero nero: Tamas


in cui la manifestazione, condizionata dal libero arbitrio, diviene
promanifestazione o contromanifestazione; ecco dunque che Sattva è
attribuito alle Sephiroth, Rajas al Malkuth (Assiah, piano dell’azione) e
Tamas alle Qelipoth.

L’Albero bianco, Sattva, conduce alla felicità; Rajas, l’azione,
conduce all’attaccamento e Tamas, l’Albero nero, porta alla negligenza (a
mancare cioè allo scopo della vita). Sattva dà luce, bene; Rajas dà
mutamento e possibilità di scelta; Tamas produce oscurità e male.


Al tempo della morte, avendo costruito un Albero tutto bianco e
armonico si raggiunge la Sapienza (l’Io Sono), ci si reintegra; avendo
costruito un albero misto con azioni rajasiche, si rinasce come uomini e
donne normali; avendo costruito un albero tutto nero si rinasce nelle matrici
irrazionali (si viene disintegrati), v. commento alla Sapienza cap. 3, 5 – 12 e
cap. 5, 1 – 23.

Versi 16 – 20.

Le azioni dunque a causa dei tre attributi possono essere sattviche,
cioè pure e portatrici di Sapienza; rajasiche, recanti avidità e di conseguenza
dolore; tamasiche, portatrici di ignoranza e perciò di negligenza (vanificanti
l’incarnazione); la direzione verso cui esse portano è schematizzata dalla
freccia nel glifo sopra: le sattviche in alto, verso Atziluth, il Piano Divino;
le rajasiche in entrambe le direzioni (con le relative lacerazioni e contrasti);
le tamasiche verso l’espulsione, in basso. Ma colui che “vede” (il
Veggente), colui che ha sviluppato la Sephirah Daath, conosce l’Io Sono,
conosce che Egli è il Signore, al di sopra e al di fuori degli attributi e per
mezzo della Sapienza entra nella sua Coscienza: il Discepolo che si pone
“oltre” gli attributi non rinasce ma diviene “immortale”, si reintegra,
realizza l’Ascensione.

Versi 21- 27.

La richiesta di informazioni sulla “tecnica” è costante nelle domande
del Discepolo al suo Maestro e infatti Arjuna chiede: “Qual è il modo di
agire (dell’Iniziato) e come trascende egli questi tre attributi?”

“Agisce senza agire” è la risposta di Krisna; egli è sempre in perfetto
equilibrio nel dolore e nella gioia, tra le cose piacevoli e le spiacevoli, nel
biasimo e nella lode; egli rimane inalterato nell’onore e nel disonore, è
equanime verso gli amici come verso i nemici e tiene nella stessa
considerazione la zolla, il sasso e l’oro (cfr. Tao tê Ching capp. XLIX, LVI
e LXIV); ma soprattutto egli è svincolato dagli attributi e adora l’Io Sono.
Quell’Iniziato che così si comporta diviene degno di riunificarsi all’Uno
senza secondo, l’Indistruttibile, l’Immortale, la Legge stessa, la Beatitudine
Infinita.


Canto XV

Versi 1 – 4.

“L’Eterno Asvattha” l’albero sacro della Tradizione indù nominato
da Krisna è ovviamente il Glifo cabalistico o Albero della Vita, ma nella
visione che ci fa balenare dinanzi agli occhi il Maestro è, più che lo schema
a cui siamo abituati, un vero e proprio albero con radici, tronco, rami, fiori e
frutti; un albero che ci appare dapprima con le radici in alto, ma subito dopo
anche in basso perché esse scendono; con i rami in basso, ma poi anche in
alto perché essi salgono e noi possiamo vedere in questo “sferico” (rotante,
toirodeo) albero la discesa della Shekinà dal Kether (radici) al Malkuth
(germogli) e anche la sua risalita dal Malkuth, divenuto radice, al Kether,
meta finale che conclude l’esistenza dell’Albero (allorché si tagliano le sue
salde radici).

Nel Commento alla Genesi 3, 1 – 6, avevamo parlato dell’Iniziato
che “al termine di molte vite al bianco e al nero ”mangia la foglia” invece
del frutto dell’Albero (cosa che invece tutti gli Adami ed Eve di questo
mondo fanno regolarmente)”; ora l’identificazione da parte di Krisna delle
foglie dell’Asvattha con i Veda (Testi Sacri), ci riporta a quel particolare
significato di “mangiare la foglia”, oltre al senso letterale del modo di dire.
Mangiare le foglie dell’Albero vuol dire nutrirsi di Testi Sacri invece di
attaccarsi ai frutti (Sephiroth, Dei) dell’azione che legano e costringono ad
ulteriori incarnazioni. Nutrirsi di foglie vuol dire salire sui rami (Guna)
senza rimanere impigliati e imparare a procedere sino al punto in cui si
acquista e si “brandisce” l’infallibile arma dell’ “indifferenza” (ai contrari e
alla loro attrazione) che è poi la “Sapienza”, Krisna stesso, Cristo, Daath, la
Sephirah occulta; allora si diviene capaci di tagliare l’Albero alla base,
procedendo oltre il “velo dell’Abisso (Paroketh)” che separa i tre mondi
inferiori da Atziluth e permette di lasciare la manifestazione quale
costrizione al ritorno per entrare “nello Spirito Primordiale donde emanò
l’antico ordine delle cose”.


