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Fallaci Oriana
Lettera
a un bambino
mai nato

A chi non teme il dubbio
a chi si chiede i perch
senza stancarsi e a costo
di soffrire di morire
A chi si pone il dilemma
di dare la vita o negarla
questo libro dedicato
da una donna
per tutte le donne
Stanotte ho saputo che c'eri: una goccia di vita scap-
pata dal nulla. Me ne stavo con gli occhi spalancati nel
buio e d'un tratto, in quel buio, s' acceso un lampo di
certezza: s, c'eri. Esistevi. E stato come sentirsi colpire
in petto da una fucilata. Mi si fermato il cuore. E
quando ha ripreso a battere con tonfi sordi, cannonate
di sbalordimento, mi sono accorta di precipitare in un
pozzo dove tutto era incerto e terrorizzante. Ora eccomi
qui, chiusa a chiave dentro una paura che mi bagna il
volto, i capelli, i pensieri. E in essa mi perdo. Cerca di
capire: non paura degli altri. Io non mi curo degli al-
tri. Non paura di Dio. Io non credo in Dio. Non
paura del dolore. Io non temo il dolore. E paura di te,
del caso che ti ha strappato al nulla, per agganciarti al
mio ventre. Non sono mai stata pronta ad accoglierti,
anche se ti ho molto aspettato. Mi son sempre posta
l'atroce domanda: e se nascere non ti piacesse? E se un
giorno tu me lo rimproverassi gridando "Chi ti ha chie-
sto di mettermi al mondo, perch mi ci hai messo, per-
ch?". La vita una tale fatica, bambino. E una guerra
che si ripete ogni giorno, e i suoi momenti di gioia sono
parentesi brevi che si pagano un prezzo crudele. Come
faccio a sapere che non sarebbe giusto buttarti via, come
faccio a intuire che non vuoi essere restituito al silenzio?
Non puoi mica parlarmi. La tua goccia di vita soltanto
un nodo di cellule appena iniziate. Forse non nemmeno
vita ma possibilit di vita. Eppure darei tanto perch tu
potessi aiutarmi con un cenno, un indizio. La mia mam-
ma sostiene che glielo detti, che per questo mi mise
al mondo.

La mia mamma, vedi, non mi voleva. Ero incomin-
ciata per sbaglio, in un attimo di altrui distrazione. E
perch non nascessi ogni sera scioglieva nell'acqua una
medicina. Poi la beveva, piangendo. La bevve fino alla
sera in cui mi mossi, dentro il suo ventre, e le tirai un
calcio per dirle di non buttarmi via. Lei stava portando
il bicchiere alle labbra. Subito lo allontan e ne rovesci
il contenuto per terra. Qualche mese dopo mi rotolavo
vittoriosa nel sole, e se ci sia stato bene o male non so.
Quando sono felice penso che sia stato bene, quando
sono infelice penso che sia stato male. Per, anche quan-
do sono infelice, penso che mi dispiacerebbe non essere
nata perch nulla peggiore del nulla. Io, te lo ripeto,
non temo il dolore. Esso nasce con noi, cresce con noi,
ad esso ci si abitua come al fatto d'avere due braccia e
due gambe. Io, in fondo, non temo neanche di morire:
perch se uno muore vuol dire che nato, che uscito
dal niente. Io temo il niente, il non esserci, il dover dire
di non esserci stato, sia pure per caso, sia pure per sba-
glio, sia pure per l'altrui distrazione. Molte donne si chie-
dono: mettere al mondo un figlio, perch? Perch ab-
bia fame, perch abbia freddo, perch venga tradito e
offeso, perch muoia ammazzato alla guerra o da una
malattia? E negano la speranza che la sua fame sia sa-
ziata, che il suo freddo sia scaldato, che la fedelt e il
rispetto gli siano amici, che viva a lungo per tentar di
cancellare le malattie e la guerra. Forse hanno ragione
loro. Ma il niente da preferirsi al soffrire? Io perfino
nelle pause in cui piango sui miei fallimenti, le mie delu-
sioni, i miei strazi, concludo che soffrire sia da preferirsi al
niente. E se allargo questo alla vita, al dilemma nascere
o non nascere, finisco con l'esclamare che nascere me-
glio di non nascere. Tuttavia lecito imporre tale ragio-
namento anche a te? Non come metterti al mondo per
me stessa e basta? Non mi interessa metterti al mondo per
me stessa e basta. Tanto pi che non ho affatto bisogno
di te.

* * *

Non mi hai tirato calci, non mi hai inviato risposte.
E come avresti potuto? Ci sei da cos poco: se ne chie-
dessi conferma al dottore, sorriderebbe di scherno. Ma
ho deciso per te: nascerai. I 'ho deciso dopo averti visto
in fotografia. Non era proprio la tua fotografia, eviden-
te: era quella di un qualsiasi embrione di tre settimane,
pubblicata su un giornale insieme a un reportage sul for-
marsi della vita. E, mentre la guardavo, la paura m'
passata: con la stessa rapidit con cui m'era venuta.
Sembravi un fiore misterioso, un'orchidea trasparente.
In cima si scorgeva una specie di testa con le due protu-
beranze che diverranno il cervello. Pil'in basso, una spe-
cie di cavit che diverr la bocca. A tre settimane sei
quasi invisibile, spiega la didascalia. Due millimetri e
mezzo. Eppure cresce in te un accenno di occhi, qual-
cosa che assomiglia a una spina dorsale, a un sistema
nervoso, a uno stomaco, a un fegato, a intestini, a pol-
moni. Il tuo cuore gi fatto, ed grande: in propor-
zione, nove volte pi grande del mio. Pompa sangue e
batte regolarmente dal diciottesimo giorno: potrei but-
tarti via? Che m'importa se sei incominciato per caso o
per sbaglio, anche il mondo in cui ci troviamo non inco-
minci per caso e forse per sbaglio? Alcuni sostengono che
in principio non c'era nulla fuorch una gran calma, un
gran silenzio immobile, poi si verific una scintilla, uno
strappo, e ci che non era fu. Allo strappo seguirono pre-
sto altri strappi: sempre pi imprevisti, sempre pi insen-
sati, pi ignari delle conseguenze. E tra le conseguenze
sbocci una cellula, anche lei per caso, forse per sbaglio,
che subito si moltiplic a milioni, a miliardi, finch nac-
quero gli alberi e i pesci e gli uomini. Tu credi che qual-
cuno si ponesse un dilemma prima dello scoppio o prima
della cellula? Credi che si domandasse se gli sarebbe pia-
ciuto o no? Credi che si preoccupasse della sua fame, del
suo freddo, della sua infelicit? Io lo escludo. Anche se il
qualcuno fosse esistito, ad esempio un Dio paragonabile
all'inizio dell'inizio, al di l del tempo e al di l dello spa-
zio, io temo che non si sarebbe curato del bene e del male.
Tutto avvenne perch poteva avvenire, quindi doveva av-
venire, secondo una prepotenza che era l'unica prepoten-
za legittima. E lo stesso discorso vale per te. Mi prendo la
responsabilit della scelta.

Me la prendo senza egoismo, bambino: metterti al
mondo, lo giuro, non mi diverte. Non mi vedo camminare
per strada col ventre gonfio, non mi vedo allattarti e lavar-
ti e insegnarti a parlare. Sono una donna che lavora ed ho
tanti altri impegni, curiosit: te l'ho gi detto che non ho
bisogno di te. Per ti porter avanti lo stesso, che ti piaccia
o no. Te la imporr lo stesso quella prepotenza che fu im-
posta anche a me, e ai miei genitori, ai miei nonni, ai non-
ni dei miei nonni: su fino al primo essere umano parto-
rito da un essere umano, che gli piacesse o no. Probabil-
mente, se a costui o a costei fosse stato concesso di sce-
gliere, si sarebbe impaurito e avrebbe risposto non voglio
nascere, no. Ma nessuno gli chiese un parere, e cos nac-
que e visse e mor dopo aver partorito un altro essere
umano cui non aveva chiesto di scegliere, e costui fece lo
stesso, per milioni di anni fino a noi, e ogni volta fu una
prepotenza senza la quale non esisteremmo. Coraggio,
bambino. Pensi che il seme di un albero non abbia bisogno
di coraggio quando buca la terra e germoglia? Basta un
colpo di vento a staccarlo, la zampina di un topo a schiac-
ciarlo. Eppure lui germoglia e tiene duro e cresce gettan-
do altri semi. E diventa un bosco. Se un giorno griderai
"Perch mi hai messo al mondo, perch?" io ti risponde-
r: "Ho fatto ci che fanno e hanno fatto gli alberi, per
milioni e milioni di anni prima di me, e credevo di fare
bene".

L'importante non cambiare idea ricordando che
gli esseri umani non sono alberi, che la sofferenza di un
essere umano mille volte pi grande della sofferenza
di un albero perch cosciente, che a nessuno di noi
giova diventare un bosco, che non tutti i semi degli al-
beri generano alberi: nella stragrande maggioranza van-
no perduti. Un simile voltafaccia possibile, bambino:
la nostra logica piena di contraddizioni. Appena affer-
mi qualcosa, ne vedi il contrario. E magari ti accorgi
che il contrario valido quanto ci che affermavi. Il mio
ragionamento di oggi potrebb'essere rovesciato cos, con
uno schiocco di dita. Infatti ecco: mi sento gi confusa,
disorientata Forse perch non posso confidarmi con nes-
suno al di fuori di te. Sono una donna che ha scelto di
vivere sola. Tuo padre non sta con me. E non me ne dolgo
sebbene, ogni tanto, il mio sguardo cerchi la porta da cui
egli usc, col suo passo deciso, senza che io lo fermassi,
quasi non avessimo pi nulla da dirci.

Ti ho portato dal medico. pi che la conferma, vo-
levo qualche consiglio. Per risposta ha scosso la testa di-
cendo che sono impaziente, non pu ancora pronun-
ciarsi, ripassi tra quindici giorni, pronta a scoprire che
eri un prodotto della mia fantasia. Torner solo per di-
mostrargli che un ignorante. Tutta la sua esperienza non
vale il mio intuito, e come fa. un uomo a capire una
donna che sostiene anzitempo di aspettare un bambino?
Un uomo non resta incinto e, a proposito, dimmi: un
vantaggio o una limitazione? Fino a ieri mi sembrava
un vantaggio, anzi un privilegio. Oggi mi sembra una
limitazione, anzi una povert. V' un che di glorioso nel
chiudere dentro il proprio corpo un'altra vita, nel sa-
persi due anzich uno. A momenti ti invade addirittura
un senso di trionfo e, nella serenit che accompagna
il trionfo, niente ti preoccupa: n il dolore fisico che
dovrai affrontare, n il lavoro che dovrai sacrificare, n
la libert che dovrai perdere. Sarai un uomo o una don-
na? Vorrei che tu fossi una donna. Vorrei che tu pro-
vassi un giorno ci che provo io: non sono affatto d'ac-
cordo con la mia mamma la quale pensa che nascere
donna sia una disgrazia. La mia mamma, quando mol-
to infelice, sospira: Ah, se fossi nata uomo!. Lo so:
il nostro un mondo fabbricato dagli uomini per gli uo-
mini, la loro dittatura cos antica che si estende per-
fino al linguaggio. Si dice uomo per dire uomo e donna,
si dice bambino per dire bambino e bambina, si dice
figlio per dire figlio e figlia, si dice omicidio per indi-
car l'assassinio di un uomo e di una donna. Nelle leg-
gende che i maschi hanno inventato per spiegare la vi-
ta, la prima creatura non una donna: un uomo chia-
mato Adamo. Eva arriva dopo, per divertirlo e combi-
nare guai. Nei dipinti che adornano le loro chiese, Dio
un vecchio con la barba: mai una vecchia coi capelli
bianchi. E tutti i loro eroi sono maschi: da quel Prome-
teo che scopr il fuoco a quell'Icaro che tent di volare,
su fino a quel Ges che dichiarano figlio del Padre e del-
lo Spirito Santo: quasi che la donna da cui fu partorito
fosse un'incubatrice o una balia. Eppure, o proprio per
questo, essere donna cos affascinante. E un'avventura
che richiede un tale coraggio, una sfida che non annoia
mai. Avrai tante cose da intraprendere se nascerai donna.
Per incominciare, avrai da batterti per sostenere che se
Dio esistesse potrebbe anche essere una vecchia coi capelli
bianchi o una bella ragazza. Poi avrai da batterti per
spiegare che il peccato non nacque il giorno in cui Eva
colse una mela: quel giorno nacque una splendida virt
chiamata disubbidienza. Infine avrai da batterti per
dimostrare che dentro il tuo corpo liscio e rotondo c'
un'intelligenza che urla d'essere ascoltata. Essere mam-
ma non un mestiere. Non nemmeno un dovere. E so-
lo un diritto fra tanti diritti. Faticherai tanto ad urlarlo.
E spesso, quasi sempre, perderai. Ma non dovrai scorag-
giarti. Battersi molto pi bello che vincere, viaggiare
molto pi divertente che arrivare: quando sei arriva-
to o hai vinto, avverti un gran vuoto. E per superare
quel vuoto devi metterti in viaggio di nuovo, crearti nuo-
vi scopi. S, spero che tu sia una donna: non badare se
ti chiamo bambino. E spero che tu non dica mai ci che
dice mia madre. Io non l'ho mai detto.

Ma se nascerai uomo io sar contenta lo stesso. E
forse di pi perch ti saranno risparmiate tante umilia-
zioni, tante servit, tanti abusi. Se nascerai uomo, ad
esempio, non dovrai temere d'essere violentato nel buio
di una strada. Non dovrai servirti di un bel viso per es-
sere accettato al primo sguardo, di un bel corpo per na-
scondere la tua intelligenza. Non subirai giudizi malvagi
quando dormirai con chi ti piace, non ti sentira~ dire
che il peccato nacque il giorno in cui cogliesti una mela.
Faticherai molto meno. Potrai batterti pi comodamen-
te per sostenere che, se Dio esistesse, potrebb'essere anche
una vecchia coi capelli bianchi o una bella ragazza. Potrai
disubbidire senza venir deriso, amare senza svegliarti una
notte con la sensazione di precipitare in un pozzo, difen-
derti senza finire insultato. Naturalmente ti toccheran-
no altre schiavit, altre ingiustizie: neanche per un uo-
mo la vita facile, sai. Poich avrai muscoli pi saldi, ti
chiederanno di portare fardelli pi pesi, ti imporranno
arbitrarie responsabilit. Poich avrai la barba, rideran-
no se tu piangi e perfino se hai bisogno di tenerezza
Poich avrai una coda davanti, ti ordineranno di ucci
dere o essere ucciso alla guerra ed esigeranno la tua com-
plicit per tramandare la tirannia che instaurarono nel-
le caverne. Eppure, o proprio per questo, essere un uo-
mo sar un'avventura altrettanto meravigliosa: un'impre-
sa che non ti deluder mai. Almeno lo spero perch, se na-
scerai uomo, spero che sarai un uomo come io l'ho sem-
pre sognato: dolce coi deboli, feroce coi prepotenti, ge-
neroso con chi ti vuol bene, spietato con chi ti coman-
da. Infine, nemico di chiunque racconti che i Ges sono
figli del Padre e dello Spirito Santo: non della donna
che li partor.

Bambino, io sto cercando di spiegarti che essere un uo-
mo non significa avere una coda davanti: significa essere
una persona. E anzitutto, a me, interessa che tu sia una
persona. E una parola stupenda, la parola persona, perch
non pone limiti a un uomo o a una donna, non traccia fron-
tiere tra chi ha la coda e chi non ce l'ha. Del resto il filo che
divide chi ha la coda da chi non ce l'ha, un filo talmente
sottile: in pratica si riduce alla facolt di maturare o no
una creatura nel ventre. Il cuore e il cervello non hanno
sesso. Nemmeno il comportamento. Se sarai una persona
di cuore e di cervello, ricordalo, io non star certo tra quel-
li che ti ingiungeranno di comportarti in un modo o nell'al-
tro in quanto maschio o femmina. Ti chieder solo di sfrut-
tare bene il miracolo d'essere nato, di non cedere mai alla
vilt. E una bestia che sta sempre in agguato, la vilt. Ci
morde tutti, ogni giorno, e son pochi coloro che non si la-
sciano sbranare da lei. In nome della prudenza, in nome
della convenienza, a volte della saggezza. Vili fino a quan-
do un rischio li minaccia, gli umani diventan spavaldi dopo
che il rischio passato. Non dovrai evitare il rischio, mai:
anche se la paura ti frena. Venire al mondo gi un ri-
schio. Quello di pentirsi, poi, d'esser venuti.

Forse troppo presto per parlarti cos. Forse dovrei ta-
certi per ora le brutture e le malinconie, raccontarti un
mondo di innocenze e gaiezze. Ma sarebbe come attirarti
in un inganno. Sarebbe come indurti a credere che la vita
un tappeto morbido sul quale si pu camminare scalzi e
non una strada di sassi, bambino. Sassi contro cui si in-
ciampa, si cade, ci si ferisce. Sassi contro cui bisogna pro-
teggerci con scarpe di ferro. E neanche questo basta per-
ch mentre proteggi i piedi, c' sempre qualcuno che rac-
coglie una pietra per tirartela in testa. E per oggi ho fi-
nito, figlio mio, figlia mia. La lezione ti giunta? Chis-
s che direbbero alcuni se mi ascoltassero. Mi accusereb-
bero d'essere pazza o semplicemente crudele? Ho guar-
dato la tua ultima fotografia e, a cinque settimane, sei
lungo meno di un centimetro. Stai cambiando molto. Pi
che un fiore misterioso ora sembri una graziosissima lar-
va, anzi un pesciolino cui spuntano svelte le pinne. Quat-
tro pinne che diverranno gambe e braccia. Gli occhi so-
no gi due minuscoli granelli neri, con un cerchio in-
torno, e in fondo al corpo hai una codina ! La didascalia
dice che in questo periodo quasi impossibile distin-
guerti dall'embrione di un qualsiasi mammifero: se tu
fossi un gatto, appariresti pi o meno ci che sei ora. In-
fatti il volto non c'. Non c' nemmeno il cervello. Io ti
parlo, bambino, e tu non lo sai. Nel buio che t'avvolge
ignori addirittura d'esistere: potrei buttarti via e non sa-
presti mai che t'ho buttato via. Non avresti modo di con-
cludere mai se ti ho fatto un torto o un regalo.

Ieri ho avuto un cedimento di malumore. Devi scu-
sare il discorso sul fatto che potrei buttarti via e tu non
sapresti nemmeno se ti ho fatto un torto o un regalo. E un
discorso e basta. La mia scelta non affatto mutata anche
se, intorno a me, ci solleva sorpresa. Stanotte ho parlato
con tuo padre. Gli ho detto che c'eri. Gliel'ho detto al tele-
fono perch si trova lontano e, a giudicare da quello che
ho udito, non gli ho dato una buona notizia. Ho udito,
anzitutto, un profondo silenzio: neanche fosse caduta la
comunicazione. E poi ho udito una voce che balbettava,
roca: Quanto ci vorr? . Gli ho risposto senza capire:
Nove mesi, suppongo. Anzi meno di otto, ormai. E
allora la voce ha smesso d'essere roca per diventare stri-
dula: Parlo di denaro . Che denaro? ho replicato.
Il denaro per disfarsene, no? S, ha detto proprio
disfarsene. Neanche tu fossi un fagotto. E quando,
pi~ serenamente possibile, gli ho spiegato che avevo tut-
t'altra intenzione, s' perduto in un lungo ragionamento
dove le preghiere si alternavano ai consigli, i consigli al-
le minacce, le minacce alle lusinghe. Pensa alla tua
carriera, considera le responsabilit, un giorno potresti
pentirtene, cosa diranno gli altri. Deve aver speso una

fortuna in quella telefonata. Ogni tanto la centralinista
interveniva con voce sorpresa e chiedeva: Continua ? .
Io sorridevo, quasi divertita. Per mi sono divertita assai
meno quando, incoraggiato dal fatto che ascoltassi zitta,
ha concluso che la spesa potevamo sostenerla a met: do-
potutto eravamo colpevoli entrambi . Mi ha colto la
nausea. Mi sono vergognata per lui. E ho abbassato il ri-
cevitore pensando che un tempo lo amavo.
- Lo amavo? Un giorno io e te dovremo discutere un po-
co su questa faccenda chiamata amore. Perch, onesta-
mente, non ho ancora capito di cosa si tratti. Il mio so-
spetto che si tratti di un imbroglio gigantesco, inven-
tato per tener buona la gente e distrarla. Di amore par-
lano i preti, i cartelloni pubblicitari, i letterati, i politici,
coloro che fanno all'amore, e parlando di amore, pre-
sentandolo come toccasana di ogni tragedia, feriscono
e tradiscono e ammazzano l'anima e il corpo. Io la
odio questa parola che ovunque e in tutte le lingue.
Amo-camminare, amo-bere, amo-fumare, amo-la-liber-
t, amo ~ mio-amante, amo-mio-figlio. Io cerco di non
usarla mai, di non chiedermi nemmeno se ci che turba
la mia mente e il mio cuore la cosa che chiamano
amore. Infatti non so se ti amo. Non penso a te in ter-
mini di amore. Penso a te in termini di vita. E tuo pa-
dre, guarda: pi ci penso, pi credo di non averlo mai
amato. L'ho ammirato, l'ho desiderato, ma amato no. Co-
s coloro che vennero prima di lui, fantasmi deludenti di
una ricerca sempre fallita. Fallita? A qualcosa serv, dopo-
tutto: a capire che nulla minaccia la tua libert quanto il
misterioso trasporto che una creatura prova verso un'al-
tra creatura, ad esempio un uomo verso una donna, o
una donna verso un uomo. Non vi sono cinghie n cate-
ne n sbarre che ti costringano a una schiavit pi cieca,
a un'impotenza pi disperata. Guai se ti regali a qual-
cuno in nome di quel trasporto: serve solo a dimenticare
te stesso, i tuoi diritti, la tua dignit e cio la tua libert.
Come un cane che annaspa nell'acqua cerchi invano di
raggiungere una riva che non esiste, la riva che ha nome
Amare ed Essere Amato, e finisci neutralizzato deriso de-
luso. Nel caso migliore finisci col chiederti cosa ti spinse a
buttarti nell'acqua: lo scontento di te stesso, la speranza
di trovare in un altro cosa non vedevi in te stesso? La pau-
ra della solitudine, della noia, del silenzio? Il bisogno di
possedere ed essere posseduto? Secondo alcuni questo
l'amore. Ma io temo che sia molto meno: una fame che,
una volta saziata, ti lascia una specie di indigestione. Un
vomito. E tuttavia, tuttavia, deve pur esserci qualcosa in
grado di rivelarmi il significato di quella maledetta pa-
rola, bambino. Deve pur esserci qualcosa in grado di farmi
scoprire cos', e che c'. Ne ho tanto bisogno, tanta fame.
Ed in questo bisogno, questa fame, che penso: forse ve-
ro ci che ha sempre sostenuto mia madre, l'amore ci
che una donna sente per suo figlio quando lo prende tra le
braccia e lo sente solo, inerme, indifeso. Almeno fino a
quando inerme, indifeso, lui non ti insulta, non ti delude.
E se toccasse a te farmi scoprire il significato di quelle cin-
que lettere assurde? Proprio a te che mi rubi a me stessa e
mi succhi il sangue e mi respiri il respiro?