Versi 5 – 6.


Krisna torna ora a parlare della Meta e delle qualità di coloro che
possono raggiungerla: essi, i ricercatori, debbono essere “emancipati dai
contrari”, centrati, cioè sulla Via dell’Equilibrio e “fissati” nell’Io Sono,
Daath, al di sopra dei tre piani inferiori: di Malkuth, piano fisico, la cui
espressione più alta è il fuoco; di Yesod, il cui emblema è la “luna”; di
Tiphereth, il cui luminare è il “sole”.

Versi 7 – 11.

La scintilla Divina, Presenza individuale, Kether, da Prakriti, materia
(Binah), fecondata da Purusa (Chockmah), spirito, trae ciò che occorre per
l’incarnazione (i sensi e la mente), costruisce i mondi di Briah, Yetzirah e
Assiah e li usa quali mezzi di “gioia” (= divertimento, giuoco, esperienza,
esperimento, ecc.). Le persone comuni (gli illusi) non si rendono conto di
questa Realtà che sottende la forma esterna (la personalità), ma coloro che
hanno sviluppato Daath, che conoscono l’Io Sono, Krisna, Cristo, La
vedono. È questa la differenza basilare tra coloro che sono illusi e quelli che
non lo sono: il “vedere” il Signore fuori di sé o in sé; quando si “vede” il
Signore in sé inizia lo sviluppo della Coscienza, è l’apertura del chackra di
Daath; allora nasce il Figlio, il Bambino (v. il n. 17 dei Racconti dell’I
Ching).

Versi 12 – 14.

Perché, spiega Krisna, il sole (Tiphereth) la luna (Yesod) e il fuoco
fisico (del Malkuth) non sono altro che le svecchiature successive della luce
di Daath, la “Sua Luce”; così nella discesa prima e nella risalita poi, come
energia del Malkuth (la terra), Egli sostiene tutte le creature e come luna
(Yesod), piena di succhi liquidi, astrali, nutre tutte le erbe, come fuoco di
combustione nel corpo delle creature, per mezzo dell’azione centrifuga
dell’espirazione e centripeta dell’inspirazione, egli permette l’assorbimento
del quadruplice cibo: quello fisico, quello astrale, quello mentale e quello
spirituale (oltre quello dei quattro tipi nominati nella nota).


Verso 15.


L’Io Sono è il cuore di ogni cosa creata, infatti Tiphereth è il centro
dell’Albero della Vita e certamente l’Io Sono è il cuore di ogni qualità
(Sephirah) dell’Albero bianco, ma anche di ogni qualità (Qelipoth)
dell’Albero nero, perché quando l’energia, sempre la stessa (Shekinà), viene
invertita di valore, si manifesta come “privazione” = assenza di Bene, cioè
come male.

Egli, Krisna, è l’Oggetto e l’Autore della Verità (dei Testi Sacri) e il
Mezzo per cui la si può conoscere (Veda, Vedanta).

Versi 16 – 20.

Ancora una chiarificazione del concetto riguardante i due principi
della manifestazione: Purusa, Spirito, l’indistruttibile e Prakriti, Materia
primordiale, il distruttibile. Essi sono i due “Termini” del Tao tê Ching,
“altro” dall’Altissimo Spirito (Mistero Supremo) che compenetra e sostiene
i tre mondi (Briah, Yetzirah, Assiah) da loro derivati; ma l’Io Sono, Krisna,
Cristo, che è tutt’Uno con l’Altissimo Spirito, col Brahman (come Daath lo
è con Kether e il Figlio col Padre) li trascende entrambi. Perciò se la
personalità non è “illusa”, e riconosce l’Io Sono, il suo Sé Superiore quale
Altissimo Spirito, allora “sa tutto” e Tutto sapendo, non può far altro che
adorarLo, adorandoLo conosce la “segretissima Scienza” che solo l’Io Sono
può dichiarare al suo devoto e, come tale, conoscendola, “compie tutti i suoi
doveri”, cioè si libera del frutto dell’azione e si reintegra.


Canto XVI

Con un lungo e particolareggiato elenco di “ottime qualità” Krisna
svela al suo discepolo quali sono le caratteristiche di “colui che è nato ad un
destino divino”. Naturalmente quelle qualità non sono altro che lo sviluppo
dei tre alberi dei tre piani dell’Albero bianco; lo sviluppo di Assiah:
padronanza di sé (Malkuth), austerità (Yesod), studio delle Scritture (Hod),
carità (Netzach), sacrificio e purezza di cuore (Tiphereth), intrepidità
(Gheburah), rettitudine (Chesed), perseveranza nella sapienza e nella
devozione (Daath); lo sviluppo di Yetzirah: assenza di irrequietezza
(Malkuth), rinunzia (Yesod), mansuetudine (Hod), modestia (Netzach),
compassione per tutte le creature (Tiphereth), emancipazione dall’ira e
inoffensività (Gheburah), astinenza dalla calunnia e dalla cupidigia
(Chesed), tranquillità e veracità (Daath); lo sviluppo di Briah: energia
(Malkuth – Yesod), bonarietà (Hod – Netzach), purezza (Tiphereth),
fortezza d’animo (Gheburah), longanimità (Chesed), assenza di orgoglio
(Daath).

Versi 4 – 5.

“Colui che è nato ad un destino diabolico” invece ha sviluppato i
difetti e i vizi dell’albero nero: ignoranza (Malkuth – Yesod), ipocrisia
(Hod), vanità (Netzach), orgoglio (Tiphereth), ira (Gheburah), insolenza
(Chesed), in cui le Sephiroth sono tutte profanate e invertite di valenza. La
costruzione dell’Albero bianco (cfr. Commento alla Sapienza, capp. 3, 4, 5)
conduce alla liberazione dalle rinascite, la costruzione dell’albero nero alla
prigionia delle rinascite; ma il Discepolo sul Sentiero, il Pândava (8), colui
che ha “giustamente risoluto” (canto IX, 30) è nato ad un destino divino, va
verso la liberazione e perciò non deve “affliggersi”.


Versi 6 – 9.

Poiché ormai Arjuna “sa tutto” sulla costruzione dell’Albero bianco,
è opportuno che conosca anche qualcosa dell’albero nero onde evitare nel
modo più assoluto di incorrere in quegli errori di comportamento, di
sentimento e di pensiero che lo possano costruire anche involontariamente.

La caratteristica degli “uomini demoniaci”, cioè schierati nella
contro-manifestazione, è l’ignoranza (della Legge e del funzionamento
dell’Albero): essi non conoscono né l’azione (corretta) né l’inazione (l’agire
senza agire); essi mancano, sono carenti su tutti e tre i piani inferiori: sul
piano dell’azione (Assiah) “non hanno una buona condotta”; sul piano del
sentimento (Yetzirah) “non vi è in loro purezza”; sul piano mentale (Briah)
ignorano la Verità. Essi contrappongono allo Spirito (Dio) la materia
(Mammona); per essi l’Universo è prodotto “dall’accoppiamento causato
dalla concupiscenza”, cioè da desiderio degradato e degradante e il loro
trincerarsi dietro una tale posizione materialistica non può che precludere
qualsiasi sbocco verso l’emancipazione finale; per questi essi sono
“perduti”, senza speranza, “deboli d’intelletto”, perché non sanno
“intelligere” cioè “andare dentro” la Realtà delle cose e della
manifestazione e diventano “violenti nelle azioni”, perché hanno
continuamente bisogno di forti emozioni con cui stordirsi; inoltre sono
“nemici del mondo” perché tutta la natura si rivolta contro e li ostacola;
nascono così per la distruzione di ciò che li circonda e soprattutto per la
propria distruzione (disintegrazione).

Versi 10 – 16.

È “l’insaziabile desiderio” che rovina la creatura umana; ricordiamo
al caduta di Adamo nel giardino dell’Eden a causa della tentazione del
serpente (Genesi 3, 6): Eva pecca e induce Adamo a peccare perché
“desidera” ciò che è proibito, e lo desidera per essere più di quello che é… e
Eva rappresenta l’astrale dell’uomo (Adamo) che, sedotto dal mentale
(serpente, il quale ragiona con “false idee” a causa dell’orgoglio e
dell’arroganza propri del Dragone), illuso nelle sue vere possibilità, si
dedica ad “opere sacrileghe”, cioè invece che a “far sacro l’Albero” a
profanarlo. Tutto ciò perché “questi uomini perduti” credono che l’unico
fine della vita sia la soddisfazione dei desideri, così essi si vincolano sempre
di più alla materialità nella speranza di “possedere” sempre una maggior
quantità di cose (ecco l’inversione della colonna di sinistra dell’Albero,
avere), per “figurare” sempre di più (ecco l’inversione della colonna di
destra dell’Albero, essere); in realtà quello che manca a costoro è solo la
“Sapienza”. Ragionamenti del tipo: “Questo ho ottenuto oggi, questo


desiderio soddisfarò in seguito; questa ricchezza è mia, quell’altra pure sarà
mia” indicano solo la visione materialistica dell’individuo che “non vede”
Ciò che sottende la forma; mentre: “Ho ucciso questo nemico ed altri pure
ne ucciderò. Io sono un signore, io godo, sono fortunato, ecc.”, è un
ragionamento che indica solo la più completa ignoranza: la personalità non
è padrona della propria vita, tanto meno di quella degli altri, l’unica cosa
che può “uccidere” e che “deve uccidere” sono i propri difetti che lei stessa
ha creato; essa invero non è “signora” di niente, né fortunata, né possente,
né felice e anche se apparentemente è “ricca e nobile, fa donazioni e
sacrifici”, in realtà è solo “illusa nella propria ignoranza e destinata a cadere
in un inferno immondo”.