Un indizio esiste. Gli innamorati lontani si consolano
con le fotografie. Ed io ho sempre in mano le tue foto-
grafie. E diventata ormai un'ossessione. Appena rientro
in casa agguanto quel giornale, calcolo i giorni, la tua
et, e ti cerco. Oggi hai compiuto sei settimane. Eccoti
a sei settimane, ripreso di spalle. Come sei diventato bel-
lino! Non pi pesce, non pi larva, non pi cosa infor-
me, sembri gi una creatura: con quel testone calvo e
rosa. La spina dorsale ben definita, una striscia bianca
e sicura nel mezzo, le tue braccia non sono pi protu-
beranze confuse n pinne ma ali. Ti sono spuntate le ali !
Viene voglia di accarezzarle, accarezzarti. Come si sta l
nell'uovo? Secondo le fotografie, sei sospeso in un uovo
trasparente che ricorda le uova di cristallo dentro cui si
mette una rosa. Al posto della rosa, tu. Dall'uovo parte
un cordone che si conclude in una palla bianca, lontana,
con venature di rosso e macchie di azzurro. Vista cos sem-
bra la Terra, osservata da migliaia e migliaia di miglia. S,
proprio come se dalla Terra partisse un filo intermina-
bile, lungo quanto l'idea della vita, e da quelle distanze
remote giungesse a te. In modo cos logico, cos sensato.
Ma come fanno a dire che l'essere umano un incidente
della natura?

Il medico aveva detto di tornare da lui dopo sei set-
timane. Domani ci vado. E aghi di inquietudine mi bu-
cano l'anima alternando vampate di gioia.

Con un tono che oscillava tra il solenne e l'allegro,
ha alzato un foglietto ed ha detto: Congratulazioni, si-
gnora . Automaticamente ho corretto: Signorina .
E stato come tirargli uno schiaffo. Solennit ed allegria
sono scomparse, e fissandomi con voluta indifferenza, ha
risposto: Ah ! . Poi ha preso la penna, ha cancellato si-
gnora e ha scritto signorina. Cos, in una stanza gelida-
mente bianca, attraverso la voce di un uomo gelidamen-
te vestito di bianco, la Scienza mi ha dato l'annuncio
ufficiale che c'eri. Non mi ha impressionato per niente,
visto che lo sapevo gi e molto prima di lei. Per mi ha
sorpreso che si sottolineasse il mio stato civile e si por-
tasse quella correzione sul foglio. Aveva l'aria di un'av-
visaglia, di una complicazione a venire. Perfino il modo
In cui subito dopo la Scienza mi ha detto di spogliarmi
e stendermi sul lettuccio non era cordiale. Sia il medico
che l'infermiera si comportavano come se gli fossi antipa-
tica. Non mi guardavano in faccia. In compenso si scam-
biavano occhiate per dirsi chissacch. Quando sono stata
sul lettuccio, l'infermiera s' adirata perch non avevo di-
varicato le gambe e non le avevo appoggiate sulle due
stampelle di metallo. Lo ha fatto lei, con fastidio, e di-
cendo: Qui, qui ! . Io mi sentivo ridicola e vagamente
oscena. Le sono stata grata quando mi ha coperto il
ventre con un asciugamano. Ma allora successo il peg-
gio perch il medico ha infilato un guanto di gomma e
mi ha ficcato un dito dentro, con rabbia. Col dito den-
tro ha pigiato, ha frugato, ha pigiato di nuovo, facen-
domi male, ed io ho avuto paura che ti volesse schiac-
ciare perch non ero sposata. Infine lo ha tirato fuori e
ha sentenziato: Tutto bene, tutto regolare . Mi ha an-
che dato alcuni consigli, mi ha detto che la gravidanza
non una malattia, uno stato naturale, perci bene
che continui a fare quel che facevo prima. L'importante
che non fumi troppo, non compia sforzi eccessivi, non
mi lavi con acqua troppo calda, non mi proponga solu-
zioni criminali. Criminali? ho chiesto, stupita. E lui:
La legge lo proibisce. Ricordi! . Per rafforzar la mi-
naccia mi ha perfino prescritto alcune pillole di luteina
e mi ha ingiunto di tornare da lui ogni quindici giorni.
Me l'ha ingiunto senza un sorriso, prima di informarmi
che il pagamento si regolava alla cassa. Quanto all'infer-
miera, non mi ha salutato nemmeno. E, mentre chiudeva
la porta, m' parso che scotesse la testa con disappro-
vazione.

Temo che dovrai abituarti a simili cose. Nel mondo
in cui ti accingi ad entrare, e malgrado i discorsi sui tem-
pi che mutano, una donna che aspetta un figlio senza
- esser sposata vista il pi delle volte come una irrespon-
sabile. Nel migliore dei casi, come una stravagante, una
provocatrice. O un'eroina. Mai come una mamma ugua-
le alle altre. Il farmacista da cui ho comprato le pillole
di luteina mi conosce e sa bene che non posseggo un mari-
to. Quando ~gli ho dato la prescrizione, ha alzato le soprac-
ciglia e mi ha fissato con sgomento. Dopo il farmacista
sono andata dal sarto, per ordinargli un cappotto. Si av-
vicina l'inverno, voglio che tu stia al caldo. Con la boc-
ca piena di spilli per appuntarmi addosso il modello di
tela, il sarto ha incominciato a prender le misure. Quan-
- do gli ho spiegato che doveva prenderle molto abbon-
danti perch ero incinta e d'inverno sarei stata grossa,
violentemente arrossito. Ha spalancato la bocca e ho
temuto che inghiottisse gli spilli. Non li ha inghiottiti,
graziaddio, ma gli son caduti per terra. Gli caduto an-
che il metro, e ho provato come un dispiacere ad impor-
gli tanto imbarazzo. Lo stesso col commendatore. Che ci
piaccia o no, il commendatore colui che compra il mio
lavoro e ci d i soldi per vivere: sarebbe stato disonesto
non informarlo che tra qualche tempo non potr pi la-
vorare. Cos sono entrata nel suo ufficio e l'ho informa-
_- to. E rimasto senza fiato. Poi s' ripreso e ha balbettato
che rispettava la mia decisione, anzi mi ammirava mol-
7'' tissimo per averla presa, mi considerava assai coraggio-
=- sa, per sarebbe stato opportuno non raccontarlo a tutti.
Una cosa parlarne tra noi, gente di mondo, e una
cosa parlarne con chi non pu capire. Tanto pi che
~- lei potrebbe cambiare idea, no? Ha insistito parecchio
s~ su questa faccenda del cambiare idea. Almeno fino al
terzo mese avevo tutto il tempo di ripensarci, diceva, e
~ ripensarci avrebbe dimostrato saggezza: la mia carriera
E~ era cos bene avviata, perch interromperla per un sen-
timentalismo? Ci pensassi bene, non si trattava neanche di
interromperla per pochi mesi o un anno: si trattava di
mutare l'intero corso della mia vita. Non avrei pi potu-
to disporre di me stessa e non dimentichiamo che la ditta
mi aveva lanciato puntando proprio sulla disponibilit
che offrivo. Lui teneva in serbo tanti bei progetti per me.
Davvero, se ci ripensavo, non avevo che da dirlo. E mi
avrebbe aiutato.

Tuo padre ha telefonato una seconda volta. Gli tre-
mava la voce. Voleva sapere se ho avuto conferma. Gli
ho risposto di s. Mi ha chiesto una seconda volta quan-
do avrei "sistemato la cosa". Ho posato una seconda vol-
ta il ricevitore senza ascoltarlo. Quel che non capisco
perch, quando una donna annuncia d'essere legalmente
incinta, tutti si mettono a farle feste e toglierle di ma-
no i pacchetti e supplicarla di non strapazzarsi, restare
tranquilla. Che bella cosa, felicitazioni, si accomodi qui,
si riposi. Con me rimangono fermi, zitti, o fanno discorsi
sull'abortire. La diresti una congiura, un complotto per
dividerci. E vi sono momenti in cui mi sento inquieta,
in cui mi chiedo chi vincer: noi o loro? Forse per via
di quella telefonata. Ha rinverdito amarezze che credevo
dimenticate, offese che credevo superate. Quelle inflitte-
mi dai fantasmi ~razie a cui compresi che l'amore un
imbroglio. Le ferite son chiuse, le cicatrici appena visi-
bili, ma una telefonata cos basta a farle dolorare di nuo-
vo. Come vecchie ossa rotte quando cambia il tempo.

Il tuo universo l'uovo dentro il quale galleggi, rannic-
chiato e quasi privo di peso, da sei settimane e mezzo. Lo
chiamano sacco amniotico e il liquido che lo riempie
una soluzione salina che serve a non farti combattere con
la forza di gravit, a proteggerti dai colpi provocati dai
miei MOVIMENTI~ ed anche a nutrirti. Fino a quattro
giorni fa, anzi, era la tua sola fonte di nutrimento. Con
un processo complicatissimo e quasi incomprensibile, tu
ne inghiottivi una parte, ne assorbivi un'altra, ne espel-
levi un'altra ancora, e ne producevi di nuovo. Da quat-
tro giorni, invece, la tua fonte di nutrimento son io: at-
traverso il cordone ombelicale. Sono successe tante cose
in questi giorni: io mi esalto e t'ammiro a pensarci. La
placenta che avvolge il tuo uovo come una pelliccia cal-
da s' rafforzata, il numero delle tue cellule sanguigne
aumentato, e tutto procede a una velocit pazza: l'im-
palcatura delle tue vene ormai visibile. Sono perfetta-
mente visibili anche le due arterie, e la vena del cordone
ombelicale che ti porta il mio ossigeno e le sostanze chi-
miche di cui tu hai bisogno. Inoltre ti sei sviluppato il
fegato, ti sei abbozzato tutti gli organi interni: perfino
il tuo sesso e i tuoi organi riproduttivi hanno incomin-
ciato a sbocciare ! Lo sai gi, tu, se sarai un uomo o una
donna. Ma quel che mi esalta di pi, bambino mio, che
ti sei fatto anche le manine. Ti si vedono ormai bene le
dita. Ed hai una piccola bocca, ormai: con le labbra!
Hai un principio di lingua. Hai le cavit per venti den-
tini. Hai gli occhi. Cos minuscolo~ neanche un centime-
tro e mezzo, cos lieve, neanche tre grammi, hai gli occhi !
A me sembra addirittura impossibile che tutte queste cose
siano successe nello spazio di poche settimane. Mi sembra
irreale. Eppure l'inizio del mondo, quando si form quella
cellula e tutto ci che nasce e respira e muore per rinasce-
re ancora, dev'essere avvenuto come avviene in te: in un
brulicare, un gonfiarsi, un moltiplicarsi di vita sempre
pi complicata, sempre pi difficile, sempre pi veloce
e ordinata e perfetta. Quanto lavori, bambino! Chi ha
detto che dormi tranquillo, cullato dalle tue acque? Non
dormi mai, tu, non riposi mai. Chi ha detto che te ne
stai in pace, in un'armonia di suoni che giungono alla
tua membrana dolcemente ovattati? Sono certa che
un continuo sciaguattare da te~ un continuo pompare,
soffiare, frusciare, un esplodere di rumori brutali. Chi ha
detto che sei materia inerte, quasi un vegetale estirpa-
bile con un cucchiaio? Se voglio liberarmi di te, sosten-
gono, questo il momento. Anzi il momento incomincia
ora. In altre parole, avrei dovuto aspettare che tu diven-
tassi un essere umano con gli occhi e le dita e la bocca
per ammazzarti. Prima no. Prima eri troppo piccolo per
essere individuato e strappato. Sono pazzi.

* *

La mia amica afferma che la pazza son io. Lei, che
sposata, ha abortito quattro volte in tre anni. Aveva
gi due figli, averne un terzo sarebbe stato inammissi-
bile. Suo marito guadagna poco, lei ha un impiego che
la interessa e di Cui non pu fare a meno. Ai bambini
bada la suocera che, poveretta, non pu mica affron-
tare un asilo infantile! I romanticismi sono belli ma la
realt diversa, dice la mia amica. Anche i polli non
mettono al mondo tutti i figli che potrebbero avere: se
da ogni uovo gallato nascesse un pulcino, la terra sa-
rebbe un pollaio. Non lo sai che tante galline si bevon
le uova? Non lo sai che le covano solo una volta o due
all'anno? E i conigli: lo sai che certe coniglie mangiano
i neonati pi deboli per poter allattare gli altri? Elimi-
narli all'inizio non sarebbe meglio che metterli al mon-
do per mangiarli o farli mangiare? Secondo me sarebbe
ancora meglio non concepirli affatto. Ma, appena azzar-
do quel ragionamento, si arrabbia. Risponde che la pren-
deva la pillola, certo. Le faceva male, eppure la prendeva.
Poi una sera se ne dimentic, e di qui il primo aborto. Con
la sonda, mi dice. Non ho capito bene cosa sia questa son-
da. Suppongo un ago che uccide. In compenso ho capito
che la usano molte e sapendo che procura sofferenze infi-
nite, a volte la prigione.

Ti chiedi perch da qualche giorno non faccio che
parlarti di questo? Non lo so. Forse perch gli altri me
ne parlano in modo ossessivo e lo sperano. Forse perch a
un certo punto ci ho pensato anch'io senza dirmelo. Forse
perch non voglio confidare a nessun altro un dubbio che
mi avvelena l'anima. La sola idea di ucciderti, oggi, mi uc-
cide e tuttavia mi capita di considerarla. Mi confonde quel
discorso sui polli. Mi confonde l'ira della mia amica quan-
do le mostro la tua fotografia e indico i tuoi occhi, le tue
mani. Lei risponde che per vederli davvero, i tuoi occhi,
per vederle davvero, le tue mani, non basterebbe il micro-
scopio. Grida che vivo di fantasia, che pretendo di razio-
nalizzare i miei sentimenti, i miei sogni. Ha perfino
esclamato: Allora i girini che togli dalla vasca del tuo
giardino perch non diventino ranocchi e non ti distur-
bino la notte gracidando? . Lo so~ CONTINUO senza pie-
t ad informarti sulle infamie del mondo in cui ti pre-
pari ad entrare, sugli orrori quotidiani che noi commet-
tiamo, e ti espongo concetti troppo complicati. Ma a poco
a poco va maturandosi in me la certezza che tu li capisca
perch sai gi tutto. Incominci il giorno in cui mi sevizia-
vo il cervello per tentar di spiegarti che la terra rotonda
come il tuo uovo, che il mare composto d'acqua come
quella in cui galleggi, e non riuscivo ad esprimere ci che
volevo. D'un tratto mi paralizz l'intuizione che il mio
sforzo fosse inutile, che tu sapessi gi tutto e molto pi
di me, e il sospetto d'avere intuito il giusto non mi ab-
bandona pi. Se nel tuo uovo c' un universo, perch
non dovrebbe esserci anche il pensiero? Non insinuano
che il subcosciente sia il ricordo dell'esistenza vissuta pri-
ma di venire alla luce? Lo ? Allora dimmi, tu che sai
tutto: quando incomincia la vita? Dimmi, ti supplico:
davvero incominciata la tua? Da quanto? Dal momen-
to in cui la stilla di luce che chiamano spermio buc e
scisse la cellula? Dal momento in cui ti sbocci un cuo-
re e prese a pompar sangue? Dal momento in cui ti fior
un cervello, un midollo spinale, e ti avviasti ad assumere
una forma umana? Oppure quel momento deve ancora
venire e sei solo un motore in fabbricazione? Cosa darei,
bambino, per rompere il tuo mutismo, penetrare nella
prigione che ti avvolge e che avvolgo, cosa darei per ve-
derti, ascoltare la tua risposta !

Certo siamo una ben strana coppia, io e te. Tutto
in te dipende da me e tutto in me dipende da te: se tu
ti ammali io mi ammalo, se io muoio tu muori. Per io
non posso comunicare con te e tu non puoi comunicare
con me. In quella che forse la tua sapienza infinita,
non conosci nemmeno la faccia che ho, l'et che ho, la
lingua che parlo. Ignori da dove vengo, dove mi trovo,
cosa faccio nella vita. Se tu volessi immaginarmi, non
avresti neanche un elemento per indovinare se sono bian-
ca o nera, giovane o vecchia, alta o bassa. Ed io mi chie-
do ancora se sei o no una persona. Mai due estranei le-
gati allo stesso destino furono pi estranei di noi. Mai
due sconosciuti uniti nello stesso corpo furono pi scono-
sciuti, pi lontani di noi.

Ho dormito male e avevo dolori gi in fondo al ven-
tre: eri tu? Mi giravo angosciata nel letto, il sonno era
un'ossessione di incubi assurdi. In uno c'era tuo padre, e
piangeva. Non lo avevo visto piangere mai, non credevo
che ne fosse capace. Le sue lacrime cadevano in tonfi di
piombo nella vasca del mio giardino e la vasca era piena
di nastri interminabili e gelatinosi. Dentro i nastri c'erano
piccole uova nere che si allungavano in una specie di
coda: i girini. Io non badavo a tuo padre, mi preoccu-
pavo soltanto di ammazzare i girini perch non diven-
tassero ranocchi e non mi tenessero sveglia gracidando
la notte. Il sistema era semplice: bastava sollevare i na-
stri con un bastone e posarli sull'erba del prato dove il
sole li avrebbe soffocati, seccati. Ma i nastri sgusciavano
via, scivolosi, in svelte volute che ricadevano nell'acqua e
affondavano dentro il limo: non riuscivo a posarli sul
prato. Poi tuo padre non ha pianto pi e s' messo ad
aiutarmi: riuscendoci senza difficolt. Con un ramo d'al-
bero tirava su dall'acqua quei nastri che a lui non scivola-
vano via, li ammucchiava sull'erba. Metodico, calmo. E io
ne soffrivo. Perch era come vedere decine, centinaia di
bambini che soffocavano e seccavano al sole. Sconvolta, gli
ho tolto il ramo dalle mani e ho gridato: Lasciali stare !
Tu sei nato, no? . Nell'altro incubo c'era un canguro. Era
un canguro femmina, dal suo utero uscita una cosa tene-
ra e viva: una specie di delicatissimo verme. S' guardato
intorno sbalordito, quasi a tentar di capire dove fosse~
ed ha preso ad arrampicarsi su per il corpo peloso. Pro-
cedeva lentamente, faticosamente, inciampando, sdruc-
ciolando, sbagliando, ma alla fine ha raggiunto la sacca
e con un ultimo sforzo tremendo ci si buttato dentro a
capofitto. Io mi rendevo conto che non eri te, che era
l'embrione del canguro il quale nasce cos perch esce
presto dalla prigione dell'uovo e completa la sua forma-
zione all'aperto Per gli parlavo come se si fosse trat-
tato di te. Lo ringraziavo per esser venuto a mostrarmi
di non essere una cosa ma una persona. Gli dicevo che
ora non eravamo pi due estranei, due sconosciuti, e ri-
devo felice. Ridevo... Ma arrivata la nonna. Era mol-
to vecchia, e molto triste. Sulle sue spalle curve sem-
brava che stagnasse tutto il peso del mondo. Tra le ma-
ni sciupate teneva un bambolottino con gli occhi chiusi
e la testa sproporzionata. Diceva: Sono tanto stanca.
Sto pagando per gli aborti. Io ho avuto otto figli e otto
aborti. Se fossi stata ricca avrei avuto sedici figli e nem-
meno un aborto. Non vero che ci si fa l'abitudine, ogni
volta la prima volta. Ma questo il prete non lo capi-
va . Il bambolottino era grande come un crocifisso, di
quelli che si portano in tasca. Levandolo come un croci-
fisso, la nonna entrata in una chiesa dove s' inginoc-
chiata a un confessionale e ha incominciato a bisbigliare
qualcosa alla grata. Dall'interno del confessionale s'
alzata una voce cattiva, la voce del prete: Lei ha ucci-
so una creatura! Ha ucciso una creatura!. La nonna
tremava per la paura che gli altri ascoltassero. Si racco-
mandava: Non gridi, reverendo, la prego ! Lei mi fa ar-
restare ! La prego ! . La voce del prete per non si abbas-
sava, e allora la nonna scappata. Per strada correva, in-
seguita dai poliziotti, ed era straziante vedere una vecchia
che correva cos. Io mi sentivo svenire per lei e pensavo: le
scoppier il cuore, morir. I poliziotti l'hanno raggiun-
ta sulla porta di casa. Le hanno rubato il bambolottino
e le hanno legato le braccia. Lei ha detto, fiera: Sono
pentita ma lo rifar. Non lo faccio mai volentieri ma
non posso mantenere tanti figlioli. Non posso . Mi han-
no svegliato quei dolori gi in fondo al ventre.