Versi 17 – 21.

Come vedemmo in Genesi 3, la costruzione dell’albero nero non può
che portare all’auto-distruzione in quanto la “pressione” del piano fisico
sull’astrale e il mentale (Adamo domina Eva che a sua volta schiaccia la
testa al serpente) spinge sempre più lontano l’energia dalla sua Fonte (l’Io
Sono).

La definizione cabalistica di Dio quale “pressione” (v. La Cabala
Mistica di D. Fortune – Astrolabio) indica la forza esplosiva divina
(Shekinà) che trova nel Malkuth, la Pietra, la sua completa espressione; a
questo punto alla Pietra, alla personalità spetta il compito di far risalire
correttamente l’energia nell’Albero per la sua (la propria) reintegrazione o
farla scendere (cadere) nel contro-Albero per la sua e la propria
disintegrazione; ed ecco lo schema:

discesa della Shekinà corretta risalita discesa e disintegrazione


Pietra

Caduta


nella caduta la pressione esercitata dal Malkuth non può che spingere
sempre più in basso l’energia che non ha ripreso la strada del “Ritorno al
Kether”.

Infatti egoismo, ostinazione e ipocrisia (Hod capovolto), frenesia di
ricchezze e concupiscenza (Netzach capovolto), arroganza, presunzione e
orgoglio (Tiphereth capovolto), ira (Gheburah capovolto, calunnia e
prepotenza (Chesed capovolto) portano ad “odiare la Divinità”, l’Io Sono

(= “Mi odiano”) che quella energia continuamente effonde e che mal
qualificata dal Malkuth precipita l’individuo sempre più in basso “fino
all’infimo stato”. Le tre principali porte dell’inferno sono: la concupiscenza,
l’ira, l’avidità: Venere, Marte e Mercurio, le tre divinità della mitologia
greca che favorevoli danno la vittoria, contrarie portano alla completa
disfatta.

Versi 22 – 24.

L’Iniziato, il Discepolo si liberi dunque dal pericolo della
disintegrazione percorrendo la via centrale nella costruzione dell’Albero
bianco, ricercando la perfezione (Yesod), la felicità (Tiphereth), la
Sapienza, (Daath), seguendo per “decidere ciò che deve essere fatto o non
fatto” la Scrittura, vale a dire il Testo Sacro; i precetti lì descritti insegnano
il retto modo per far risalire la Shekinà; quella deve essere l’unica vera
guida!


Canto XVII

Versi 1 – 4.

Il problema che Arjuna pone al Maestro in questo canto riguarda la
“Fede”. “A quale dei tre attributi sattva, rajas o tamas appartiene la fede?”.
(Il che fa supporre che Arjuna crede che la “fede”, proprio perché tale, sia
qualità bianca e perciò, da quello che abbiamo detto nel canto XIV, solo
sattvica). Krisna chiarifica subito che la fede costruisce l’uomo; ciò che egli
crede, quello egli è, cioè egli diviene ciò che pensa, sente, dice e fa; quindi
la fede risulta essere triplice a seconda delle scelte effettuate nella vita; c’è
una fede sattvica, quella inerente all’Albero bianco, di coloro che adorano
gli Dei, le Sephiroth nella loro aderenza al Piano; c’è una fede rajasica,
inerente all’albero bianco e nero, di coloro che adorano i demoni, le
Sephiroth dei tre piani inferiori nel loro contrasto di bene-male; infine c’è la
fede tamasica, di coloro che adorano gli spiriti o spettri, cioè i centri di
forza, le larve dell’albero nero, vale a dire ciò che è destinato alla
disintegrazione.

Versi 5 – 6.

Esistono uomini che, spinti da errati ideali o ambizioni si
sottomettono a dure penitenze e sacrifici non legati allo scopo reintegrativo
(per esempio portare tacchi a spillo o busti stretti, correre rischi inutili per
divertimento o denaro, assumere sostanze tossiche per “rendere” di più,
digiunare per politica, ecc.): le loro risoluzioni sono considerate
“demoniache” in quanto danneggiano i veicoli inferiori e disturbano i
propositi dell’Io Sono in quella incarnazione.