Non devo veder pi la mia amica. Sono i suoi discorsi
che mi provocano gli incubi. Ieri sera mi ha invitato a
cena: suo marito non c'era, le sembrata una buona oc-
casione per parlarmi di te, ed stato un tormento. Sembra

infatti che un fisico, il dottor H. B. Munson, sia d'accordo
con lei. Perfino il feto, dichiara costui, materia pressoch
inerte, quasi un vegetale estirpabile con un cucchiaio. Al
massimo lo si pu considerare un sistema coerente di ca-
pacit irrealizzate. Secondo alcuni biologi, invece, l'es-
l'essere umano incomincia col concepimento perch l'uovo
fertilizzato contiene DNA: l'acido desossiribonucleico che
la base delle proteine che formano un individuo. Tesi
cui il dottor Munson replica che anche lo spermatozoo,
anche l'uovo non fertilizzato contiene DNA: vorremmo
considerare l'uovo e lo spermatozoo come esseri umani~
Poi c' un gruppo di medici pei quali un essere umano di-
venta un essere umano dopo ventotto settimane, cio al
momento in cui pu sopravvivere fuori dell'utero anche
se la gestazione non completata. E c' un gruppo di an-
tropologi per cui un essere umano non nemmeno un
neonato ma qualcuno che stato plasmato da influen-
ze culturali e sociali. E esploso quasi un litigio. La mia
L amica giudicava con favore l'opinione degli antropologi
ed io ero portata ad accettare quella dei biologi. Irri-
tata, m'ha accusato di stare dalla parte dei preti: Sei
cattolica, cattolica, cattolica ! . Mi sono offesa. Non so-
no cattolica e lei lo sa. Inoltre rifiuto ai preti ogni diritto
~, di interferire in questa faccenda, e lei lo sa. Ma non pos-
so, assolutamente non posso accettare ~li arbitrari princi-
pii del dottor Munson. Non posso, assolutamente non pos-
so capire chi si infila la sonda come se prendesse una
purga con cui eliminare un cibo indigesto. Ammenoch...
Ammenoch cosa? Sto tradendo la mia decisione?
Mi sembrava d'essere ormai cos sicura, d'aver superato
cos gloriosamente tutte le incertezze, tutti i dubbi. Perch
ora tornano, camuffati da mille pretesti? ~ per via di que-
sto malessere che mi fa girare la testa, per via di que-
sti dolori che mi accoltellano il ventre? Devo essere for-
te, bambino. Devo tener fede a me stessa ed a te. Devo
portarti in fondo perch da grande tu sia qualcuno che
non assomiglia n al prete che urlava nel sogno, n alla
mia amica e al suo dottor Munson, n ai poliziotti che
legavan le braccia alla nonna. Il primo ti considera pro-
priet di Dio, la seconda ti considera propriet del-
la madre, i terzi ti considerano propriet dello Stato.
~non appartieni n a Dio n allo Stato n a me. Appar-
tieni a te stesso e basta. Dopotutto sei tu che hai preso
l'iniziativa ed io sbagliavo a credere d'importi una scelta.
Tenendoti, non faccio che piegarmi al comando che mi
impartisti quando s'accese la tua goccia di vita. Non ho
scelto nulla, ho obbedito. Fra me e te, la possibile vittima
non sei te, bambino: sono io. Non questo che vuoi dirmi
quando ti avventi come un vampiro contro il mio corpo?
Non questo che vuoi confermare quando mi regali la
nausea ? Sto male. Da una settimana lavoro con fatica. Mi
si gonfiata una gamba. Sarebbe terribile se dovessi rinun-
ciare a quel viaggio ormai stabilito. E il commendatore
sembra averlo capito. In tono quasi minaccioso oggi mi ha
chiesto "se potr" ed ha aggiunto che se lo augura. Si trat-
ta di un progetto importante, costruito su misura per me.
Ci tiene, e ci tengo anch'io. Se non potessi andare... Certo
che vi andr. Il dottore non disse che la gravidanza non
una malattia, uno stato normale, che devo continuare a
fare ci che ho sempre fatto? Tu non mi tradirai.

E successo qualcosa che non prevedevo: il dottore
mi ha messo a letto. E qui mi trovo, immobile. Devo stare
ferma e distesa. Non facile, capisci, visto che vivo sola: se
qualcuno suona il campanello, devo alzarmi per aprire la

porta. E poi devo mangiare, devo lavarmi: per cuocere
~ una minestra o andare nel bagno, sono costretta a lasciare
F~ il letto. S o no? Al cibo, per ora, ci pensa la mia amica. Le
ho dato le chiavi e due volte al giorno viene a portarmelo,
poveretta. Ho esclamato: Non hai voluto un terzo fi-
glio ed ecco che ti trovi ad adottarne una adulta . Ha ri-
sposto che una adulta meglio di una neonata: non si de-
ve allattare. Ci credi se ti racconto che la mia amica
buona? Lo . E non solo perch viene qui: ma perch
non parla pi di quel Munson, dei suoi antropologi.
All'improvviso, sembra preoccupatissima dal timore che

i~ ti perda. Non ti allarmare: il pericolo non esiste. Il me-
dico ha ripetuto gli esami e ha concluso che procedi
bene, l'immobilit una precauzione dovuta ai dolori
che egli attribuisce a cause diverse. Hai compiuto due
mesi, e i due mesi segnano un passaggio molto delicato:
quello durante il quale l'embrione diventa feto. Stai for-
mando le tue prime cellule ossee, che rimpiazzano le
cartilagini. Stai allungando le gambe, proprio come un
albero che spinge avanti i suoi rami, e anche ai tuoi

f piedini fioriscono ormai le dita. Dovremo stare cauti fino
|~ al terzo mese, superato il quale potremo riprendere le
I ~ nostre abitudini: questa storia di restare ferma e distesa
| non durer che quindici giorni. Infatti al commenda-
tore ho inventato che ho una forte bronchite. Ci ha cre-
duto e mi ha assicurato che il viaggio tutto sommato pu
attendere: tanti particolari vanno ancora organizzati. Me-
nomale: se sapesse la verit, potrebbe sostituirmi. Al limi-
te, licenziarmi. E sarebbe un bel guaio per me e per

te: chi ci camperebbe? Tra l'altro, tuo padre non s'
fatto pi vivo. Suppongo che non voglia esser coinvolto.
Ti dispiace? A me no: il poco che provavo per lui s' estin-
to in due telefonate. Anzi nel fatto stesso che m'abbia
parlato al telefono anzich fissandomi negli occhi. Al ri-
torno poteva presentarsi, ti pare? Sa bene che non gli
chiederei di sposarmi, che non gliel'ho mai chiesto, che
non voglio sposarmi, ch'e non lo vorrei mai: cosa lo trat-
tiene dunque? Si sente forse colpevole d'avermi amato
in un letto? Un giorno la nonna and a confessarsi dav-
v ero e il prete le dette il seguente consiglio: Non vada
~ letto con suo marito, non vada ! . In fondo, per certa
gente, la vera colpa di un uomo e di una donna consi-
ste nell'amarsi in un letto. Per non avere bambini, di-
cono, basterebbe, semplicemente, diventare casti. D'ac-
cordo: visto che un po' difficile stabilire chi deve es-
sere casto e chi no, diventiamo tutti casti e trasformia-
moci in un pianeta di vecchi. Milioni e milioni di vec-
chi incapaci di generare, mentre la razza umana si estin-
gue, come nei racconti di fantascienza ambientati su
~arte, sullo sfondo di meravigliose citt che si sgreto-
lano: abitate solo da fantasmi. I fantasmi di tutti coloro
che avrebbero potuto essere e non sono stati. I fantasmi
dei bambini mai nati. Oppure diventiamo tutti omoses-
suali, tanto il risultato sarebbe lo stesso: un pianeta di
vecchi incapaci di generare, sullo sfondo di meravigliose
citt che si sgretolano, abitate solo dai fantasmi dei bam-
bini mai nati...

E se invece li utilizzassimo, i vecchi? Ho letto da
qualche parte che possibile effettuare il trapianto de-
gli embrioni. Una conquista della biologia tecnologica.
Si toglie l'uovo fertilizzato dal ventre della madre e lo si
trasferisce nel ventre di un'altra donna disposta a ospi-
tarlo. Lo si fa crescere l. Ecco, se un'altra donna ti ospi-
tasse, ad esempio una vecchia per cui rimanere immo-
bile non costituisse uno strazio, nasceresti ugualmente e
non starei qui a tormentarmi. Fare bambini, in fondo,
un'impresa da vecchi. Sono cos pazienti, i vecchi. Ti
offenderebbe essere trapiantato in un ventre che non
il mio? Un buon vecchio ventre che non ti rimprovera
mai? E perch dovresti? Non ti negherei mica alla vita.
Ti darei solo un altro alloggio. Perdonami. Sto vaneg-
giando. Il guaio che questa immobilit mi innervosisce,
mi incattivisce.

Oggi ho avuto una dolce sorpresa. E suonato il cam-
panello, mi sono alzata brontolando, ed era il postino
con un pacchetto spedito via aerea. Lo mandava la mia
mamma, insieme a una lettera firmata da lei e dal bab-
bo. Li avevo informati su te, giorni fa. M'era sembrato
un dovere. E ogni mattino aspettavo la loro risposta con
angoscia, rabbrividendo al pensiero delle cose dure o ad-
dolorate che forse m'avrebbero scritto. Sono due persone
all'antica, sai. Invece questa lettera dice che, pur senten-
dosi disorientati e colpiti, si rallegrano e ti danno il ben-
venuto. Ormai noi siamo due alberi secchi, non abbia-
mo pi nulla da insegnarti. Ormai sei tu che hai qual-
cosa da insegnare a noi. E, se hai deciso cos, vuol dire che
giusto cos. Ti scriviamo per dirti che accettiamo il tuo
insegnamento. Dopo la lettera ho aperto il pacchetto.
Conteneva una scatolina di plastica, e dentro c'era un
paio di scarpine bianche. Piccole piccole, lievi lievi, bian-
che. Le tue prime scarpe. Mi stanno sulla palma di una
mano, non la coprono nemmeno tutta. E mi si chiude la
gola a toccarle, mi si scioglie il cuore. Ti piacer la mia
mamma. Con lei avrai due mamme e sar una vera
ricchezza. Ti piacer perch pensa che senza i bambini
il mondo finirebbe. Ti piacer perch grossa e mor-
bida, con una pancia grossa e morbida per sedertici so-
pra, due braccia grosse e morbide per proteggerti, e una
risata che un concerto di campanelli. Non ho mai ca-
pito come faccia a ridere in quel modo: ma penso che
sia perch ha pianto molto. Solo chi ha pianto molto
pu apprezzare la vita nelle sue bellezze, e ridere bene.
Piangere facile, ridere difficile. Imparerai subito
questa verit. Il tuo incontro col mondo sar un pianto
disperato, nei primi tempi riuscirai a piangere e basta.
Tutto ti far piangere: la luce, la fame, la rabbia. Pas-
seranno settimane, mesi, prima che la tua bocca si schiu-
da a un sorriso, prima che la tua gola gorgogli una ri-
sata. Ma non dovrai scoraggiarti. E quando il sorriso
verr, quando la risata verr, dovrai regalarla a me: per
dimostrarmi che ho fatto bene a non servirmi della bio-
logia tecnologica, a non regalarti al ventre cli una madre
pi buona e pi paziente di me.

Ho ritagliato la fotografia che ti ritrae a due mesi
esatti: un primo piano del tuo volto ingrandito di qua-
ranta volte. L'ho attaccata sul muro, e qui dal lett-) la
ammiro: ossessionata dai tuoi occhi. Sono cos grandi
rispetto al resto del corpo, cos spalancati. Che vedono?
L'acqua e basta? Le pareti della prigione e basta? Op-
pure ci che vedo anch'io? Un sospetto delizioso mi tur-
ba: il sospetto che vedano attraverso di me. Mi dispiace
che presto tu li chiuda. Sull'orlo delle palpebre si sta
formando una sostanza collosa che fra qualche giorno
appiccicher i due bordi per proteggere le pupille du-
rante la loro formazione finale. Non le solleverai pi fino
al settimo mese, le tue palpebre. Per venti settimane
vivrai nel buio completo. Peccato! O forse no? Senza
cose da guardare, mi ascolterai meglio. Ho ancora tan-
to da dirti e queste giornate immobili me ne forniscono
il tempo, visto che la mia unica attivit consiste nel leg-
gere o guardare la televisione. Soprattutto ho da prepa-
rarti ad alcune verit molto scomode. La speranza che tu
sappia gi tutto, e molto pi di me, non mi convince
molto. Ma spiegarti certe cose difficile perch il tuo
pensiero, se esiste, agisce su fatti troppo diversi da quelli
che troverai. Tu sei solo, magnificamente solo l dentro.
La tua sola esperienza te stesso. Noi siamo molti, inve-
ce: milioni, miliardi. Ogni nostra esperienza dipende da-
gli altri, ogni nostra gioia, ogni nostro dolore, e...

Ecco, incomincio da qui. Incomincio annunciandoti
che non sarai pi solo quaggi e che, se vorrai liberarti
degli altri, della loro compagnia forzata, non ci riuscirai.
Quaggi una persona non pu provvedere a se stessa da
sola, come fai tu. Se prova, impazzisce. Nel migliore dei
casi, fallisce. A volte qualcuno ci prova. E scappa nel
bosco o sul mare giurando che non ha bisogno degli altri,
che gli altri non lo ritroveranno mai pi. Lo ritrovano,
invece. Magari lui che torna. E cos rientra sconfitto a
far parte del formicaio, dell'ingranaggio: per cercarvi
inutilmente, disperatamente, la sua libert. Udrai molto
parlare di libert. Qui da noi una parola sfruttata
quasi quanto la parola amore che, te l'ho detto, la pi
sfruttata di tutte. Incontrerai uomini che si fanno fare a
pezzi per la libert, subendo torture, magari accettando
la morte. Ed io spero che sarai uno di essi. Per, nel mo-
mento medesimo in cui ti farai straziare per la libert,
scoprirai che essa non esiste, che al massimo esisteva solo
in quanto la cercavi: come un sogno, un'idea nata dal
ricordo della tua vita prima di nascere, quando eri libero
perch eri solo. Io continuo a ripetere che sei prigionie-
ro l dentro, continuo a pensare che hai poco spazio e
che d'ora innanzi starai perfino al buio: ma in quel
buio, in quel poco spazio, tu sei libero come non lo sarai
pi in questo mondo immenso e spietato. Non devi chie-
dere permesso a nessuno, l dentro, aiuto a nessuno: per-
ch non hai accanto nessuno ed ignori cosa sia la schia-
vit. Qui fuori, invece, avrai mille padroni. E il primo
padrone sar io che senza volerlo, magari senza saperlo,
ti imporr cose che sono giuste per me non per te. Quel-
le belle scarpine, ad esempio. Sono belle per me ma per
te? Griderai ed urlerai quando te le infiler. Ti daranno
fastidio, son certa. Ma io te le infiler lo stesso, magari so-
stenendo che hai freddo, e un po' alla volta ti ci abi-
tuerai. Ti piegherai, domato, fino a soffrire se ti man-
cheranno. E questo sar l'inizio di una lunga catena di
schiavit dove il primo anello verr sempre rappresen-
tato da me, visto che tu non potrai fare a meno di me.
Io che ti nutrir, io che ti coprir, io che ti laver, io che
ti porter in braccio. Poi incomincerai a camminare da
te, a mangiare da te, a scegliere da te dove andare e
quando lavarti. E allora sorgeranno altre schiavit. I
miei consigli. I miei insegnamenti. Le mie raccomanda-
zioni. La tua stessa paura di darmi dolore facendo cose
diverse da quelle che ti avr insegnato. Passer molto
tempo, ai tuoi occhi, prima ch'io ti lasci partire come gli
uccelli che i genitori buttano fuori dal nido, il giorno in
cui sanno volare. Infine quel tempo verr, e io ti lascer
partire, ti lascer attraversare la strada da solo, col ver-
de e col rosso. Ti ci spinger. Ma questo non aumenter
la tua libert perch mi resterai incatenato con la schia-
vit degli affetti, la schiavit del rimpianto. Alcuni la
chiamano schiavitu della famiglia. Io non credo alla
famiglia. La famiglia una menzogna costruita da chi
organizz questo mondo per controllare meglio la gente,
sfruttarne meglio l'obbedienza alle regole e alle le~ende.
Ci si ribella pi facilmente quando si soli, ci si ra~ssegna
F~ pi facilmente quando si vive con altri. La famiglia non
che il portavoce di un sistema che non pu lasciarti di-
subbidire, e la sua santit non esiste. Esistono solo gruppi
di uomini e donne e bambini costretti a portare lo stesso
nome ed abitare sotto lo stesso tetto: detestandosi, odian-

~; dosi, spesso. Per il rimpianto esiste, e i legami esistono,
radicati in noi come alberi che non cedono neanche all'ura-
gano, inevitabili come la fame e la sete. Non te ne puoi mai
liberare, anche se ci provi con tutta la tua volont, la
tua logica. Magari credi di averli dimenticati e un gior-
no riaffiorano, irrimediabilmente, spietati, per metterti la
corda al collo pi di qualsiasi boia. E strozzarti.

Insieme a quelle schiavit, conoscerai quelle impo-
ste dagli altri e cio dai mille e mille abitanti del for-
micaio. Le loro abitudini, le loro leggi. Non immagini
quanto siano soffocanti le loro abitudini da imitare, le
loro leggi da rispettare. Non fare questo, non fare quel-
lo, fai questo e fai quello... E se ci tollerabile quando
vivi tra brava gente che ha un'idea della libert, diventa
infernale quando vivi tra prepotenti che ti negano per-
fino il lusso di sognarla, realizzarla nella tua fantasia.
Le leggi dei prepotenti offrono solo un vantaggio: ad
esse puoi reagire lottando, morendo. Le leggi della bra-
va gente, invece, non t'offrono scampo perch ti si con-
vince che nobile accettarle. In qualsiasi sistema tu vi-
va, non puoi ribellarti alla legge che a vincere sempre
il pi forte, il pi prepotente, il meno generoso. Tanto-
meno puoi ribellarti alla legge che per mangiare ci vuo-
le il denaro, per dormire ci vuole il denaro, per cam-
minare dentro un paio di scarpe ci vuole il denaro, per
riscaldarsi d'inverno ci vuole il denaro, che per avere
il denaro bisogna lavorare. Ti racconteranno un muc-
chio di storie sulla necessit del lavoro, la gioia del la-
voro, la dignit del lavoro. Non ci credere, mai. Si trat-
ta di un'altra menzogna inventata per la convenienza
di chi organizz questo mondo. Il lavoro un ricatto
che rimane tale anche quando ti piace. Lavori sempre
per qualcuno, mai per te stesso. Lavori sempre con fa-
tica, mai con gioia. E mai nel momento in cui ne avre-
sti voglia. Anche se non dipendi da nessuno e coltivi il
tuo pezzo di terra, devi zappare quando vogliono il sole
e la pioggia e le stagioni. Anche se non ubbidisci a nes-
suno e il tuo lavoro arte cio liberazione, devi pie-
garti alle altrui esigenze o soprusi. Forse in un passato
molto lontano, tanto lontano che se ne smarrito il ricor-
do, non era cos. E lavorare era una festa, un'allegria. Ma
esistevano poche persone a quel tempo, e potevano star-
sene sole. Tu vieni al mondo dopo millenovecentoset-
tantacinque anni la nascita di un uomo che chiamano
Cristo il quale venne al mondo centinaia di migliaia di
anni dopo un altro uomo di cui si ignora il nome, e di
questi tempi le cose vanno come t'ho detto. Una recen-
te statistica afferma che siamo gi quattro miliardi. In
quel mucchio entrerai. E quanto rimpiangerai il tuo
sguazzare solitario nell'acqua, bambino !