Versi 7 – 13.


Nella manifestazione quale noi la conosciamo tutto può essere
ricondotto ai tre Guna; così il nutrirsi di cibo, il sacrificarsi, il far penitenza,
il far donazioni. Apparentemente queste quattro azioni sembrano tutte
positive, quindi dovrebbero essere tutte sattviche, invece proprio perché
vengono colorate dalla volontà o libero arbitrio della personalità, in pratica
risultano essere bianche, miste o nere. Prendiamo in considerazione
l’assunzione di cibo, anzi, prendiamo in considerazione il tipo di cibo; così
come è descritto da Krisna cibo sattvico è solo quello appena colto, carico
di prana, offerto dagli alberi e dalla terra (frutta e ortaggi) e forse da alcuni
prodotti animali freschi (latte e uova); cibo rajasico è il cibo elaborato,
cucinato, manipolato; è tamasica il cibo in decomposizione (la carne, i
prodotti fermentati, le muffe, ecc.). Ora esaminiamo il sacrificio: è vero
sacrificio (sattvico) quello che è sentito come dovere (“deve essere fatto”),
senza ricerca del frutto dell’azione, vale a dire l’adempimento dei doveri
inerenti al proprio stato “sacrificati” al Sé Superiore, anche lo studio per il
miglioramento dei propri veicoli (fisico, astrale, mentale) per rendere
maggior servizio all’Io Sono e all’applicazione pratica dei precetti delle
Scritture. È rajasico quel sacrificio che aspetta un qualsiasi compenso
materiale e non; è tamasica quello offerto alle forze del male, contrario ai
precetti, con la profanazione delle parole di potenza (Mantra).

Versi 14 – 22.

L’austerità che parimenti al sacrificio e alla fede e al cibo
apparentemente sembra solo positiva, bianca, nelle sue tre espressioni “del
corpo” (assianico), “della parola che non causa dispiacere” (yetziratica),
“della mente” (briatica), è anch’essa di tre qualità: è sattvica se praticata dai
devoti dell’Io Sono senza ricerca del frutto dell’azione (cfr. in Matteo 6, 117 le regole per praticare “cristianamente” l’elemosina, l’orazione e il
digiuno); è rajasica se praticata con ostentazione per essere veduti dagli altri

(v. Matteo 23, 5 ecc.); è tamasica quando è al servizio del male e delle forze
sinistre, come nel caso di coloro che per timore di perdere il potere,
fanaticheria o pregiudizi razziali limitano la libertà propria o altrui,
torturano o addirittura uccidono (v. Matteo 23, 37). Ora prendiamo in
considerazione i doni: donare è sinonimo di generosità, apertura e
grandezza d’animo, ma anche qui va fatta una distinzione tra tre tipi di doni:
è sattvico il dono “saggio”, elargito con l’idea che donare è dovere nel

luogo e a tempo opportuni a persona bisognosa ma “degna”; è rajasico il
dono elargito per ottenere un altro dono o favore in cambio, il “do ut des “
caratteristico degli uomini comuni che si esplica in questa nostra epoca
consumistica con gli inutili regali di Natale, Pasqua, compleanni e
onomastici vari, che fanno solo perdere tempo, denaro e creano inutili
obblighi; infine è tamasica il dono elargito in tempo e luogo inopportuni a
persona non degna: regalare soldi a chi chiaramente non vuol lavorare per
pigrizia e infingardaggine è sconsiderato così come regalare armi, sia pure
finte, a bambini piccoli o oggetti pericolosi a chi non è maturo o tecniche di
realizzazione a chi non è pronto: è sciocco, inutile e dannoso (“non date le
cose sante ai cani e non gettate le vostre perle ai porci ecc.”, Matteo 7, 6).

Versi 23 - 28.

Krisna elargisce poi al suo discepolo tre parole di potere: “Om” che
significa Io Sono in senso universale, “Tat” che vuol dire Ciò o Quello,
“Sat” che vuol dire Essere, le tre parole con cui furono creati in antico i
“Brahmana, i Veda e i sacrifizi” cioè gli uomini fatti a somiglianza di Dio,
le istruzioni e le tecniche di reintegrazione, che produssero l’età dell’oro
nella sua prima perfezione. Gli studiosi di Brahman, coloro che si occupano
dell’Assoluto e che ad Esso tendono debbono iniziare tutte le loro opere
“cantando l’Om”: cantarlo significa viverlo nell’Albero interno, collocando
il suono appropriato ne chackra appropriato (Om = Aum) nell’attivazione
del Malkuth-Yesod, Tiphereth e Daath; per ottenere “l’emancipazione”
occorre pronunciare la parola Tat = Quello (e noi aggiungiamo: cercando di
attivare i chackra sopra la testa Binah, Chockmah, Kether); infine per
esprimere “la realtà e la bontà” si deve pronunciare la parola Sat = Essere,
attivando l’Io Sono, Daath, il centro in mezzo agli occhi. Sat è tutto ciò che
rappresenta la Divinità in manifestazione, asat è tutto ciò che viene
compiuto dalla personalità senza riconoscere in ciò che fa l’energia divina;
tutto quello che è asat è vano, non serve a nulla e crea solo disordine e male,
cioè Karma negativo.


Canto XVIII

Versi 1 – 4.

Nel primo versetto Arjuna invoca il Maestro con tre differenti
appellativi: il primo è Mahâbâhu ( = dalle possenti braccia), il secondo è
Hrisîkesa ( = Signore dei sensi), il terzo è Distruttore di Kesî ( = Uccisore
del demone); vediamo che cosa dice la numerologia su di essi: Mahâbâhu =
4, Imperatore; Hrisîkesa = 8, la Giustizia;

K E S Î

20 + 5 + 300 + 10 = 335 = 11, la Forza (negativa).

Perché questi particolari Nomi tutti insieme all’inizio dell’ultimo
canto? Perché ora il discepolo riconosce l’Io Sono come Uccisore del
Demone (forza negativa) per mezzo delle Possenti Braccia
(dell’Imperatore) che (giustamente) esercita il dominio dei sensi. Le ultime
domande sono poi sull’argomento centrale, il nocciolo dell’insegnamento
del Maestro, sulla Rinunzia, l’Abbandono e la differenza tra i due. Krisna
richiama dapprima la definizione che i saggi danno dei due termini: la
Rinunzia è la rinunzia delle azioni interessate; l’Abbandono è l’abbandono
del frutto delle opere. A prima vista sembra che tra i due concetti ci sia una
differenza di significato, ma nel prosieguo della spiegazione appare
evidente che non c’è sostanziale differenza: rinunziare all’interesse o
abbandonare il frutto sono la stessa cosa. Quello che invece viene messo
bene in evidenza, a seguitare l’istruzione pratica del canto XVII, è la triplice
qualità della Rinuncia – Abbandono: sattvica, rajasica, tamasica (bianca,
mista, nera). Notiamo che Arjuna viene chiamato

P U R U S A V Y Â G H R A

80 + 6 + 200 + 6 + 300 + 1 + 6 + 10 + 1 + 3 + 8 + 200 + 1 = 822 = 3

Imperatrice ricordiamo che la personalità è la sposa dell’Io Sono, se Daath è
detto Imperatore, la personalità non può che essere Imperatrice, la Vergine
gloriosa che viene assunta in cielo dopo che tutte le regioni dell’Impero
sono state sottomesse all’Imperatore suo Sposo… (v. n. 3 dei Racconti dei
Tarocchi).


Versi 5 – 8.


Ciò che si richiede al Discepolo non è la rinunzia alle opere, ma
l’operare nell’abbandono del frutto delle azioni, è per questo che tutte le
azioni necessarie e soprattutto quelle di sacrificio, donazione e penitenza
devono essere compiute proprio a purificazione del savio discepolo; allora
l’abbandono risulta essere sattvico, dell’Albero bianco. Se invece si
rinunzia all’azione perché si è delusi nel risultato (ci si aspettava qualcosa)
allora l’abbandono è rajasico; se poi si rinunzia all’azione per paura della
sofferenza fisica, allora l’abbandono è tamasico (abbiamo invertito il
significato dei vv. 8 e 9 per esigenze logiche: la delusione è legata
all’aspettativa e perciò rajasica, il non voler soffrire fisicamente al torpore e
alla pigrizia è perciò tamasico e non il contrario).

Versi 9 – 12.

Come vedemmo in precedenza le regole date da Krisna per l’agire
senza agire (l’azione prescritta compiuta perché deve esserlo con
l’abbandono dell’attaccamento e del frutto) sono le stesse che ritroviamo
nel Tao tê Ching: “L’Uomo Reale, il Santo, è costantemente un buon
salvatore di cose perché non respinge nessuna cosa (“non odia l’azione
spiacevole né ama quella piacevole”), Egli è ciò che si chiama
un’illuminazione ambivalente (cap. XXVII)” e anche: “Il Santo agisce ma
non ne trae nessuna sicurezza, quando un’opera è compiuta Egli non si
sofferma su di essa (cap. LXXVII)” perché il Santo è proprio “Colui che
compie l’abbandono”, infatti “Egli si attiene alla pratica del Non Agire e
professa un insegnamento senza parole (cap. XLIII)”. Colui che compie
l’abbandono e che ha fatto la rinunzia “non riscuote il frutto buono, cattivo

o misto” dopo la morte e perciò non deve rinascere.
Versi 13 – 17.