Ti ho scritto tre fiabe. O meglio, non le ho proprio
scritte perch stando distesa a letto non posso: le ho sem-
plicemente pensate. Te ne racconto una. C'era una volta
una bambina innamorata di una magnolia. La magnolia
stava in mezzo a un giardino e la bambina passava giornate
intere a guardarla. La guardava dall'alto perch abitava
all'ultimo piano di una casa affacciata su quel giardino, e
la guardava da una finestra che era la sola finestra aperta
in quel punto. La bambina era molto piccina, per ve-
dere la magnolia doveva arrampicarsi sopra una sedia
dove la mamma la sorprendeva gridando Oddio ca-
sca, casca di sotto ! . La magnolia era grande, con gran-
di rami e grandi foglie e grandi fiori che si aprivano co-
me fazzoletti puliti e che nessuno coglieva perch stava-
no troppo in alto. Infatti avevano tutto il tempo di in-
vecchiare e ingiallire e cadere con un piccolo tonfo per
terra. La bambina sognava lo stesso che qualcuno riu-
scisse a cogliere un fiore finch era bianco, e in questa
attesa stava alla finestra: le braccia appoggiate sopra
il davanzale e il mento appoggiato sopra le braccia. Di
fronte e dintorno non c'erano case, solo un muro che si
alzava ripido al lato del giardino e finiva in una ter-
razza coi panni tesi ad asciugare. Si capiva quand'erano
asciutti per gli schiaffi che davano al vento e allora ar-
rivava una donna che li raccoglieva dentro una cesta e
li portava via. Ma un giorno la donna arriv e invece
di raccogliere i panni si mise anche lei a guardare la
magnolia: quasi studiasse il modo di cogliere un fiore.
Rest l molto, a pensarci, mentre i panni sbattevano al
vento. Poi fu raggiunta da un uomo che l'abbracci. Lo
abbracci anche lei, e presto caddero insieme per terra
dove insieme sussultarono a lungo, e infine ~iacquero ad-
dormentati. La bambina era sorpresa, non capiva perch
i due se ne stessero a dormire sulla terrazza anzich oc-
cuparsi della magnolia, tentare di cogliervi un fiore, e
aspettava paziente che si svegliassero quando apparve
un altro uomo: molto arrabbiato. Non disse nulla ma era
chiaro che fosse molto arrabbiato perch si gett imme-
diatamente sui due. Prima sull'uomo che per fece un
balzo e scapp, dopo sulla donna che incominci a cor-
rere tra i panni. Correva anche lui, per agguantarla, e
alla fine l'agguant. La sollev come se non pesasse e
la scaravent gi: sulla magnolia. La donna impieg
tanto tempo per giungere alla magnolia. Ma poi vi giun-
se, e Si pOSO sui rami con un tonfo pi sordo dei fiori
che cadevano gialli per terra. Un ramo si ruppe. E nello
stesso momento in Cui il ramo si ruppe, la donna si ag-
grapp ad un fiore. E lo colse. E rimase l ferma col
suo fiore in mano. Allora la bambina chiam la sua
mamma. Le disse: Mamma, hanno buttato una donna
sulla magnolia ed ha colto un fiore . La mamma venne
grid che la donna era morta, e da quel giorno la bambi-
na crebbe convinta che per cogliere un fiore una donna
dovesse morire.

Quella bambina ero io, e Dio voglia che tu non ap-
prenda nel modo in cui l'appresi io che a vincere sem-
pre il pi forte, il pi prepotente, il meno ~generoso. Dio
voglia che tu non lo capisca presto come lo appresi io,
oltretutto convincendoti che una donna la prima a pa-
gare per tale realt. Ma io sbaglio a sperare il contrario.
Devo augurarti di perderla presto quella verginit che
Si chiama infanzia, illusione. Devo prepararti fin d'ora a
difenderti, ad essere pi svelto, pi forte, e buttare lui
gi dal terrazzo. Specialmente se sei una donna. Anche
questa una legge: non scritta ma obbligatoria. O me
o te, o mi salvo io o ti salvi te, sono i termini di questa
legge. E guai a dimenticarla. Qui da noi ciascuno fa del
male a qualcuno, bambino. Se non lo fa, soccombe. E non
ascoltare chi dice che soccombe il pi buono. Soccombe
il pi debole, che non necessariamente il pi buono. Io
non ho mai preteso che le donne fossero pi buone degli
uomini, che per bont meritassero di non morire. Essere
buoni o cattivi non conta: la vita quaggi non dipende da
quello. Dipende da un rapporto di forze basato sulla
violenza. La sopravvivenza violenza. Calzerai scarpe
di cuoio perch qualcuno ha ammazzato una vacca e
l'ha scuoiata per farne cuoio. Ti scalderai con una pel-
liccia perch qualcuno ha ammazzato una bestia, cento
bestie, per strappargli via la pelliccia. Mangerai il fe-
gatino di pollo perch qualcuno ha ammazzato un pollo
che non faceva del male a nessuno. E nemmeno que-
sto vero perch anche lui faceva del male a qualcu-
no: divorava i vermetti che se ne andavano in pace bru-
cando insalata. C' sempre uno che mangia un altro o
scuoia un altro per sopravvivere: dagli uomini ai pe-
sci. Anche i pesci si mangiano fra loro: i pi grossi in-
ghiottiscono i pi piccini. E cos gli uccelli, cos gli inset-
ti, chiunque. Che io sappia, solo gli alberi e le piante
non divoran nessuno: si nutrono d'acqua, di sole, d'aria, e
basta. Per a volte si rubano il sole e l'acqua, anche loro,
soffocandosi, sterminandosi. Ed proprio il caso che tu
venga a conoscere simili orrori, tu che vivi e ti nutri e
ti scaldi senza ammazzare nessuno?

Anche questa una fiaba. C'era una volta una bam-
bina cui piaceva molto la cioccolata. Per pi le pia-
ceva, meno ne mangiava. E sai perch? V'era stato un
tempo in cui gliene davano quanta volesse. Il tempo in
cui abitava in una casa piena di cielo che entrava dalle
finestre. Ma un giorno s'era svegliata in una casa senza
cielo e senza cioccolata. Dalle sue finestre, poste quasi
al soffitto e protette da una grata come le prigioni, si
vedevano soltanto piedi che andavano su e gi. Si vede-
vano anche cani, e l per l era un piacere perch i cani
si vedevano interi: fino alla testa. Per subito dopo essi
alzavan la zampa e facevano pip sulla grata, mentre
la mamma della bambina piangeva: Questo no, que-
sto no!. La sua mamma piangeva sempre, del resto,
anche quando si rivolgeva al pancione che le tirava il
grembiule, e parlava a qualcuno chiuso l dentro dicen-
dogli: Non avresti potuto scegliere un momento peg-
giore ! . Al che il babbo incominciava a tossire, nel let-
to, una tosse che lo lasciava come morto. Il babbo stava
a letto anche di giorno, col viso giallo e gli occhi lucidi.
Tristi. Secondo i calcoli della bambina, la fine della cioc-
colata aveva coinciso con la malattia del babbo e il tra-
sloco in quella casa senza cielo e senza gioia. Insomma
con la mancanza di soldi.

Per trovare i soldi, la mamma della bambina andava
a pulire la casa di una bella signora cui dava del tu e
che le dava del tu. Era costei una zia ricca, che cambia-
va sempre vestito. Si diceva perfino che avesse una borsa
per ogni vestito e un paio di scarpe per ogni borsa. La
sua casa era sul fiume e dalle finestre vi entrava tutto il
cielo della citt. Ma la bella signora non era contenta
lo stesso. Si lamentava sempre: perch un cappello non
le stava bene, o perch il suo gatto starnutiva, o perch
la sua cameriera era andata da un mese in campagna e
non accennava a tornare. La mamma della bambina,
dunque, sostituiva questa cameriera screanzata: tutti i
giorni dalle nove alle una. Lasciava il marito soltanto
per questo, e portava la bambina con s sostenendo che
prendere aria le faceva meglio che restare accanto a un
uomo coi polmoni bucati. Ce la portava a piedi, in un
lungo viaggio attraverso strade che non finivano mai.
Camminando si chiedeva sempre quali infelicit avrebbe
ascoltato stavolta dalla bella signora e, prima di suonare
il campanello, mormorava: Coraggio!. Al suono del
campanello rispondeva una voce strascicata, poi un pas-
so ancor pi strascicato, e la porta si apriva su una vesta-
glia lunga fino ai piedi: ora bianca, ora rosa, ora azzurra.
Entravano calpestando tappeti, la mamma della bambina
posava la bambina su uno sgabello: quasi fosse un pacco.
Le raccomandava di stare ferma, zitta, di non distur-
bare, e poi spariva in cucina a lavare i piatti. La bella
signora invece si adagiava su un divano, leggendo il gior-
nale e fumando col bocchino. Chiaramente non aveva
altro da fare. E la bambina non capiva il motivo per cui
essa non si lavasse i piatti da s, invece di farli lavare
alla mamma che aveva il pancione.

Quel mattino la bella signora si lamentava per una
faccenda di soldi. Aveva incominciato mentre la mam-
ma della bambina lavava i piatti e continuava mentre
lei puliva il salotto. Capisci ripeteva solo quella ci-
fra vuol darmi. E quando la mamma della bambina
rispose con quella cifra mi sentirei una principessa,
si arrabbi. Disse: A me bastano appena per il taxi.
Non vorrai mica paragonarti con me ! . La mamma del-
la bambina arross e con la scusa di spolverare il tappeto
si inginocchi per terra abbassando il viso sul tappeto. La
bambina sent come un pizzicare alla gola. E stava per
scioglier le lacrime che le bruciavano gli occhi quando
la sua attenzione fu rapita da alcuni oggetti d'oro che
luccicavano al sole: una bomboniera di vetro, colma di
gianduiotti. Per non gianduiotti normali: gianduiotti
grandi due volte, tre volte, quelli che s'era abituata a
mangiare nei giorni remoti della casa col cielo. Infatti,
di colpo, il pizzicare alla gola scomparve e al suo posto
si form un liquido che aveva il sapore di cioccolata. La
sua mamma se ne accorse. La fulmin con lo sguardo per
avvertirla: se chiedi qualcosa, te ne pentirai! La bam-
bina cap e si mise a fissare il soffitto con dignit. Stava
fissando il soffitto quando la bella signora si alz e con
aria annoiata and sul balcone dove rimase ad accarez-
zarsi un polso. Il balcone si affacciava su un secondo
balcone, pi grande. E sul secondo balcone c'erano due
bambini ricchi. La bambina lo sapeva perch li aveva
visti, una volta, e aveva capito che erano ricchi perch
erano belli. La STESSA bellezza della signora. Sempre ac-
carezzandosi il polso, questa li scorse. Sorrise, estasiata,
si affacci per Chiamarli: Bonjour, mes petits pigeons !
C~a va, aujourd~hili?- E poi: Attendez, attendez! Il
y a quelque chose pour vous ! . Rientr in casa, prese la
bomboniera di Vetro~ la scoperchi, la port sul balcone
reggendola con delicatezza~ cominci a gettar giandu-
iotti di sotto. Li gettava e diceva: Gianduiotti per i
miei piccioncini! Gianduiotti per i miei piccioncini!.
Ne gett pi di met, tra uno scoppiettar di risate, in-
fine Pos di nuoVo la bomboniera sul tavolo e tir fuori
un altro gianduiOtto- Lo spogli lentamente della sua
carta d'oro, lo sollev un attimo pensando chissacch, e
lo mangi. Mentre la bambina guardava.

~, da quel giOrno che io non posso mangiar ciocco-
lata. Se la mangimito. Ma spero che la cioccolata
ti piaccia, figlio, perch voglio comprartene tanta. Vo-
glio Coprirti di cioccolata: affinch tu la mangi per me,
fino alla nausea, fino all'oblio di quell'ingiustizia che mi
porto ancora addosso il RANCORE. Conoscerai l'ingiu-
stizia quanto la violenza: devo prepararti anche a que-
sto. E non intendongiustizia di uccidere un pollo per
mangiarlo, una vaCca per scuoiarla, una donna per pu-
nirla: intendo l'ingiustizia che divide chi ha e chi non
ha. L'ingiustizia che lascia questo veleno in bocca, men-
tre la madre INCINTA spolvera il tappeto altrui. Come si
risolva un tale problema non so. Tutti coloro che ci han-
no provato sono riusciti soltanto a sostituire chi spolve-
ra il tappeto. In qualunque sistema tu nasca, qualunque
ideologia, c' sempre un tale che spolvera il tappeto di
un altro, c' sempre una bambina umiliata da un desi-
derio di gianduiotti Non troverai mai un sistema, mai

un'ideologia, che possa mutare il cuore degli uomini e
cancellarne la malvagit. Quando ti diranno da-noi--
diverso, rispondigli: bugiardo. Poi sfidalo a dimostrarti
che da loro non esistono cibi pei ricchi e cibi pei poveri,
case pei ricchi e case pei poveri, stagioni pei ricchi e
stagioni pei poveri. L'inverno una stagione da ricchi.
Se sei ricco, il freddo diventa un gioco perch ti compri
la pelliccia e il riscaldamento e vai a sciare. Se sei po-
vero, invece, il freddo diventa una maledizione e impari
a odiare perfino la bellezza di un paesaggio bianco sotto
la neve. L'uguaglianza, figlio, esiste solo dove sei tu: co-
me la libert. Nell'uovo e basta siamo tutti uguali. Ma
proprio il caso che tu venga a conoscere tali ingiustizie,

~ tu che l vivi senza servire nessuno?

|~ Questa non lo so se una fiaba, ma te la racconto lo
stesso. C'era una volta una ragazzina che credeva nel
domani. Infatti le insegnavano tutti a credere nel do-
mani: assicurandole che il domani sempre meglio.
Glielo assicurava il prete quando tuonava le sue pro-
messe in chiesa e annunciava il Regno dei Cieli. Glielo
assicurava la scuola quando le dimostrava che l'umanit
va avanti e che un tempo gli uomini vivevano nelle ca-
verne poi in case senza termosifone poi in case col termo-
sifone. Glielo assicurava suo padre quando le portava ad
esempio la storia e sosteneva che i prepotenti soccom-
bono sempre. Al prete, la ragazzina aveva tolto fiducia
assai presto. Il suo domani era la morte, e alla ragazzina
non importava nulla di abitare dopo la morte in un lus-
suoso albergo chiamato Regno dei Cieli. Alla scuola aveva
tolto fiducia un po' dopo, e cio durante un inverno in
cui le sue mani e i suoi piedi s~eran coperti di geloni, di
piaghe. S, era una gran cosa che gli uomini fossero pas-

sati dalle caverne al termosifone: ma lei non aveva il ter-
mosifone. Di suo padre aveva continuato a fidarsi, in-
~,-cce, a occhi chiusi. Suo padre era un uomo molto corag-
gioso e testardo. Da vent'anni combatteva certi prepoten-
ti vestiti di nero e ognivolta che questi gli rompevano il
capo diceva, coraggioso e testardo: Domani verr.
Ciera la guerra in quegli anni. I prepotenti vestiti di ne-
ro avevano tutta l'aria di vincerla. Ma lui scoteva la te-
sta e diceva, coraggioso e testardo: Domani verr .

La ragazzina gli credeva perch aveva visto una notte
di luglio. Quella notte i prepotenti eran stati cacciati e
sembrava che la loro guerra finisse, per dare il via al
domani. Ma venne settembre e i prepotenti tornarono,
con nuovi prepotenti che parlavan tedesco. La guerra
raddoppi. La ragazzina si sent tradita. Interrog suo
padre. Suo padre rispose domani verr e la persuase
provandole che il domani non poteva tardare perch non
eran pi soli ad attenderlo: stavano arrivando gli amici,
un esercito intero di amici detti alleati. Il giorno dopo,
la citt della ragazzina venne bombardata dagli amici
detti alleati e una bomba cadde proprio dinanzi a casa
sua. La ragazzina ne rimase disorientata. Se erano amici,
perch facevano questo? Suo padre rispose che purtrop-
po dovevano farlo, che ci non diminuiva per niente la
loro amicizia, e per convincerla meglio port in casa due
di coloro che gli gettavan le bombe. Gi prigionieri dei
prepotenti, essi eran fuggiti. Bisognava aiutarli, spieg
suo padre, in quanto il domani era una causa comune. La
RAGAZZINA annu. Insieme al padre, che per essi rischiava
il plotone di esecuzione, li nascose e li nutr e li accompa-
gn in villaggi sicuri. Poi si mise paziente ad aspettare
l'esercito che avrebbe portato il domani. Tale esercito
non giungeva mai. Passavano le settimane, passavano i
mesi, nell'attesa si moriva sotto le bombe, le sevizie, le fu-
cilazioni: e il famoso domani pareva ormai un sogno fatto
di sogno e basta. Anche il padre della ragazzina venne arre-
stato, picchiato, torturato. La ragazzina and a trovarlo in
carcere e non lo riconobbe, tanto era massacrato. Ma per-
fino in carcere, perfino massacrato, lui disse: Domani
verr. Un domani senza umiliazioni .

E il domani giunse, alla fine. Era un'alba d'agosto e
durante la notte la citt era stata squassata da orrende
esplosioni. Eran saltati i ponti, le strade, erano morti
nuovi innocenti. Ma dopo era sorta quest'alba, splendida
come campane di Pasqua, ed aveva portato gli amici.
Avanzavano belli, sorridenti, festosi, angeli in uniforme,
e la gente gli correva incontro buttandogli fiori, gridan-
dogli grazie. Il padre della ragazzina, ormai libero, ve-
niva salutato da tutti con gran deferenza e i suoi occhi
brillavano la luce di chi ha conosciuto la fede. Poi si av-
vicino qualcuno e gli disse di correre al comando alleato:
succedeva una cosa gravissima. Il padre della ragazzina
corse chiedendosi quale fosse la cosa gravissima. E la
cosa gravissima era un uomo che singhiozzava su un pra-
to, col capo affondato nell'erba. Avr avuto circa tren-
t'anni. Indossava un abito blu, chiaramente scelto per ri-
cever gli amici, e all'occhiello della giacca gli fioriva
una gran rosa rossa: di carta. Dinanzi a lui, anzi sopra
di lui, a gambe divaricate, stava un angelo in uniforme
e imbracciava il mitragliatore. Il padre della ragazzina
si chin sull'uomo: Che hai fatto?. Lui raddoppi i
singhiozzi e mugol soltanto: Mamma, mamma, mam-
ma . Il padre della ragazzina chiese di parlare col co-
mandante alleato. Costui lo ricevette alzando un viso
aguzzo, ornato di baffetti color carota, e agitando un
frustino: Lei uno dei cosiddetti rappresentanti del
popolo?. Il padre della ragazzina rispose s. Allora la
informo che il suo popolo ci ha dato il benvenuto ru-
bando Quell'uomo ha rubato. Il padre della ragazzi-
na chiese cosa avesse rubato. Un saccapane pieno di
cibo e di documenti sibil il frustino. Il padre della ra-
gazzina chiese quali documenti. Il libretto di congedo
del sergente proprietario del saccapane sibil il fru-
stino. Il padre della ragazzina chiese se il libretto era
stato ritrovato. S, ma stracciato! sibil il frustino.
Il padre della ragazzina osserv che forse lo si poteva in-
collare. Ed il cibo? Era stato ritrovato anche quello? Il
cibo stato mangiato ! L'intera razione di un'intera gior-
nata ! grid il frustino impazzito. Il padre della ragaz-
zina fren un sorriso. Rispose che ci era certo spiace-
vole: quale rappresentante del popolo avrebbe preso il
ladro in consegna e avrebbe chiesto di rimborsare il ser-
gente coi danni di guerra. Allora il frustino disegn una
gran voluta nell'aria e replic che nell'esercito inglese i
ladri venivan fucilati; quanto al rappresentante del po-
polo, fuori ! Fuori, .il ladro continuava a piangere col
capo affondato nell'erba: Mamma, mamma, mam-
ma . L'angelo in uniforme continuava a stare sopra di
lui con le gambe divaricate e il mitragliatore. Le gambe
erano tozze, pelose, il mitragliatore era puntato contro la
nuca. Passando, la ragazzina ud uno schiocco metallico.
Lo schiocco della sicura quando viene tolta.

La ragazzina non seppe mai se il ladro era stato giu-
stiziato, ma da quel giorno diffid sempre della parola
domani. E poich la sua mente aveva associato la parola
domani alla parola amici, da quel giorno diffid anche
degli amici. Dopo l'esercito inglese venne l'esercito ame-
ricano. Tutti dicevano che gli americani sarebbero stati
pi cordiali, pi buoni, e la ragazzina sper che fosse ve-
ro giacch molti di loro ridevano grasse risate colme di
umanit. Presto per s'accorse che con le loro risate gras-
se, colme di umanit, anch'essi violentavano e corrompe-
vano e si comportavano da padroni: il domani era una
paura nuova. La fame invece era la stessa. Per placarla
alcune donne si prostituivano, altre lavavano i panni dei
nuovi padroni. Ogni terrazza, ogni cortile era un ciondo-
lar di uniformi e calzini e magliette; un vantarsi di chi ne
lavava di pi. Sei paia di calzini, un pane a cassetta. Tre
maglie, una scatoletta di carne e fagioli. Una uniforme,
due scatolette di came. Il padre della ragazzina non per-
metteva che sua moglie e sua figlia toccassero quei panni
sporchi. Diceva che bene o male il domani era incomin-
ciato e bisognava difenderlo con dignit. Per dimostrarlo
invitava a mangiare gli "amici" e gli dava la sua razione di
cibo fresco. Una sera gli dette perfino il suo orologio d'oro,
pronunciando un bel discorso dove ricordava i prigionieri
aiutati per il domani che restava una causa comune. Gli
amici presero l'orologio d'oro e, per risposta, offrirono
panni da lavare. La ragazzina si offese. Ma la fame una
bestia piena di tentazioni: pochi giorni dopo, di nasco-
sto a suo padre, essa ci ripens e chiese di lavare i panni.
Giunsero due sacchi. Uno conteneva roba sporca e uno
il cibo. Quello del cibo fu subito aperto e vuotato di tre
scatolette di fagioli col sugo, due pani a cassetta, un va-
setto di noccioline, un barattolo intero di gelato alla fra-
gola. Quello della roba sporca fu aperto pi tardi. E
quando la ragazzina lo rovesci nel lavatoio, arross di
rabbia. Erano tutte mutande sporche.

Fu lavando le mutande sporche degli altri che me
ne resi conto: il nostro domani non era giunto, e forse non
sarebbe mai giunto. Avrebbero sempre continuato a im-
brogliarci con le promesse: in un rosario di delusioni
alleggerite da falsi sollievi, miserandi regali, pietose co-
modit per tenerci quieti. Giunger mai per te il mio do-
mani? ]~e dubito. Sono secoli, sono millenni che la gente
mette al mondo figli fidando nel domani, sperando che .
doman essi stiano meglio di loro. E quel meglio si ri-
solve al massimO nella conquista di un misero termosifo-
ne D~accordo, un termosifone gran cosa quando si ha
freddo Ina non tl d certo la felicit e non difende ti-
fatto la TUA dignit. Col termosifone continui a subire
PREPOTENZE~ dispiaceri, ricatti, e il domani resta una bu-
gia Io ti dicevo all'iniZio che nulla peggiore del nulla,
che il dOlore non deve incuter spavento, nemmeno mori-
re perch se unO muore vuol dire che nato, ti dicevo che
nascere merita sempre, visto che l'alternativa il vuoto e
il silenziO- Ma era giusto, bambino? E giusto che tu nasca
per mOrire sottO una bomba o il fucile di un sergente pe-
loso cui hai rubato per fame una razione di rancio? Pi
cresci pi io mi impaurisco. E quasi totalmente scompar-
SO l'entusiasmo in cui mi esaltavo all'inizio, la gloriosa
certezza d'aver colto il vero del vero. E nel dubbio mi con-
sumo sempre di pi. Questo dubbio che subdolo gonfia e si
abbassa COme la marea, ora coprendo in ondate la spiaggia
della tua esistenZa, ora ritirandosi per lasciarvi detriti.
Non Vogliraggiarti, credimi, indurti a non nascere-
voglio solidere con te la mia responsabilit, e chia-
rire a te stesso la tua. Hai ancora tempo per pensarci,
bambino, anzi ripensarCi. Per quel che mi riguarda e sia
pure attraverso le alte maree, le basse maree, sono pronta.
Ma tu? ri ho gi chiesto se sei disposto a veder scaraven-
tare una dOnna su una magnolia, a veder piovere la ciocco-
lata su chi non ne ha bisogno. Ora ti chiedo se sei dispo-
sto a COrrere il rischio di lavare le mutande degli altri
e SCOPRIRE che il domani un ieri. Tu che te ne stai dove
ogni ieri domani, e ogni domani una conquista. Tu
che non COnosci ancora la peggiore delle realt: il mondo
cambia e resta come prima.

Dieci settimane. Stai crescendo con rapidit impres-
sionante. Quindici giorni fa misuravi meno di tre centi-
metri e pesavi appena quattro grammi. Ora misuri sei
centimetri e pesi otto grammi. Ci sei tutto. Dell'antico
f~ pesciolino rimasto solo il fatto che inali ed esali acqua
attraverso i polmoni. Il tuo scheletro di umano formato,
con le ossa che rimpiazzano le cartilagini. Le tue costole
stanno incollandosi l'una con l'altra alle estremit quasi
che il tuo corpo si abbottonasse davanti come un cappotto.
E il tuo uovo, pur lievitando, diventa sempre pi angu-
sto. Presto lo troverai scomodo. Ti agiterai, ti stirerai, le
tue braccia e le tue gambe faranno i primi movimenti.
Un colpo di gomito qui, un colpo di ginocchio l. E que-
sto che aspetto. Il primo colpo sar un segno, un assenso.
Io feci cos, ricordi, per dire a mia madre di non bere
pi la medicina. E allora lei butt via la medicina. Certo
un'attesa inversamente proporzionale al tuo crescere:
tanto pi lenta quanto pi quello veloce: mi ricorda
l'esercito amico che non giungeva mai. La colpa del-
l'immobilit. Due settimane immobili, a letto, son trop-
pe. Come fanno le donne che ci stanno anche sette, otto
mesi? Sono donne o larve? L'unico punto su cui mi trovo
d'accordo che fa bene. Scomparsi gli spasmi, le coltel-
late gi in fondo al ventre. Svanita la nausea, e la gamba
non pi ~gonfia. Per subentrata una specie di spos-
satezza, un'ansia che assomiglia all'angoscia. Da cosa vie-
ne ? Forse dall'ozio, la noia. Non conoscevo l'ozio, non mi
aveva mai sfiorato la noia. Non vedo l'ora che passino gli
ultimi due giorni, mi preparo ad affrontarli come se fos-
sero due anni. Stamani ho litigato con te. Ti sei offeso?
Mi ha colto una specie di isteria. Ti ho detto che anch'io
avevo i miei diritti, che nessuno era autorizzato a dimen-
ticarlo e quindi nemmeno te. Ti ho gridato che ni avevi
esasperato, che non ne potevo pi. Mi ascolti? Da quando
so che hai chiuso gli occhi mi sembra che tu non presti at-
tenzione a ci che ti racconto, che tu ti culli in una specie
di incoscienza. Svegliati, su. Non vuoi? Allora vieni qui,
accanto a me. Appoggia la testina su questo guanciale, co-
s. Dormiamo insieme, abbracciati. Io e te, io e te... Nel
nostro letto non entrer mai nessun altro.

E venuto. Non credevo che l'avrebbe mai fat~o. Era
sera, la chiave ha girato dentro la toppa e ho pensato
che fosse la mia amica. Di regola lei che sale a trovarmi
prima di cena. Infatti le ho gridato ciao, certa di vederla
entrare ansimante col suo pacchettino: scusa-ho-fretta-
ti-porto-un-poco-di-carne-fredda-e-un-po' -di-frutta-tor-
no-domattina. Invece era lui. Dev'essersi insinuato in
punta di piedi: mi son voltata ed eccolo l, col viso ser-
rato e un mazzo di fiori in mano. La prima cosa che ho
provato stata una morsa nel ventre. Non la solita col-
tellata ma una morsa: quasi che tu ti fossi spaventato a
vederlo e mi avessi afferrato coi pugni per ripararti die-
tro le mie viscere, nasconderti. Poi mi mancato il respiro
e un'onda di ghiaccio mi ha intirizzito. L'hai sentita anche
tu? Ti ha fatto male? Se ne stava l in silenzio, col suo viso
serrato e i suoi fiori. Ho odiato il suo viso e i suoi fiori. Per-
ch piombare a quel modo, come un ladro? Non lo sa che
alle donne incinte bisogna evitare ogni trauma? Gli ho
chiesto: Cosa vuoi? . Ha posato i fiori sul letto, in si-
lenzio. Li ho subito tolti dicendo che i fiori sul letto por-
tano disgrazia, i fiori sul letto si mettono ai morti. E li
ho posati sul tavolino. Erano fiori gialli, comprati all'ul-
timo momento, scommetto: senza scelta e senza convin-
zione. Lui rimasto zitto e fermo: un'ombra alta e scura
contro il bianco della parete. Per non guardava me.
Guardava la tua fotografia sul muro: quella che ti ritrae
a due mesi, ingrandito quaranta volte. Avresti detto che
non riusciva a staccare gli occhi dai tuoi occhi, e pi ti
guardava pi gli si affondava la testa dentro le spalle.
Infine si coperto il viso con le mani ed scoppiato in
un pianto. Leggermente all'inizio, senza far rumore. Pi
forte dopo. S' anche seduto sul letto per piangere me-
glio, e a ciascun singhiozzo il letto si scuoteva: ho pensato
che ci ti disturbasse. Gli ho detto: Stai scuotendo il
letto. Le vibrazioni lo disturbano. Lui ha staccato le
mani dal viso, si asciugato col fazzoletto ed andato a
sedersi su una sedia. Quella sotto la tua fotografia. Era
strano vedervi accanto. Tu con le tue pupille ferme, mi-
steriose, lui con le sue pupille tremule, senza segreti. Poi
ha schiuso le labbra ed ha detto: E anche mio .

L'ira mi ha travolto. Sono balzata a sedere sul letto
e gli ho gridato che non eri n mio n suo: eri tuo. Gli
ho gridato che detestavo questa retorica da melodram-
ma, questa melensaggine da canzonette, e dovevo stare
tranquilla, l'aveva ordinato il dottore, cos'era venuto a
fare, ad ucciderti senza aborto perch risparmiassi de-
naro? Ho anche sbattuto il mazzo di fiori sul tavolino:
tre, quattro volte, finch le corolle si sono staccate v o-
lando in aria come coriandoli. Quando son ricaduta so-
pra i guanciali ero cos sudata che il pigiama mi aderiva
alla pelle, e il dolore al ventre era cosi forte che non lo
sopportavo. Lui non s' mosso, invece. Ha chinato la te-
sta e ha sussurrato: Quanto sei dura, quanto puoi esser
cattiva . Poi s' abbandonato a una specie di intermina-
bile arringa centrata sul fatto che sbagliavo, che eri mio e
suo, che ci aveva tanto riflettuto, tanto sofferto, che da
due mesi si dilaniava per te, che infine aveva capito quan-
to la mia scelta fosse nobile e giusta, che un figlio non si
dovrebbe mai buttare via perch un-figlio--un-figlio-
non-una-cosa. Poi altre banalit. Infatti l'ho interrotto
per esclamare: T anto non ce l'hai mica tu dentro il cor-
po, non devi mica portarlo tu dentro il corpo per nove
mesi . E lui ha spalancato la bocca, sorpreso: Credevo
che tu lo volessi, che tu lo facessi volentieri~.

Allora successa una cosa che non capisco: mi son
messa a piangere io. Non avevo mai pianto, lo sai, e non
volevo piangere: perch mi umiliava, perch mi imbrut-
tiva. Ma pi respingevo le lacrime pi esse ,gorgavano:
quasi si fosse rotto qualcosa. Ho provato anche ad accen-
dere una sigaretta. Le lacrime hanno bagnato la sigaret-
ta. E cos tuo padre ha lasciato la sedia, venuto verso
di me e mi ha accarezzato la testa: timidamente. Poi ha
mormorato ti faccio un caff ed andato in cucina
a fare il caff. Quando tornato, avevo ripreso il con-
trollo di me stessa. Lui no. Reggeva la tazzina come se
fosse un gioiello, esagerava in premura. Ho bevuto il caf-
f. Mi son messa ad aspettare che se ne andasse. Non
se n' andato. Mi ha chiesto cosa volevo mangiare. E co-
s ho ricordato che la mia amica non era venuta, ho ca-
pito che lo aveva mandato lei. E l'ira si trasferita su
lei, su tutti coloro che credono di aiutarti con le leggi del
formicaio, il loro arbitrario concetto del giusto e dell'in-
giusto. Maria, Ges, Giuseppe. Perch Giuseppe ? Sta
cos bene Maria col suo bambino e basta. L'unica cosa
accettabile, nella leggenda, proprio quel loro rapporto a
due: la meravigliosa bugia di un uovo che si riempie per
partenogenesi. Che ci fa all'improvviso Giuseppe? A chi
serve? Tira l'asino che non vuol camminare? Taglia il
cordone ombelicale e si accerta che la placenta sia uscita
intera? Oppure salva la reputazione di una screanzata
che rimase incinta senza marito? Ammenoch non la se-
gua come un domestico per farsi perdonare la colpa
d'averle chiesto di abortire. Lo guardavo raccogliere le
corolle dei fiori, chino sul pavimento, e non sentivo nem-
meno un po' di amicizia. S'era infranto un equilibrio, al
suo ingresso. S'era rotta una simmetria, turbata una com-
plicit: quella che esisteva fra me e te. Era giunto un
estraneo, capisci, e s'era messo fra noi ed era come se ci
avesse imposto un mobile di cui non si ha bisogno, anzi
ingombra la stanza togliendo luce, rubando aria, facen-
do inciampare. Forse, se fosse stato con noi fin dall'ini-
zio, ora la sua presenza ci sarebbe sembrata normale e
perfin necessaria: non avremmo potuto concepire altro
modo di prepararci al tuo arrivo. Ma vederlo piomba-
re cos, all'improvviso, con l'inopportunit dell'intruso
che entra nel ristorante dove stai mangiando insieme a
qualcuno con Cui vuoi stare sola, l'indiscrezione dell'in-
truso che siede al tuo tavolo sebbene tu non l'abbia invi-
tato n incoraggiato, era quasi offensivo. Avrei voluto
dirgli: "Vattene via, per favore. Non abbiamo bisogno
n di te, n di Giuseppe, n del Signore Iddio. Non ci
serve un padre, non ci serve un marito, tu sei di troppo".
~a non potevo. Forse mi frenava la timidezza di chi non
sa cacciare chi siede al tuo tavolo senza domandare per-
messo. Forse mi frenava una piet che a poco a poco
diventava comprensione, rimpianto. Al di l delle sue
debolezze, delle sue vilt, chiss quanto s'era tormentato
veramente, anche lui. Chiss quanto gli era costato ta-
cere, imporsi di venire con un brutto mazzo di fiori. Non si
nasce per partenogenesi, la stilla di luce che aveva bucato
l'uovo era sua, met del nucleo che aveva dato l'avvio al
tuo corpo era suo. E il fatto ch'io me ne dimenticassi era il
prezzo che pagavamo per l'unica legge che nessuno am-
mette: un uomo e una donna SiinContrano~ Si piacCiono,
si desiderano, forse si amano, e dopo un certo tempo non
si amano pi, non si desiderano pi, non si piacciono pi,
magari vorrebbero non essersi mai incontrati. Ho trovato
ci che cercavo, bambino: tra un uomo e una donna ci
che chiamano amore una stagione. E se al suo sboccia-
re questa stagione una festa di verde, al suo appassire
solo un mucchio di foglie marce.

Gli ho lasciato preparare la cena. Gli ho lasciato apri-
re quella assurda bottiglia di champagne. (Dove l'aveva
nascosta, entrando?) Gli ho lasciato fare un bagno. (Fi-
schiettava, nel bagno, come se tutto fosse sistemato.) E gli
ho permesso di dormire qui, nel nostro letto. Ma appe-
na se ne andato, stamani, ho provato una specie di ver-
gogna. E ora mi sembra d'aver mancato a un impegno,
d'averti tradito. Speriamo che non torni mai pi.

Camminare per strada dopo tanti giorni in un letto !
Sentire il vento sul viso, il sole sugli occhi, vedere altra
gente che va, assistere alla vita ! Se lo studio del medico
non fosse stato lontano, ci sarei andata a piedi: cantan-
do. Ho fermato quel taxi a malincuore. L'autista era un
bruto. Fumava un sigaro grasso che mi nauseava, gui-
das~a bombardandomi di frenate brusche ed inutili. Do-
po pochi metri ho sentito uno spasmo e l'allegria an-
negata nel solito nervosismo. Nello studio del medico
c'era una fila di donne con la pancia gonfia. Quando la
segretaria mi ha pregato di attendere, mi sono irritata.
Non mi piaceva allinearmi con le donne dalla pancia
gonfia: non avevo nulla in comune con loro. Nemmeno
la pancia. La mia scarsa, si vede e no. Finalmente sono
tl'entrata, mi sono spogliata, mi sono distesa sul lettuccio.
Il medico ti ha tormentato col dito, pigiando, frugando,

~ pOl Sl'e tolto il guanto di gomma e con voce di gelo mi

3 ha chiesto: Ma lei vuole davvero questo figlio? . Non
credevo ai miei orecchi. Naturalmente. Perch? gli

'~ ho risposto. Perch molte dicono di volerlo e poi, nel
subcosciente, non lo vogliono affatto. Senza realizzarlo
magari, fanno di tutto perch non nasca. Mi sono indi-
gnata. Non ero l per subire processi alla mia buonafede
e nemmeno per discutere di psicanalisi, ho detto, ero l
per sapere come stavi tu. Ha cambiato tono, si spiega-
to con garbo. V'erano cose che non capiva in questa
gravidanza. Riteneva che l'uovo fosse inserito bene, in
sede normale. Riteneva che la crescita del feto avvenisse
bene, in modo regolare. E tuttavia qualcosa non funzio-
nava. Ad esempio l'utero era troppo sensibile, si con-
traeva con eccessiva facilit: ci alimentava il sospetto
che il sangue non affluisse perfettamente alla placenta.
Ero stata immobile come mi aveva ordinato? Ho rispo-
sto s. Avevo evitato di bere alcool, avevo fumato meno

e s'era raccomandato? Ho risposto s. Non avevo mai
compiuto sforzi, strapazzi? Ho risposto no. Avevo avuto
rapporti sessuali? Di nuovo ho risposto no ed era vero,

- lo sai: non gli ho permesso di avvicinarsi, l'altra notte
sebbene lui ripetesse che era una crudelt. Allora il me-
dico apparso perplesso: Ha preoccupazioni? . Gli ho
risposto s. Ha avuto qualche trauma psicologico, che
so~ un dispiacere? Gli ho risposto s. Mi ha fissato senza
chiedere che specie di trauma, che specie di dispiacere,
pOI mi ha esposto la sua tesi. A volte le preoCCupazioni,
le ansie, gli shock sono pi pericolosi delle fatiche fisi-
che perch causano spasmi, contrazioni uterine, e minac-
ciano seriamente la vita dell'embrione o del feto. Non
dimenticassi che l'utero in relazione con l'ipofisi, che
ogni stimolo si trasmette subito agli organi genitali. Una
sorpresa violenta, un dolore, una collera, possono provo-
care il distacco parziale dell'uovo. Lo pu addirittura un
nervosismo costante, un perpetuo stato d'angoscia. Al li-
mite, e lungi da lui l'intenzione di sconfinare nella fanta-
scienza o nella fantapsicologia, si poteva parlare di un
pensiero che uccide. Al livello inconscio, s'intende, e per
questo dovevo assolutamente impormi d'esser tranquilla.
Dovevo rigorosamente evitare ogni emozione, ogni pen-
siero nero. Serenit, placidit erano le parole d'ordine.
Dottore, ho risposto, lo stesso che chiedermi di cambia-
re il colore degli occhi: come faccio ad essere placida se
la mia natura non lo ? Mi ha squadrato di nuovo con
freddezza: Questo affar suo. Si arrangi. Ingrassi . Poi
mi ha prescritto antispastici e altre medicine. Se per caso
appare una goccia di sangue, corra da lui.