Ma perché esiste l’azione e di conseguenza la ricerca del frutto
dell’azione? A questa domanda non formulata ma sottintesa di Arjuna
Krisna risponde con l’elencare le 5 (5 = il numero dell’uomo) cause della
necessità del compimento delle azioni descritte dal Sânkhya; in pratica esse


sono la manifestazione stessa nei tre piani inferiori così come la
conosciamo: il corpo fisico (la base), l’anima, il veicolo psichico e mentale,
nephesh e ruach (l’agente) e gli organi per mezzo dei quali l’anima si
manifesta, visibili, nonché le divinità (Sephiroth o Dei) che agli organi
sottendono, invisibili. Tutte le azioni dipendono da questi tre veicoli,
mondi, piani: il fisico, l’astrale e il mentale; solo l’ignorante crede che
anche lo Spirito, il quarto veicolo del mondo di Atziluth, venga coinvolto
dalle azioni, ma chi “sa” (e per sapere si intende vivere e praticare la
Sapienza) è sciolto dai legami del frutto dell’azione, al limite quand’anche
quel saggio uccidesse un intero esercito ma per dovere e distaccato dal
frutto dell’azione, nell’Agire senza Agire, non sarebbe vincolato.

Versi 18 – 28.

Tutto è triplice nella suddivisione di questi tre piani inferiori che
vengono coinvolti nelle azioni; cominciamo ad esaminare l’origine
dell’azione: la conoscenza dell’azione è del mentale; l’oggetto della
conoscenza è del fisico e colui che conosce, spinto dal desiderio è mosso
dall’astrale; ugualmente l’azione stessa è costituita da tre elementi:
l’istrumento (fisico), lo scopo che la mente si propone (mentale) e la spinta
dell’interesse, desiderio che muove colui che agisce. Ancora, secondo la
triplice divisione conoscenza, azione e agente sono di tre qualità: sattvica,
rajasica e tamasica, cioè dell’albero bianco, misto o nero.

Conoscenza sattvica è quella che vede l’Unità del Tutto
(reintegrativa); conoscenza rajasica è quella che distingue molteplici nature
(vincolante alle rinascite); conoscenza tamasica è quella cieca e separativa,
fanatica e materialista (disintegrante).

L’agente sattvico è quello che agisce senza agire (il Santo, l’Iniziato,
l’Uomo Reale); l’agente rajasico è quello soggetto ai contrari, l’uomo
comune (vincolato alle rinascite); l’agente tamasico è quello volto al male
(destinato alla disintegrazione).


Versi 29 – 40.


Anche l’intelletto, la capacità di comprendere e la fermezza (volontà)
per mezzo della quale si attuano i desideri rajasici tamsici o sattvici, sono di
tre specie: intelletto sattvico è quello che comprende veramente lo scopo
della vita, come funziona l’Albero e quale è il dovere da compiere; intelletto
rajasico è quello che ponendo l’io personale innanzi tutto non sa riconoscere
sempre e bene il proprio dovere; intelletto tamasico è quello che vede tutto
invertito, per il quale è bene quello che è male e il contrario.

La volontà sattvica è quella che indirizza tutto l’agire verso il Sé
Superiore senza mai deflettere dallo scopo prefisso; è rajasica quella che
ricerca il frutto dell’azione in qualunque cosa (anche nella religione o nelle
opere di penitenza); è tamasica quella che si abbarbica ostinatamente
all’errore e non vuole allontanarsene e abbandonarlo.

Anche la felicità che la personalità ricerca e può sperimentare è di tre
qualità e legata ai tre Guna: è sattvica quella che all’inizio costa sacrificio e
alla fine premia con la serenità; è rajasica quella che all’inizio dà gioia ma
poi sofferenza; è tamasica quella legata al torpore, al non far niente, alla
malvagità.

Versi 41 – 44.

Come vedemmo nel canto IV le quattro caste fondamentali della
tradizione indù sono collocabili sull’Albero e i doveri propri a ciascuna di
esse sono rapportabili ai quattro piani o stati di Coscienza; poniamo perciò i
Brâhmana, ai quali sono propri i doveri di perfezione in ogni campo, in
Atziluth; i Ksatriya, ai quali sono propri i doveri di dominazione, in Briah; i
Vaisya, ai quali sono propri i doveri di produzione, in Yetzirah; i Sûdra, ai
quali sono propri i doveri di servizio, in Assiah.


Versi 45 – 48.