Sono impaurita. Ed anche adirata con te. Cosa credi
che sia: un contenitore, un barattolo dove si mette un
oggetto da custodire? Sono una donna, perdio, sono una
persona. Non posso svitarmi il cervello e proibirgli di
pensare. Non posso annullare i miei sentimenti o proibir-
gli di manifestarsi. Non posso ignorare una rabbia, una
gioia, un dolore. Ho le mie reazioni, io, i miei stupori, i
miei scoramenti. Anche se potessi, non vorrei disfarmene
per ridurmi allo stato di un vegetale o di una macchina
fisiologica che serve a procreare e basta ! Quanto sei esi-
gente, bambino. Prima pretendi di controllare il mio
corpo e privarlo del suo pi elementare diritto: muo-
versi. Dopo pretendi addirittura di controllare la mia
mente e il mio cuore: atrofizzandoli, neutralizzandoli,
derubandoli della loro capacit di sentire, pensare, vi-
vere ! Accusi perfino il mio inconscio. Questo eccessivo,
inaccettabile. Se vogliamo restare insieme, bambino,
dobbiamo scendere a patti. Eccoli. Ti faccio una conce.s-
sione: ingrasso, ti regalo il mio corpo. Ma la mia men-
te no. Le mie reazioni no. Me le tengo. E con quelle pre-
tendo una mancia: i miei piaceri spiccioli. Infatti ora
bevo un abbondantissimo whisky, e fumo un pacchetto
di sigarette, una dopo l'altra, e riprendo a lavorare, ad
esistere come persona e non come barattolo, e piango,
piango, piango: senza chiederti se ti fa male. Perch so-
no stufa di te!

* * *

Perdonami. Dovevo essere ubriaca, impazzita. Guar-
da quante cicche, e guarda questo fazzoletto. E ancora
bagnato. Che crisi di furore imbecille, che scena disgu-
stosa. Egoista. Come stai, bambino? Meglio di me, spe-
ro. Io sono esausta. Sono cos stanca che vorrei resistere
altri sei mesi, il tempo di portarti alla luce, e poi morire.
Tu prenderesti il mio posto nel mondo e io mi riposerei.
Non sarebbe neanche troppo presto: mi sembra d'avere
ormai visto tutto ci che v'era da vedere, d'avere ormai
capito tutto ci che v'era da capire. E comunque, una
volta uscito dal mio corpo, non avrai pi bisogno di me.
Qualsiasi donna capace di amarti sar un'ottima madre
per te: la voce del sangue non esiste, un'invenzione. La
mamma non colei che ti porta nel ventre, colei che ti
cresce. O colui che ti cresce. Potrei regalarti a tuo padre.
Tuo padre tornato poco fa e mi ha portato una rosa blu.
Ha detto che il blu il colore del maschio. Ora pensa an-
che al colore. Ovviamente desidera che tu sia maschio:
nascere maschio per lui un merito maggiore, un segno
di superiorit. Poveretto. Non colpa sua, hanno raccon-
tato anche a lui che Dio un vecchio con la barba bianca,
che Maria era un'incubatrice, che senza Giuseppe non
avrebbe trovato nemmeno una stalla, che ad accendere il
fuoco fu Prometeo. Io non lo disprezzo per questo. Tutta-
via dico che non ho, non abbiamo necessit di lui. N della
sua rosa blu. Gli ho ordinato di andarsene, di lasciarci in
pace. Ha barcollato come per una legnata, s' avviato ver-
so la porta, se n' andato senza rispondere. Tra poco ce ne
andiamo anche noi: a lavorare. Il commendatore mi ha
ricordato la sua comprensione per ha aggiunto che bi-
sogna rispettare gli impegni: una donna incinta pu
lasciare l'impiego solo al sesto mese. Mi ha ricordato
anche il viaggio: minacciando con perfido garbo di tra-
sfe~ ire l'incarico a un uomo perch a-un-uomo-non-acca-
dono-certi-incidenti. Ho frenato a stento la tentazione di
aggredirlo, e mi son messa a tergiversare. I prossimi dieci
giorni saranno duri, devo guadagnare il tempo perduto.
Ma ti dir: L'idea di riprendere le mie attivit mi scuote
da questo torpore, da questa rassegnazione che mi fa
sognare la morte. Menomale che gi incominciato l'in-
verno: sotto il cappotto il ventre gonfio non si noter. E,
d'ora innanzi, crescer parecchio. Stamani ad esem-
pio pi gonfio. Il vestito mi tira. A quattordici setti-
mane, sai quanto sei lungo? Almeno dieci centimetri.
Perfino la placenta, ormai troppo piccola per avvilup-
pare il sacco amniotico, sta tirandosi da parte. E tu stai
invadendomi senza piet.

Non sono una persona che si spaventa alla vista del
sangue. Ed essere donne una scuola di sangue: tutti
i mesi offriamo a noi stesse il suo spettacolo odioso. Ma
quando ho visto quella minuscola macchia sopra il cu-
scino, i miei occhi si sono annebbiati e le mie gambe si
sono piegate. M'ha invaso il panico, poi la disperazione,
e mi son maledetta. Mi sono accusata di ogni colpa ver-
so di te che non potevi proteggerti, non potevi ribellarti,
cos piccino e indifeso e alla merc di ogni mio capric-
cio, ogni mia irresponsabilit. Non era nemmeno rossa,
la macchia. Era rosa, d'un pallido rosa. E tuttavia era
pi che sufficiente a trasmettermi il messaggio, ad an-
nunciarmi che stavi forse finendo. Ho agguantato il cu-
scino e son corsa. Il medico stato inaspettatamente gen-
tile. Mi ha ricevuto sebbene fosse sera, mi ha detto di
calmarmi: non stavi morendo, non t'eri staccato, avevi
sofferto e basta, si trattava di una minaccia e basta, il ri-
poso assoluto avrebbe sistemato ogni cosa, purch fosse
assoluto, purch non scendessi dal letto nemmeno per an-
dare nel bagno, e per questo era meglio che mi ricove-
rassi in ospedale. Siamo all'ospedale. Una camera triste
di questo mondo triste. Ci siamo da una settimana che ho
trascorso quasi sempre dormendo, obnubilata dai seda-
tivi. Ora li hanno sospesi ma peggio: non so come im-
piegare il tempo che gocciola vuoto. Ho chiesto i gior-
nali e non me li hanno portati. Ho chiesto una televi-
sione e me l'hanno negata. Ho chiesto un telefono e non
funziona. La mia amica non viene. Tuo padre nemmeno.
Il silenzio mi abbrutisce e mi schiaccia. Prigioniera d'una
belva vestita di bianco che ognitanto arriva con un'inie-
zione di luteina e mi buca con scherno, non riesco nem-
meno a tentar di trasmetterti un po' di tenerezza. Ma ri-
flessioni a lungo sopite, invano soffocate, salgono alla su-
perficie della mia coscienza e gridano cose che non sa-
pevo di sapere. Queste. Perch dovrei sopportare una tale
agonia? In nome di cosa? Di un reato commesso abbrac-
ciando un uomo? Di una cellula scissa in due cellule e
poi in quattro cellule e poi in otto cellule, all'infinito,
senza che io lo volessi, senza che io lo ordinassi? Oppure
in nome della vita? E va bene, la vita. Ma cos' questa
vita per cui tu, che esisti non ancora fatto, conti pi di
me che esisto gi fat~a? Cos' questo rispetto per te che
toglie rispetto a me? Cos' questo tuo diritto ad esistere
che non tiene conto del mio diritto ad esistere? Non c'
umanit in te. Umanit! Ma sei un essere umano, tu?
Bastano davvero una bollicina d'uovo e uno spermio di
cinque micron a fare un essere umano? Essere umano son
io che penso e parlo e rido e piango e agisco in un mon-
do che agisce per costruire cose ed idee. Tu non sei che
un bambolottino di carne che non pensa, non parla, non
ride, non piange, e agisce solo per costruire se stesso. Ci
che vedo in te non sei te: sono io ! Ti ho attribuito una co-
scienza, ho dialogato con te, ma la tua coscienza era la
mia coscienza e il nostro dialogo era un monologo: il
mio ! Basta con questa commedia, con questo delirio. Non
si umani per diritto naturale, prima di nascere. Umani
lo si diventa dopo, quando si nati, perch si sta con gli
altri, perch ci aiutano gli altri, perch una madre o una
donna o un uomo o non importa chi ci insegna a man-
giare, a camminare, a parlare, a pensare, a comportarsi
da umani. L'unica cosa che ci unisce, mio caro, un
cordone ombelicale. E non siamo una coppia. Siamo un
persecutore e un perseguitato. Tu al posto del persecu-
tore e io al posto del perseguitato. Ti insinuasti in me co-
me un ladro, e mi rapinasti il ventre, il sangue, il respiro.
Ora vorresti rapinarmi l'esistenza intera. Non te lo per-
metter. E giacch sono arrivata a dirti queste verit
sacrosante, sai cosa concludo? Non vedo perch dovrei
avere un bambino. Non mi sono mai trovata a mio agio,
io, coi bambini. Non sono mai riuscita a trattare con
loro. Quando mi avvicino con un sorriso, strillano come
se li ~picchiassi. Il mestiere di mamma non mi si addice.
Io ho altri doveri verso la vita. Ho un lavoro che mi
piace e intendo farlo. Ho un futuro che mi aspetta e non

intendo abbandonarlo. Chi assolve una donna povera
-_ che non vuole altri figli, chi assolve una ragazza violen-
tata che non vuole quel figlio, deve assolvere anche me.
Essere povere, essere violentate, non costituisce la sola giu-
stificazione. Lascio questo ospedale e parto per il mio viag-
gio. Poi sar quel che sar. Se riuscirai a nascere, na-
scerai. Se non ci riuscirai, morirai. Io non ti ammazzo,
sia chiaro: semplicemente, mi rifiuto di aiutarti ad eser-
citar fino in fondo la tua tirannia e...

Questo non era il nostro patto, me ne rendo conto. Ma
un patto un accordo dove ciascuno d per ricevere, e
quando lo firmammo ignoravo che avresti preteso tutto
per darmi nulla. Del resto tu non lo firmasti per niente, lo

mai soltanto io. Ci ne incrina la validit. Non lo firma-

- sti e da te non mi giunse mai un assenso: il tuo unico mes-
saggio stato una goccia rosa di sangue. Ch'io sia ma-
ledetta davvero, e per sempre, che la mia vita diventi un
rimpianto perpetuo, al di l della morte, se stavolta cam-
bio la mia decisione.

Mi ha definito assassina. Chiuso dentro il suo camice
bianco, non pi medico ma giudice, ha tuonato che ven-
go meno ai doveri pi fondamentali di madre e di don-
na e di cittadina. Ha gridato che lasciar l'ospedale sareb-
be gi un misfatto, scendere dal letto gi un crimine, ma
intraprendere un viaggio omicidio premeditato e la
legge dovrebbe punirmi come punisce un qualsiasi as-
sassino. Poi s' fatto supplice, ha tentato di convincermi
con la tua fotografia. Che ti osservassi bene se avevo un
minimo di cuore: eri ormai un bambino in tutto e per
tutto. La tua bocca non era pi l'idea di una bocca: ma

-
una bocca. Il tuo naso non era pi l'idea di un naso: ma
un naso. Il tuo viso non era pi l'abbozzo di un viso:
ma un viso. E lo stesso il tuo corpo, le tue mani, i tuoi
piedi dove le unghie erano evidenti. Era evidente anche
un principio di capelli sulla testolina ben formata. Che
mi rendessi conto, al tempo stesso, della tua fragilit.
Che studiassi la tua pelle: cos delicata, cos diafana che
attraverso di essa traspariva ogni vena, ogni capillare,
ogni nervo. Non eri neanche pi minuscolo: misuravi al-
meno sedici centimetri e pesavi due etti. Se avessi voluto
abortirti non avrei potuto: sarebbe stato tardi. Eppure
mi accingeVo a fare qualcosa che era peggio di un abor-
to. L'ho ascoltato senza battere ciglio. Dopo ho firmato
un foglio con cui egli declinava ogni responsabilit per
la tua vita e la mia, ed io me le assumevo al suo posto.
L'ho guardato uscire dalla camera in preda a un furore
che lo rendeva paonazzo. E, quasi in quel momento, tu
ti sei mosso. Hai fatto ci che avevo aspettato, agognato,
per mesi. Ti sei allungato, forse hai sbadigliato, e mi hai
tirato un colpetto. Un piccolo calcio. Il tuo primo calcio...
Come quello che tirai a mia madre per dirle di non buttar-
mi via. Le mie gambe son diventate marmo. E per qualche
secondo son rimasta con il fiato mozzo, le tempie che mi
pulsavano. Ho sentito anche un bruciore alla gola, una
lacrima che mi accecava. Poi la lacrima ruzzolata gi,
caduta sul lenzuolo facendo: paf ! Ma sono scesa ugual-
mente dal letto. Ho preparato ugualmente la valigia.
Domani si parte, ho detto. In aereo.

Era proprio il caso di pigliarsela tanto? Stiamo benis-
simo nel paese in cui siamo venuti. Siamo stati benissimo
durante l'intero viaggio e all'arrivo e dopo. Mai uno spa-
smo, un dolore, una nausea. Non successo nulla di ci
che il medico aveva annunciato: ho la conferma della dot-
toressa che mi ha visitato ieri. Simpatica. Dopo averti
palpato ha concluso che non vede ragioni per allarmarsi,
il suo collega eccedeva in pessimismo e prudenza, una
goccia di sangue cos'? Vi sono donne Ghe perdono san-
gue per l'intera durata della gravidanza e poi metto-
no al mondo figli sanissimi. Secondo lei stare a letto
contro natura, ed anche eccedere nelle precauzioni.
Una sua cliente, ad esempio, ballerina di professione, ave-
va continuato a esibirsi nel pas deux fino a dopo il quin-
to mese. Di me la meravigliava soltanto lo scarso gonfiore
del ventre, per anche la ballerina aveva un ventre pres-
soch piatto. Che continuassi pure coi medicamenti pre-
scritti dal collega, se desideravo, ma soprattutto lasciassi
la natura provvedere da s. Unico consiglio, non guidare
troppo l'automobile. Le ho spiegato che in automobile
dovevo fare un viaggio di dieci giorni almeno. Ha alzato
il sopracciglio un po' incerta, e mi ha chiesto se fosse
proprio necessario. Le ho risposto di s. ~ rimasta zitta
per qualche minuto e poi ha concluso pazienza, le strade
di questo paese sono comode e lisce, le macchine di que-
sto paese sono ben molleggiate. L'importante non stra-
pazzarsi e concedersi ogni due o tre ore un riposo. Mi ascol-
ti ? Sto dicendo che ho fatto la pace con te, siamo amici al-
la fine ! Sto dicendo che mi dispiace averti maltrattato, sfi-
dato, e ancora di pi mi dispiace se resti offeso e non mi
tiri colpetti. Non me ne hai tirati pi, dopo l'ospedale. A
volte, pensandoci, aggrotto la fronte.

Dura poco per. Subito dopo ritrovo la tranquillit.
Intuisci quanto sono cambiata? Dacch ho ripreso la vita
di sempre, mi sembra d'essere un'altra: un gabbiano che
vola. Davvero ci fu un momento in cui desideravo la
morte? Pazza. E cos bella la vita, la luce. Sono cos belli
gli alberi e la terra e il mare. C' molto mare qui: te ne
arriva il profumo, il fragore? E bello anche lavorare se
dentro di te guizza una gioia: mentivo a sostenere che in
ogni caso il lavoro stanca e umilia. Devi scusarmi: la col-
lera, L'ansia, mi facevano veder tutto buio. E a proposito
del buio: sorta di nuovo in me l'impazienza di tirartene
fuori. Con essa, il timore di averti scoraggiato attraverso
le chiacchiere sulla libert che non esiste, sulla solitudine
che l'unica condizione possibile. Dimentica quelle scioc-
chezze: stare gomito a gomito serve. La vita una comu-
nit per darci la mano, consolarci, aiutarci. Anche le
piante fioriscono meglio una accanto all'altra, e gli uc-
celli migrano a gruppi, i pesci nuotano a branchi. Che
faremmo soli? Ci sentiremmo come astronauti sulla Lu-
na, soffocati dalla paura e dalla fretta di tornare indie-
tro. Sbrigati, trascorri alla svelta i mesi che ti rimangono,
affacciati senza timore di vedere il sole. L per l ti abba-
glier, ti spaventer, ma presto diverr un'allegria di cui
non potrai fare a meno. Mi pento d'averti fornito sempre
gli esempi pi brutti, di non averti mai raccontato lo
splendore di un'alba, la dolcezza di un bacio, il profumo
di un cibo. Mi pento di non averti fatto ridere mai. Se
tu mi giudicassi dalle fiabe che narravo, saresti autoriz-
zato a concludere che io sono una specie di Elettra sempre
vestita di nero. D'ora innanzi devi immaginarmi come
un Peter Pan sempre vestito di giallo di verde di rosso
e sempre intento a stendere nastri di fiori sui tetti, sui
campanili, sulle nuvole che non diventano pioggia. Sare-
mo felici insieme perch, in fondo, sono un bambino an-
ch'io. Lo sai che mi diverto a giocare? Stanotte rientran-
do in albergo ho scambiato tutte le scarpe messe fuori
delle camere ed anche le richieste delle colazioni. Al mat-
tino scoppiato il subbuglio. Una signora aveva trovato
un paio di mocassini da uomo e reclamava i suoi sandali
col tacco, un uomo aveva trovato due scarpette da tennis e
riclamava i suoi stivali, un tale protestava che gli avevan
portato soltanto il caff e cercava le uova al prosciutto che
aveva ordinato, un altro si rammaricava perch non ave-
va chiesto un pranzo di Natale ma un t col limone. L'orec-
chio appoggiato alla porta, ascoltavo e ridevo in modo co-
s divertito che mi sembrava d'esser tornata alla fanciul-
lezza, quand'ero felice perch ogni gesto era un gioco.

* * *

Ti ho comprato una culla. Dopo averla comprata
m' venuto in mente che, secondo alcuni, possedere una
culla prima che il bambino nasca porta disgrazia come
i fiori sul letto. Ma le superstizioni non mi toccano pi.
E una culla indiana, di quelle che si portano a zaino die-
tro le spalle. E gialla e verde e rossa come Peter Pan. Ti
caricher sulle spalle, ti porter ovunque cos, e la gente
sorrider dicendo: guarda quei due fanciulli matti. Ti ho
comprato anche un guardaroba: magliette, tutine, e un
bel carillon. Suona un valzer tutto festoso. Quando l'ho
detto alla mia amica, per telefono, ha commentato che
manco di qualsiasi equilibrio. Per aveva una voce con-
tenta, lavata dell'inquietudine che la serrava il giorno in
cui partimmo: e-se-lo-perdi-in-aereo? Lei che mi consi-
gliava di eliminarti all'inizio ! E davvero una brava don-
na. Infatti non sono mai riuscita a rimproverarla per aver-
mi mandato tuo padre. E quanto a lui, sai che dico? Un
uomo che accetta di farsi cacciare come lo cacciai io non
un uomo da buttar via. Mi ha scritto una lettera, dopo.
Mi ha commosso. Sono un vigliacco, ammette, perch so-
no un uomo; per devo essere assolto perch sono un uo-
mo. Un atavico istinto, suppongo, lo induce ormai a desi-

y~
derarti. Vedremo cosa fare di lui: a volte un mobile di cui
non si ha bisogno finisce col dimostrarsi utile ed certo
che non ho pi voglia di essergli nemica. In questo armi-
stizio col formicaio c'entrano tutti: lui, i medici, il com-
mendatore. Se tu avessi visto il commendatore mentre
gli annunciavo la nostra partenza. Ripeteva: Ecco una
buona notizia. Brava, non se ne pentir ! .

Non me ne pentir. ~ solo rispettando se stessi che si
pu esigere il rispetto degli altri, solo credendo in se
stessi che si pu essere creduti dagli altri. Buonanotte,
bambino. Domani incomincia il viaggio in automobile.
Vorrei scriverti una poesia che narrasse il mio sollievo, la
fiducia ritrovata, questa voglia di tendere nastri di fiori
sui tetti, Sui campanili, sulle nuvole, questa sensazione di
volare come un gabbiano dentro l'azzurro, lontano dalle
sporcizie, dalle malinconie, su un mare che dall'alto sem-
bra sempre pulito. In fondo il coraggio ottimismo. Io
non ero ottimista perch non ero coraggiosa.

Le strade di questo paese sono comode e lisce, le au-
tomobili di questo paese sono ben molleggiate: dottoressa,
anche lei mente. Ed io non sono un gabbiano. Cosa faccio,
bambino? Vado avanti, torno indietro? Se torno indietro
peggio: devo rifare lo stesso tratto impossibile. Se vado
avanti, invece, ho speranza che migliori. Avendo il co-
raggio della retorica, potrei dire che sto guidando lungo
una strada uguale alla mia vita: tutta buche e sassi, dif-
ficolt. Una volta conobbi uno scrittore che sosteneva:
ciascuno ha la vita che si merita. Come sostenere che un
povero merita d'essere povera, che un cieco merita d'es-
sere cieco. Era un uomo stupido, sebbene fosse uno scrit-
tore intelligente. Anche il filo che divide l'intelligenza
dalla stupidaggine un filo talmente sottile, te ne accor-
gerai. Infatti, quando si rompe, le due cose si fondono in-
sieme come l'amore e l'odio, la vita e la morte, che tu sia
uomo o donna. Sono tornata a chiedermi se sei un uomo o
una donna ed ormai vorrei che tu fossi un uomo. Cos non
avresti la scuola mensile di sangue, un giorno non ti giu-
dicheresti colpevole di guidare lungo una strada sconvolta
dalle buche e dai sassi. Non ti sentiresti male come in que-
sto momento mi sento io e potresti librarti su nell'azzurro
molto pi seriamente di quanto faccia io: i miei sforzi per
volare non vanno mai oltre il balzo di un tacchino. Le
donne che bruciano il reggiseno hanno ragione. Hanno
ragione? Nessuna di loro ha scoperto un sistema perch il
mondo non finisca se non fai bambini. E i bambini nasco-
no dalle donne. Conosco un racconto di fantascienza che
Si svolge su un pianeta dove per procreare bisogna essere
in sette. Ma molto difficile trovarsi in sette ed ancor
pi difficile mettersi d'accordo in sette perch la gravi-
danza, non solo il concepimento, coinvolge tutti e sette.
Perci la razza si estingue e il pianeta si vuota. Conosco
un altro racconto dove al protagonista basta una soluzione
alcalina, o un bicchiere d'acqua col sale. Ci salta dentro
e paf ! Diventano due. Si tratta di una normale scissione
cellulare e, nell'attimo in cui il protagonista si scinde, ces-
sa d'esser se stesso: compie una specie di suicidio del suo
io. Per non muore e non soffre nove mesi d'inferno. D'in-
ferno? Per alcune, sono nove mesi di gloria. La soluzione
migliore resta quella che ti dissi in principio. Si toglie
l~embrione dal ventre della madre, lo si mette nel ventre
di un'altra disposta ad ospitarlo, una pi paziente di me,
pi generosa di me... Credo d'avere la febbre. Gli spasmi
sono ricominciati. Devo ignorarli. Ma come? Pensando
a tutt'altre cose, suppongo. Potrei raccontarti una fiaba.
~ tanto che non ti racconto una fiaba. Eccola. C'era una
volta una donna che sognava un pezzetto di luna. Anzi,
nemmeno un pezzetto: un po' di polvere le sarebbe basta-
ta. Non era un sogno irrealizzabile, tantomeno bizzarro.
Lei conosceva gli uomini che andavano sulla luna, andarci
era una gran moda a quel tempo. Gli uomini partivano
da un punto della Terra non lontano da qui, con piccole
navi di ferro, agganciate sulla cima di un altissimo razzo,
e ogni volta che il razzo schizzava nel cielo, tuonando, se-
minando fiori di fuoco come una cometa, la donna era
molto felice. Gridava al razzo Vai, vai, vai ! . Poi segui-
va trepidante e gelosa il viaggio degli uomini che volava-
no tre giorni e tre notti, nel buio.

Gli uomini che andavano sulla luna erano uomini
sciocchi. Avevano sciocchi volti di pietra e non sapeva-
no ridere, non sapevano piangere. La luna per loro era
un'impresa scientifica e basta, una conquista della tec-
nologia. Durante il viaggio non dicevano mai qualcosa di
bello! solo numeri e formule e informazioni noiose, se al-
temavano lampi di umanit era per chiedere notizie su
una squadra di football. Una volta sbarcati sulla luna sa-
pevano dire ancor meno. Al massimo pronunciavano due
o tre frasi fatte, poi piantavano una bandiera di latta e
con gesti da automi si abbandonavano a un cerimoniale
di gesti scontati. Ripartivano dopo aver sporcato la luna
coi loro escrementi che Cos restavano a testimoniare il
passaggio dell'Uomo. Gli escrementi eran chiusi dentro
scatolette, le scatolette venivano lasciate l con la ban-
diera, e se lo sapevi non riuscivi a guardare la luna senza
dirti: Lass ci sono anche i loro escrementi . Infine tor-
navano pieni di sassi, di polvere. Sassi di luna, polvere di
luna. La polvere che la donna sognava. E rivedendoli lei
elemosinava (io elemosinavo): Mi dai un poco di luna?
Ne hai tanta ! . Ma loro rispondevano sempre: non-si-
pu--proibito. Tutta la luna finiva nei laboratori, sulle
scrivanie del personaggi per cui andarci era un'impresa
scientifica e basta, una conquista della tecnologia. Erano
uomini sciocchi, perch erano uomini privi di anima. Ep-
pure ce n'era uno che a me sembrava migliore. Infatti sa-
peva ridere e piangere. Era un omino brutto, coi denti ra-
di e una gran paura addosso. Per nascondere quella paura
rideva e portava buffi cappelli che gli regalavano un po'
d anima, ecco. Io gli ero amica per questo e perch sapeva
di non meritare la luna. Incontrandomi brontolava: Co-
sa dir lass ? Io non sono un poeta, non so dire cose belle
e profonde . Pochi giorni prima di andar sulla luna ven-
ne da me, per salutarmi e chiedermi cosa dire sulla luna.
Gli risposi che doveva dire qualcosa di vero, qualcosa di
onesto, ad esempio che era un omino colmo di paura per-
ch era un omino. Ci gli piacque e giur: Se torno ti
porto un poco di luna. Polvere di luna . Part e torn.
Ma torn cambiato. Se gli telefonavo per ricordargli la
promessa, rispondeva evasivo. Poi, una sera, mi invit a ce-
na nella sua casa e io mi precipitai credendo che volesse
darmi finalmente la luna. A tavola ero inquieta, la cena
non finiva mai. Quando fin, lui disse: Ora ti faccio ve-
dere la luna . Non disse ora ti do la luna Disse ora
ti faccio vedere la luna . Ma io non notai la differenza.
Portava ancora quei buffi cappelli, rideva ancora quelle
buffe risate, non sospettavo che in cielo avesse perduto
anche il goccio d'anima che gli attribuivo.

Mi accompagn nel suo studio, ammiccando. Apr un
armadio chiuso a chiave, giocando. Dentro l'armadio c'e-
rano alcuni oggetti: una specie di vanga, una specie di
zappa, un tubo. Tutti coperti da una polvere strana, color
grigio argento. La polvere di luna. Il mio cuore prese a
battere forte. Col cuore che batteva forte allungai una
mano, agguantai delicatamente la vanga. Era una vanga
leggera, quasi priva di peso, e la polvere era una specie di
cipria, un velo d'argento che sulla pelle restava come una
seconda pelle d'argento, e non saprei dirti cosa provai a
vedere la luna sulla mia pelle. Forse la sensazione di espan-
dermi nel tempo e nello spazio, o di raggiungere l'irrag-
giungibile, l'idea stessa dell'infinito. Cose che penso ora,
per. In quel momento non potevo pensare. Anche ora che
cerco, frugando nel ricordo della coscienza, riesco a dirti
soltanto che me ne stavo l sbalordita, tenendo in mano la
vanga, e non mi accorgevo nemmeno che lui diventava im-
paziente: quasi temesse di vedersi rubare un tesoro di cui
non era disposto a conceder nemmeno il ricordo. Quando
me ne accorsi, glielo restituii e sussurrai: Grazie. Ora
dammi il fagottino di luna . Divenne subito duro: Che
luna ?. La polvere di luna che mi hai promesso. L'hai
appena avuta. Te l'ho lasciata toccare. Credevo che
scherzasse. Impiegai minuti pi lunghi di anni per ren-
dermi conto che non scherzava, che la sua promessa s'era
esaurita nell'atto di lasciarmi toccare la vanga. Proprio
quel che si fa coi poveri quando gli si consente di ammi-
rare un gioiello in vetrina o di guardar da lontano una
festa cui non devono partecipare. Nella sorpresa, il dolo-
re, non riuscivo neanche a rinfacciargli l'imbroglio, rim-
proverargli tanta meschinit. Mi ripetevo soltanto: se
riuscissi a convincerlo che ci troppo malvagio. E in que-
sta pazza speranza cominciai a supplicarlo, spiegargli che
non gli chiedevo un pezzetto di luna, gli chiedevo soltan-
to la polvere di luna che mi aveva promesso, pochina, ne
~veva tanta dentro l'armadio, ogni oggetto ne era coper-
to, bastava che mi permettesse di raccoglierne un po' so-
pra un foglio; su qualcosa che non fosse la mia pelle, per
guardarla di nuovo negli anni a venire, era sempre stato
un desiderio per me, lo sapeva, non un capriccio. Ma, pi
mi umiliavo, pi lui diventava duro. Mi fissava con gelidi
occhi e taceva. Infine, tacendo, richiuse l'armadio ed usc
dalla stanza. Dal salotto sua moglie chiedeva se volevamo

il caff. Si serviva il caff.

Non risposi. Me ne rimasi ferma a guardar la mia ma-
no coperta di luna. Avevo la luna in mano e non sapevo
dove appoggiarla, come conservarla. Al minmo contatto
sarebbe sparita. Il mio cervello cercava invano una so-
luzione, uno stratagemma che offrisse la via di salvare
il salvabile, ma trovava solo una nebbia, e dentro la neb-
bia una frase: Sarebbe come toglier la cipria. Ovunque
la spalmi perduta . Ed era questo il tormento pi gran-
de, la sevizia che Tantalo non aveva mai conosciuto. Tan-
talo si vedeva sfuggire il frutto nell'attimo in cui stava per
afferrarlo, non se lo vedeva svanire dopo averlo afferrato.
Poi detti un'ultima occhiata alla mia mano d'argento,
spalancata in un gesto di supplica assurda, inghiottii un
desiderio di lacrime, sorrisi con amarezza. Da lontananze
infinite la luna era giunta a me, s'era posata sulla mia
pelle, ed io mi accingevo a buttarla via. Per sempre. Anche
volendo non avrei potuto restare cos, con le dita tese, sen-
za toccare altre cose. Prima o poi le avrei posate in un po-
sto, capisci, e tutto sarebbe svanito come svanisce il fumo:
per la beffa crudele di un imbecille crudele. Strinsi la ma-
no con rabbia. La spalancai di nuovo. Ora sulla palma si
vedeva appena un arabesco di righe sporche, contorte. E
guardarle dava un ribrezzo. Per arrivare a questo ribrez-
zo avevo tanto sognato, aspettato? Strisciai la palma sul-
L'armadio. Vi rimase un'impronta untuosa come la sbava-
tura di una lumaca, come la traccia di una lacrima lunga.

Quando me ne andai, la luna era bianca e illuminava
la notte di bianco. La fissavi con occhi appannati e con-
cludevi: appena esiste una cosa bianca, pulita, c' sem-
pre qualcuno che la insozza con i suoi escrementi. Poi ti
chiedevi: perch? Ma perch? In albergo aprii il rubinet-
to dell'acqua, ci posai sotto la mano. Ne col un liquido
nero che presto scomparve in un vortice nero e sai che ti
dico, bambino? Tu sei come la mia luna, la mia polvere di
luna. Gli spasmi sono raddoppiati, non posso pi guidare.
Se trovassi un motel, se potessi fermarmi, riposarmi. Col
cervello pi lucido, forse, scoprirei una soluzione per sal-
vare il salvabile: non buttare via la mia luna. Non voglio
perder di nuovo la luna, vederla sparire in fondo a un la-
vabo. Ma inutile. Con la stessa certezza che mi paraliz-
zava la notte in cui seppi che esistevi, ora so che stai ces-
sando di esistere.

Ho interrotto il viaggio. Sono tornata in citt e ho
telefonato alla dottoressa che non ci credeva. Ripeteva
sia calma, quindici giorni fa tutto andava bene: certo la
sua fantasia. Le ho risposto che il sangue non fantasia,
che per una settimana sono stata ferma in un motel con
il solo risultato di vedere uno stillicidio di sangue. Mi ha
ordinato di raggiungerla immediatamente. Sulla porta
sorrideva, col consueto ottimismo. Mi sono spogliata alla
svelta, prima che me lo dicesse. Mi sono distesa sul let-
tuccio e lei m'ha appoggiato una mano sul cuore. Ha
esclamato: Come batte! Fa rumore quanto un tambu-
ro . Non ho risposto n alla sua dolcezza n al suo sor-
riso. L'altrui comprensione non mi serviva pi e v'era in
me la sicurezza di partecipare a una cerimonia superflua,
segretamente attesa, in fondo, e forse voluta. Ero pronta,
rassegnata, convinta che non avrei reagito perch tutto
quello che c'era da dire l'avevo gi detto, tutto quello che
c'era da patire l'avevo gi patito. Ma quando la cerimonia
iniziata ho compreso che non sarei mai stata pronta, mai.
Perfino ascoltare le sue domande mi faceva male, perfino
rispondervi. Non lo ha mai sentito muovere recentemen-
te? No. )> Si sentita pi pesante, pi goffa? No.
E quando s' messa in testa l'idea che... sulla strada
accidentata, prima di arrivare al motel. Piuttosto in-
sufficiente per cavarne giudizi. E tocca a me esprimer giu-
dizi, s o no ? Poi mi ha scoperto il ventre, ha notato che in
realt sembrava pi piatto di prima. Mi ha palpato i seni,
ha osservato che in realt sembravano meno turgidi di
prima. Si infilata il guanto di gomma, ti ha cercato. E
la sua fronte s' corrugata, i suoi occhi si sono rabbuiati
mentre diceva: L'utero ha perso tono. Si presenta av-
vizzito. ~ lecito sospettare che il bambino non cresca be-
ne, che non cresca pi. Dovremmo fare un esame biolo-
gico, aspettare ancora qualche giorno. Poi si sfilata il
guanto, lo ha buttato via. Si appoggiata con entrambe
le mani al lettuccio. Mi ha fissato con mestizia: Tanto
vale che glielo dica subito. Ha ragione lei. Non cresce pi.
Almeno da due settimane e forse da tre. Si faccia corag-
gio, finita. ~; morto.

Non ho risposto nulla. Non ho fatto un gesto. Non
ho battuto un ciglio. Sono rimasta l con un corpo che
era pietra e silenzio. Anche il cervello era pietra e silen-
zio. Non vi si annidava un pensiero, una parola. L'unica
sensazione era un peso insopportabile sopra lo stomaco,
un piombo invisibile che mi schiacciava come se il cielo
mi fosse precipitato addosso: senza far rumore. Nell'im-
mobilit assoluta, nella mancanza di suoni assoluta, il
suo invito esploso col fragore di uno sparo: Coraggio,
si alzi. Si vesta. Mi sono alzata e le gambe eran pietra
dentro la pietra, bisognava che compissi uno sforzo disu-
mano per indurle a obbedire. Mi sono vestita e ho udito
la mia voce che chiedeva cosa avrei dovuto fare, un'altra
voce che rispondeva: Niente. Lui star l ancora per
un poco. Dopo se ne andr spontaneamente . Ho annui-
to. Allora l'altra voce ha ammucchiato frasi su frasi, un
incessante ronzio che mi pregava di non avvilirmi, molti
bambini se ne vanno perch non sono perfetti, non sono
formati bene, chi vuole mettere al mondo un bambino
che non perfetto, non formato bene, non dovevo con-
dannarmi, non dovevo rimproverarmi per colpe incom-
messe, la gravidanza tale quando si svolge con natura-
lezza, lei era contraria al sistema di coloro che costrin-
gono una donna a letto per mesi e impediscono alla na-
tura di fare il suo corso. Ho pagato. L'ho salutata con
un cenno della testa. Sono uscita tra due filari di pance
gonfie, le pance gonfie si offrivano provocatorie al mio
ventre piatto che chiudeva un morto, e finalmente il
mio cervello ha pensato qualcosa. Ha pensato: "E an-
data come doveva andare. Dunque ci vuole coerenza". E
la parola coerenza mi ha accompagnato fino all'albergo,
martellante, ossessiva: coerenza, coerenza, coerenza. Ma
quando sono entrata nella mia stanza e ho visto la culla,
ho visto il carillon, le magliette del tuo guardaroba, ho
vomitato un gemito lungo. E son caduta sul letto, mentre
un altro gemito si aggiungeva a quel gemito, poi un altro,
e un altro ancora, finch dal profondo del corpo dove
ormai giaci come un pezzettino di carne che non conta
pi nulla salito un gran pianto, e ha schiantato la pie-
tra rompendola in mille pezzetti, sbriciolandola in pol-
vere. E ho urlato. E sono svenuta.

Forse stato durante il sonno cui mi sono abbando-
nata dopo aver ripreso i sensi. O forse stato durante il
delirio. Comunque avvenuto: me ne ricordo con luci-
dit. C'era una sala candida, con sette scanni e una gab-
bia. Io ero dentro la gabbia e loro sugli scanni, remoti e
irraggiungibili. Sullo scanno centrale stava il medico che
mi curava prima del viaggio. Alla sua destra stava la
dottoressa, alla sua sinistra il commendatore. Accanto al
commendatore stava la mia amica e accanto alla mia
amica stava tuo padre. Accanto alla dottoressa stavano
i miei genitori. Nessun altro. E nessun oggetto intorno o
alle pareti o per terra. Ma ho capito subito che si stava
celebrando un processo dove ero io l'accusata, e che essi
costituivano la giuria. Non ho provato panico, n smar-
rimento. Con infinita rassegnazione mi son messa a stu-
diarli, uno a uno. Tuo padre singhiozzava piano, copren-
dosi il viso come il giorno in cui s'era seduto sul letto. I
miei genitori tenevano il capo chino, quasi fossero op-
pressi da una mortale stanchezza o da un mortale dolore.
La mia amica sembrava triste, gli altri tre impenetrabili.
S' alzato il medico e ha incominciato a leggere un fo-
glio: Presente l'imputata, questa giuria si riunisCe per
giudicarla del reato di omicidio premeditato per aver
voluto e provocato la morte di suo figlio mediante incu-
ria, egoismo, mancanza del pi elementare rispetto verso
il suo diritto alla vita . Poi ha posato il foglio, ha spie-
gato in che modo si sarebbe svolto il processo. Ciascuno
avrebbe parlato come testimone e giudice, quindi avrebbe
dato ad alta voce il suo voto: colpevole o non colpevole.
La maggioranza dei voti avrebbe determinato il verdetto e
dopo quello, in caso di condanna, si sarebbe scelta la pena.
Ecco, incominciava. Toccava a lui prendere la parola. La
prima frase s' levata come un vento di ghiaccio.

Un figlio non un dente cariato. Non lo si pu
estirpare come un dente e buttarlo nella pattumiera, tra
il cotone sporco e le garze. Un figlio una persona, e
la vita di una persona un continuum dall'attimo in cui
viene concepita al momento in cui muore. Alcuni di voi
contesteranno il concetto stesso del continuum. Ripete-
ranno che nell'attimo in cui si concepiti, non esistiamo
come persona. Esistiamo solo come cellula che si molti-
plica e che non rappresenta la vita. O non pi di quanto
la rappresenti un albero che non delitto tagliare, un
moscerino che non delitto schiacciare. Da scienziato
rispondo subito che un albero non diventa un uomo, e
nemmeno un moscerino. Tutti gli elementi che compon-
gono un uomo, dal suo corpo alla sua personalit, tutti
i quozienti che costituiscono un individuo, dal suo sangue
alla sua mente, sono concentrati in quella cellula. Essi
rappresentano molto di pi che un progetto o una pro-
messa: se potessimo esaminarli con un microscopio ca-
pace di vedere al di l del visibile, ci butteremmo in gi-
nocchio e crederemmo tutti a Dio. Gi in tale fase, dun-
que, e per quanto ci possa apparire paradossale, io mi
sento autorizzato a usare la parola assassinio. Ed aggiun-
go: se l'umanit dipendesse dal volume, L'assassinio dalla
quantit, dovremmo dedurne che uccidere un uomo di
cento chili pi grave che ucciderne uno di cinquanta.
La collega che mi sta a fianco non sorrida. Sulle sue tesi
io risparmio giudizi ma sul suo modo di esercitare la
professione medica non risparmio commenti: in quella
gabbia dovrebbero starci due donne, non una. Poi ha
guardato la dottoressa con sprezzante severit. Lei ha
sostenuto lo sguardo tranquilla, fumando, e ci mi ha
consolato come un tepore. Ma subito il vento di ghiaccio
ha ripreso.