Compiere il proprio dovere è mezzo di perfezione perché il dovere
paga tutti i debiti karmici passati, perciò compiere il proprio dovere
adorando l’Io Sono è già realizzante. Ma se non si riesce a compiere
completamente tutto il proprio dovere, anche compierlo parzialmente è già
molto positivo; invece il compiere buone azioni ma che vanno oltre il
proprio dovere è fonte di altro karma (anche se meritevole) senza
l’esaurimento del precedente. Facciamo un esempio: un giovane si trova in
famiglia e non va d’accordo con i suoi; se per sfuggire alla situazione se ne
va di casa e si crea (il che è molto difficile) una famiglia armoniosa, non ha
compiuto il proprio dovere verso i genitori e i fratelli. Lo stesso è per la
coppia: se ci si ritrova sposati con una persona con cui non si riesce ad
andare d’accordo, un nuovo matrimonio, anche se sereno, non cancella il
debito karmico non completamente esaurito con il primo coniuge e così via.
Una difficile situazione se non viene risolta è solo rimandata, il problema si
ripresenterà puntualmente: solo lo scioglimento armonioso di un rapporto
difficile è mezzo di liberazione da quel particolare legame karmico.

Versi 49 – 56.

Viene poi ripetuto da Krisna, ora “succintamente”, l’elenco delle
qualità positive che deve coltivare il discepolo, colui che vuole
assolutamente la reintegrazione: la padronanza di sé, la mancanza di
desideri; la purezza dell’intelletto, l’abbandono dei sensibili (l’attaccamento
alle sensazioni), la morigeratezza, l’abitudine al silenzio e alla solitudine,
alla continua meditazione e contemplazione del Sé Superiore. Egli deve
ignorare completamente lo sviluppo dell’albero nero e, nella ricerca
continua dell’unità col Supremo Spirito, trovare la sua pacificazione.
Coltivandosi così egli allora diviene saggio, conosce l’Io Sono e,
conoscendolo, entra in Lui (“in Me”), Krisna, Cristo, senza agire
nell’azione, nella Liberazione Suprema.


Versi 57 – 62.


Poi Krisna si rivolge direttamente ad Arjuna e praticamente,
affettuosamente lo incita all’unione amorosa continua e totale con Lui
stesso, nel pensiero, nel sentimento e nell’azione; lo incita anche
all’obbedienza, infatti dice: “Se compiacendoti nell’orgoglio pensi: ”io non
voglio combattere”, vana è questa tua risoluzione eccetera”.

Chiaramente Arjuna è dotato di libero arbitrio, se vuole ignorare
l’insegnamento del Maestro è padronissimo di farlo, ma ne pagherà le
conseguenze e in un modo o nell’altro il combattimento avverrà.

Ma se non è capace di identificarsi direttamente con l’Io Sono (se la
concentrazione nel chackra in mezzo agli occhi è per lui troppo alta) allora
Krisna consiglia Arjuna di “cercare l’Io Sono nel cuore, là dove è più facile
sentirlo”.

Versi 63 – 78.

L’ultima parte della Gîtâ è tutta traboccante di amore e di
compassione del Maestro per il Discepolo. La Sapienza segreta è stata da
Lui qui dichiarata: Egli ha donato Se Stesso (la Sapienza) nel segreto ( = nel
se-creto, nel distillato più interno del sé) le Sue Parole lì vanno conservate e
meditate; nell’unione ricercata e mantenuta del Discepolo col Maestro è la
Conoscenza suprema della Verità, il Rifugio unico, l’Abbandono, la
Liberazione.

Questo insegnamento supremo, soprattutto nella parte se-creta non va
divulgato a chi non è degno (“… non gettate le vostre perle ai porci perché
non le pestino con i loro piedi e, rivoltandosi, vi sbranino” Matteo 7, 6), ma
a chi è degno, questo insegnamento va comunicato; farsi strumento di
espansione dell’insegnamento dell’Io Sono è il Servizio più gradito alla
Divinità e motivo di particolare preferenza per il Suo Amore.

Studiare il Testo Sacro, vuol dire fare il Sacrifizio della Sapienza, il
Sacrifizio più reintegrativo. Chi, non essendo capace di studio personale, ne
ascolterà con fede la lettura, anche quello sarà emancipato dal peccato. Ed
ecco la domanda diretta conclusiva, drammatica, del Sé alla personalità, che
permette l’esercizio del libero arbitrio, senza del quale nulla si può fare:
“Dunque, che cosa decidi di fare?”. E la risposta di Arjuna è perfetta:


“Distrutta è l’illusione, per tua Grazia (è la Grazia che permette la Sapienza)
ho ritrovato la mia memoria (Arjuna non ha imparato qualcosa di nuovo, ha
ritrovato la sua memoria, ora ri-corda, col cuore quello che ha sempre
saputo e che l’illusione gli velava)… Seguirò la tua Parola”. Il Discepolo
aderisce completamente alle direttive del Maestro.

Allora non resta altro da dire se non quello che Sañjaya dice a
Dhritarâstra:

“Ovunque è Krisna, Signore del mistico potere, ovunque è Pârtha,
l’arciere, ivi sono la fortuna, la vittoria, la prosperità e la giustizia eterna.
Questa è la mia opinione”.

Quando l’Io Sono e la personalità si uniscono e la personalità segue il
Maestro, la perfezione dell’Albero si compie:

“Come in alto così in basso”.







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