Tuttavia non siamo qui per giudicare la morte di
una cellula. Siamo qui per giudicare la morte di un bam-
bino che aveva raggiunto almeno i tre mesi della sua
esistenza prenatale. Chi ne provoc la morte? Circostan-
ze a noi ignote ma naturali, qualcuno che sfuggito alla
cattura, o la donna che vedete in gabbia? Io vi posso
fornire le prove che mi permettono di affermare: a pro-
vocarne la morte fu la donna che vedete in ~abbia. Non
a caso io la sospettai fin dal primo incontro. L'esperien:za
mi fa riconoscere un'infanticida anche dietro una ma-
schera, ed era una maschera che lei portava sul volto
dicendo di volere il bambino. Era una menzogna offerta
a se stessa prima che agli altri. Mi colp, ad esempio, la
sua durezza ferrigna. Il giorno in cui mi congratulai con
lei perch l'esame era stato positivo, rispose secca che
lo sapeva gi. Mi colp anche l'ostilit con cui reag al-
L'ordine di mettersi a letto non appena fu colta da spasmi
dovuti a contrazioni uterine. Non poteva permettersi si-
mili Itlssi, replic, e quindici giorni era il limite massimo
cui si sarebbe piegata. Dovetti insistere, adirarmi, morti-
ficarmi in raccomandazioni. E ci mi convinse che non
le piaceva accettare i doveri di madre, che la sua non
era una maternit responsabile. Del resto mi telefonava
in continuazione, affermando che stava bene e non c'era
ragione di tenerla a letto, protestando che aveva un la-
voro e doveva alzarsi. Il mattino in Cui la rividi era il
ritratto dell'infelicit. E, proprio nel corso di quella visi-
ta, si maturarono i miei sospetti che costei meditasse un
delitto. Anatomicamente e fisiologicamente non si spie-
~ava infatti perch la ~gravidanza fosse cos dolorosa: gli
spasmi potevano avere soltanto un'origine psicologica,
cio volontaria. La interrogai. Ammise, laconica, di sen-
tirsi angosciata per molte preoccupazioni. Alluse anche a
un dispiacere che non cercai di chiarire ~giacch mi parve
ovvio che fosse il dispiacere d'essere incinta. Infine le do-
mandai se volesse davvero il bambino e le spiegai che a
volte il pensiero uccide: era necessario che mutasse il suo
nervosismo in placidit. Con un lampo d'ira rispose che
sarebbe stato come chiederle di mutare il colore degli oc-
chi. Pochi giorni dopo si present di nuovo. Aveva ripreso
la vita normale e le cose erano peggiorate. La ricoverai
in clinica. Qui, per otto giorni, la immobilizzai e ottenni
il controllo della sua psiche attraverso la farmacologia.

E siamo al delitto, signori. Ma prima di illustrarve-
lo, dico: supponiamo che uno di voi sia gravemente am-
malato e abbia bisogno di una medicina. La medicina
a portata di mano, la salvezza consiste nel semplice gesto
di qualcuno che ve la porge. Come chiamate colui che
invece di darvi la medicina la butta via o la sostituisce
con un veleno? Pazzo, dispettoso, colpevole di omissione
di soccorso? No, troppo poco. Io lo chiamo assassino.
Signori gi~rati, non v' dubbio che il bambino fosse am-
malato e che la medicina a portata di mano fosse l'im-
mobilit. Ma questa donna non solo gliela neg: gli som-
ministr il veleno di un viaggio che avrebbe danneggiato
una gravidanza pi facile. Ore e ore in aereo, in auto-
mobile, per strade sconnesse, luoghi accidentati, da sola.
Io la scongiurai. Le dimostrai che a quel punto suo figlio
non era pi un moltiplicarsi di cellule ma un vero bam-
bino. Le annunciai che lo avrebbe ucciso. Mi oppose la
sua durezza spietata, firm un foglio col quale si assu-
meva ogni responsabilit. Part. Lo uccise. D'accordo: se
fossimo dinanzi a un tribunale di leggi scritte, mi sarebbe
arduo sostenerne la colpevolezza. Non vi furono sonde
n farmaci n interventi chirurgici: secondo le leggi
scritte, questa donna dovrebbe andarsene assolta perch il
fatto non esiste. Ma noi siamo una giuria della vita, si-
gnori, e in nome della vita io vi dico che il suo compor-
tamento fu peggio delle sonde e dei farmaci e degli in-
terventi chirurgici. Perch fu ipocrita, vile, e senza ri-
schi legali.

Darei molto per riconoscerle le circostanze atte-
nuanti, assolverla in parte. Ma non vedo dove, non vedo
come. Era povera forse, affogava in ristrettezze econo-
miche tali da non poter mantenere suo figlio? Assoluta-
mente no. Lo riconosce lei stessa. Doveva difendere il suo
onore in quanto apparteneva a una societ che l'avrebbe
perseguitata se metteva al mondo un illegittimo? Neppu-
re. Appartiene a un establishment culturale che anzich
respingerla avrebbe fatto di lei un'eroina, e comunque
non crede alle regole della societ. Rifiuta Dio, la patria,
la famiglia, il matrimonio, gli stessi principii del vivere
insieme. Il suo delitto non ha attenuanti perch lo com-
mise in nome di una libert: la libert personale, egoista,
che non tiene conto degli altri e dei loro diritti. Ho pro-
nunciato la parola diritti. L'ho fatto per prevenirvi sulla
parola eutanasia. L-'ho fatto anche perch non mi rispon-
diate che lasciando morire quel figlio essa esercit un suo
diritto: risparmiare alla comunit il fardello di un indivi-
duo malato e cio sbagliato. Non spetta a noi stabilire
a priori chi sar sbagliato e chi no, se sar sbagliato o
no. Omero era cieco e Leopardi era gobbo. Se gli spar-
tani li avessero gettati dalla rupe Tarpea, se le loro madri
si fossero stancate di portarli in seno, oggi l'umanit sa-
rebbe pi povera: escludo che un campione olimpionico
valga pi di un poeta storpio. Quanto al sacrificio
di custodire nel ventre il feto di un campione olimpionico
o di un poeta storpio, io vi ricordo che la specie umana
si propaga cos: piaccia o non piaccia. E concludo: col-
pevole !

Mi sono rattrappita a quell'urlo. Ho chiuso gli occhi
e cos non ho visto la dottoressa che si alzava per parlare.
Quando li ho riaperti lei aveva gi incominciato e diceva:
Il mio collega si dimenticato di ammettere che per
ogni Omero nasce un Hitler, che ogni concepimento
una sfida carica di splendide e orrende possibilit. Io non
so se questo bambino sarebbe stato una Giovanna d'Arco
o un Hitler: quando morto egli era soltanto una scono-
sciuta possibilit. Per so chi questa donna: una realt
da non distruggere. Tra una possibilit sconosciuta e una
realt da non distruggere, io scelgo quest'ultima. Il mio
collega sembra ossessionato dal culto della vita. Per
quel culto egli lo riserva a chi potrebb'essere, non lo
estende a chi lo gi. Il culto della vita una bella
chiacchiera e basta. Anche la battuta un-figlio-non--un-
dente-cariato una bella battuta e basta. Scommetto
che il mio collega stato alla guerra e ha sparato e ha
ucciso dimenticando che nemmeno a vent'anni un figlio
un dente cariato. Non conosco infanticidio peggiore
della guerra: la guerra un infanticidio in massa, rin-
viato di vent'anni. Eppure lui l'accetta, in nome di chis-
s quali altri culti, e non applica ad essa la tesi del suo
continuum. Anche come scienziata non posso prendere
sul serio il suo continuum: se lo facessi, dovrei portare
il lutto ognivolta che un uovo muore non fecondato,
ognivolta che i duecento milioni di spermii non arri-
vano a bucarne la membrana. Peggio: dovrei portare
il lutto anche quando viene fecondato: pensando ai cen-
tonovantanove milioni e novecentonovantanovemilanove-
centonovantanove spermii i quali muoiono sconfitti dal-
L'unico spermio che ha bucato la membrana. Anch'essi so-
no creature di Dio. Anch'essi sono vivi e contengono gli
elementi che compongono un individuo. Il mio collega non
li ha mai osservati al microscopio? Non li ha mai visti cor-
rere scodinzolando come un branco di girini, non li ha mai
visti faticare e lottare contro la zona pellucida, battendoci
il capo disperatamente, sapendo che fallire morire? Si
tratta di uno spettacolo straziante: ignorandolo, il mio col-
lega non generoso verso il suo sesso. Io non vorrei indul-
gere a facili ironie ma, visto che egli crede tanto alla vita,
come pu lasciar morire miliardi e miliardi di spermii sen-
za farci nulla? Omissione di soccorso o crimine? Crimine,
ovvio: dentro quella gabbia dovrebbe starci anche lui.
Se non ci va, e subito, significa che ci ha mentito, che
il suo perbenismo turbato da chi dice che il problema
non consiste nel far nascere un gran numero di individui
ma nel rendere meno disgraziata possibile l'esistenza
di coloro che sono gi nati.

Sempre a proposito del mio collega, evito di pren-
der sul serio la sua insinuazione di correit. Al massimo
potrei essere accusata di errato giudizio, e neanche una
giuria della vita pu condannare l'errato giudizio. Del
resto non fu tale: fu semplicemente un giudizio e di cui
non mi pento. La gravidanza non una punizione inflitta
dalla natura per farti pagare il brivido di un momento.
E un miracolo che deve svolgersi con la stessa sponta-
neit che benedice gli alberi, i pesci. Se non procede in
modo normale, non puoi chiedere a una donna di stare
mesi e mesi distesa in un letto come una paralitica. In al-
tre parole, non puoi esigere da lei la rinuncia della sua at-
tivit, della sua personalit, della sua libert. Lo esigi for-
se da un uomo che con quel brivido gode molto di pi?
Evidentemente il mio collega non riconosce alle donne il
diritto che riconosce agli uomini: disporre del proprio
corpo. Evidentemente egli considera l'uomo un'ape cui
permesso di svolazzare di fiore in fiore, la donna un
sistema genitale che serve solo alla procreazione. Capita
a molti nel nostro mestiere: le pazienti preferite dai gine-
cologi sono fattrici placide, grasse, senza problemi di li-
bert. E comunque non siamo qui per giudicare i medici.
Siamo qui per giudicare una donna accusata di omicidio
premeditato e compiuto col pensiero anzich coi ferri. Ri-
fiuto l'accusa, in base ad elementi precisi. Il giorno in
cui diagnosticai che tutto andava bene, vidi un gran sol-
lievo in lei. Il giorno in cui ammisi che il feto era morto,
vidi un gran dolore in lei. Ho detto feto e non bambino:
la scienza mi permette questa distinzione. Sappiamo tut-
ti che un feto diventa un bambino solo al momento della
viabilit, e che tale momento sopraggiunge al nono me-
se. In casi eccezionali, al settimo mese. Ma ammettiamo
pure che non fosse pi un feto, che fosse gi un bambino:
il crimine non esisterebbe ugualmente. Caro collega, co-
stei non voleva la morte del suo bambino: voleva la pro-
pria vita. E purtroppo in certi casi la nostra vita la mor-
te di un altro, la vita di un altro la nostra morte. A chi ci
spara, si spara. Le leggi scritte chiamano ci legittima
difesa. Se mai questa donna desider inconsciamente la
morte del figlio, lo fece per legittima difesa. Quindi non
colpevole.

Poi s' alzato tuo padre che non piangeva pi. Ma
appena ha mosso le labbra per dire qualcosa, il suo men-
to ha incominciato a tremare e le lacrime sono sgorgate
di nuovo. Si portato di nuovo le mani agli occhi ed
ricaduto a sedere. Rinuncia alla parola dunque? ha
detto il medico con irritazione. Tuo padre ha abbassato
il capo impercettibilmente, come a rispondere s. Non
pu rinunciare al voto per ha insistito l'altro. Tuo pa-
dre ha raddoppiato i singhiozzi. Il voto, la prego ! Tuo
padre s' soffiato il naso, tacendo. Colpevole s o no?
Tuo padre ha tirato un sospiro lungo e ha mormorato:
Colpevole . A quel punto successa una cosa tremen-
da: la mia amica s' voltata e gli ha sputato addosso. E
mentre lui si detergeva, pallido, la mia amica ha gridato:
Vigliacco. Ipocrita vigliacco. Tu che le telefonavi sol-
tanto perch lo buttasse via. Tu che per due mesi sei ri-
masto nascosto come un disertore. Tu che sei andato da
lei solo perch ti ho pregato. Fate sempre cos, vero? Vi
spaventate e ci lasciate sole e al massimo tornate da noi
in nome della paternit. Tanto che vi costa la paternit?
Un ventre sfasciato da un ingrossamento ridicolo? La pe-
na del parto, la tortura dell'allattamento? Il frutto della
paternit vi viene scodellato dinanzi come una minestra
gi cotta, posato sul letto come una Camicia stirata. Non
avete che dargli un cognome se siete sposati, neanche
quello se siete fuggiti. Ogni responsabilit della donna,
ogni sofferenza, ogni insulto. Puttana, le dite se ha fatto
l'amore con voi. La parola puttano non esiste nel diziona-
rio: usarla un errore di glottologia. Sono millenni che ci
imponete i vostri vocaboli, i vostri precetti, i vostri abusi.
Sono millenni che usate il nostro corpo senza rimetterci
nulla. Sono millenni che ci imponete il silenzio e ci rele-
gate al compito di mamme. In qualsiasi donna cercate
una mamma. A qualsiasi donna chiedete di farvi da mam-
ma: perfino se vostra figlia. Dite che non abbiamo i vo-
stri muscoli e poi sfruttate la nostra fatica anche per farvi
lucidare le scarpe. Dite che non abbiamo il vostro cervello
e poi sfruttate la nostra intelligenza anche per farvi am-
ministrare il salario. Eterni bambini, fino alla vecchiaia
restate bambini da imboccare, pulire, servire, consigliare,
consolare, proteggere nelle vostre debolezze e nelle vostre
pigrizie. Io vi disprezzo. E disprezzo me stessa per non
saper fare a meno di voi, per non gridarvi pi spesso: sia-
mo stanche d'esservi mamme. Siamo stanche di questa
parola che avete santificata per il vostro interesse, il vo-
stro egoismo. Dovrei sputare anche su lei, signor dottore.
Lei che in una donna vede soltanto un utero e due ovaie,
mai un cervello. Lei che dinanzi a una donna incinta
pensa: "Prima si divertita e poi viene da me". Non si
mai divertito, lei, signor dottore? Non ha mai dimentica-
to il culto della vita? Lo difende cos bene al livello cel-
lulare Ghe la si direbbe invidioso di ci che la sua collega
chiama miracolo della maternit. Ma no, lo escludo.
Quel miracolo un sacrificio per lei. In quanto uomo,
non saprebbe affrontarlo. Qui non si fa il processo a una
donna, dottore: si fa il processo a tutte le donne. Ho quin-
di il diritto di rovesciarlo su lei e se lo metta bene in te-
sta, dottore: la maternit non un dovere morale. Non
nemmeno un fatto biologico. E una scelta cosciente. Que-
sta donna aveva fatto una scelta cosciente, e non voleva
uccider nessuno. Era lei che voleva ucciderla, signor dot-
tore, negandole perfino l'uso del proprio intelletto. Perci
dentro la gabbia dovrebbe starci lei, e non per mancato
soccorso a miliardi di stupidi spermatozoi bens per tenta-
to donnicidio. Dopodich mi pare addirittura superfluo
dichiarare che l'accusata non colpevole .

Poi s' alzato il commendatore, con un'espressione
di falso imbarazzo. Non sapeva come pronunciarsi, ha
iniziato, perch in questa giuria si sentiva un estraneo.
Gli altri erano legati all'imputata da un vincolo profes-
sionale o affettivo che includeva il bambino: lui, invece,
era soltanto il suo datore di lavoro. In quanto tale, non
poteva che rallegrarsi all'idea che le cose fossero andate
com'erano andate: pur cedendo alla magnanimit, egli
aveva sempre considerato quella gravidanza un ostacolo.
Peggio: una catastrofe che gli sarebbe costata un muc-
chio di denaro. Bastasse pensare allo stipendio da pagar-
le, secondo una legge assurda e riprovevole, anche nei me-
si di inerzia. Il bambino era stato saggio, pi saggio della
madre. Oltretutto, morendo, aveva difeso il nome della
ditta. Che avrebbe pensato il pubblico a veder la sua
dipendente, non sposata per giunta, con un neonato in
braccio? Non si peritava di confessarlo: se la donna avesse
accettato, lui l'avrebbe aiutata a disfarsi dell'inoppor-
tuno. Per lui non era solo un industriale: era un uomo
E i giurati che lo avevano preceduto, i due giurati ma
schi s'intende, avevan provocato nella sua coscienza un
ripensamento. Il dottore attraverso la logica e la moralit,
il padre del bambino attraverso il cordoglio. Riflettendo,
non poteva non associarsi ai ragionamenti del primo e al
pianto del secondo. Un figlio appartiene in uguale misura
al padre e alla madre: se il delitto era stato commesso, si
trattava di un doppio delitto giacch, oltre ad eliminare
la vita di un infante, aveva stroncato la vita di un adul-
to. D'accordo, bisognava decidere se il delitto era stato
commesso o no: ma esistevano dubbi in proposito? Era
necessaria una prova pi schiacciante della testimonian-
za offerta dal medico? Costui era stato indulgente a
parlare d'un vago egoismo. Lui, commendatore, poteva
svelarne il motivo e il movente. L'imputata temeva che
il famoso viaggio venisse affidato a un collega rivale. Per
questo era balzata dal letto ed era partita, senza alcun ri-
guardo per la vita che portava in seno. Senza nessuna mi-
sericordia. Che la sua alleata sputasse pure, insultasse pu-
re. L'imputata era colpevole.

Allora ho cercato con gli occhi mio padre e mia
madre. E li ho implorati, in silenzio, perch erano la
mia ultima possibilit di salvezza. Mi hanno risposto
con uno sguardo avvilito. Sembravano esausti, molto
pi vecchi di quando il processo era incominciato. La
testa gli ciondolava in avanti come se non ne sostenes-
sero il peso, il corpo gli tremava come se avessero freddo,
e tutto in loro cedeva stroncato in un mesto abbandono
che li isolava dagli altri: legandoli dentro un'uniCa dispe-
razione. Si reggevano reciprocamente la mano, per aiu-
tarsi. Mano nella mano hanno chiesto il permesso di re-
stare seduti. Il permesso gli stato concesso e allora li ho
visti confabulare: per stabilire, suppongo, chi avrebbe par-
lato per primo. Ha parlato per primo lui. Ha detto: Io
ho avuto due dolori. Il primo dolore a sapere che quel
bambino c'era e il secondo dolore a sapere che non c'era
pi. Sper~ che qui mi venga risparmiato un terzo dolore:
veder condannare mia figlia. In che modo si siano svolte
le cose non so. Nessuno di voi pu saperlo perch nessuno
pu entrare nell'anima altrui. Per questa mia figlia:
e per un padre i figli non sono colpevoli. Mai . Subito
dopo ha parlato mia madre. Ha detto: ~ la mia bambi-
na. Sar sempre la mia bambina. E la mia bambina non
pu fare cose cattive. Quando mi scrisse che aspettava
un figlio, io le risposi: "Se hai deciso cos, vuol dire che
giusto". Se mi avesse scritto che non lo voleva, io avrei ri-
sposto la stessa cosa. Non tocca a noi giudicare, n a voi.
Non avete il diritto di accusarla n di difenderla per-
che non siete dentro n la sua mente n dentro il suo cuore.
Nessuna delle vostre testimonianze ha valore. V' solo
un testimone, qui, che potrebbe spiegarci come sono an-
date le cose. E questo testimone il bambino che non
pu... . Allora gli altri l'hanno interrotta, in coro: Il
bambino, il bambino! . Ed io mi sono aggrappata alla
gabbia, e ho gridato: Il bambino no ! Il bambino no ! .
Ed stato mentre gridavo cos che...

* * *

S, stato mentre gridavo cos che ho udito la tua vo-
ce: Mamma ! . E mi son sentita svuotare perch era
la prima volta che qualcuno mi chiamava mamma, e per-
ch era la prima volta che udivo la tua voce, e perch non
era la voce di un bambino. Era la voce di un adulto, di un
uomo. E ho pensato: "Era un uomo !". Poi ho pensato:
Era un uomo, mi condanner". Infine ho pensato: "Lo
voglio vedere !". E le mie pupille hanno frugato ovunque,
dentro la gabbia, fuori della gabbia, tra gli scanni, al di l
degli scanni, per terra, sui muri. Ma non ti hanno trovato.
Non c'eri. C'era solo una quiete di tomba. E in questa quie-
te di tomba la tua voce s' levata, di nuovo: Mamma !
Lasciami parlare, mamma. Non avere paura. Non bisogna
aver paura della verit. Del resto gi stata detta. Ciascu-

no di loro ha detto una verit, e tu lo sai: me lo hai inse-
gnato tu che la verit fatta di molte verit differenti. So-
no nel giusto coloro che ti hanno acCusato e coloro che ti
hanno difeso, coloro che ti hanno assolto e coloro che ti
hanno condannato. Per quei giudizi non contano. Tuo pa-
dre e tua madre hanno ragione a rispondere che non si pu
entrare nell'anima altrui, e che l'unico testimone son io.
Soltanto io, mamma, posso affermare che mi hai ucciso
senza uccidermi. Soltanto io posso spiegare come l'hai fat-
to e perch. Io non avevo chiesto di nascere, mamma. Nes-
suno lo chiede. Laggi nel nulla non v' volont. Non v'
scelta. V' il nulla. Quando avviene lo strappo e ci accor-
giamo di incominciare, non ci chiediamo nemmeno chi l'ha
voluto e se ci bene o male. Semplicemente, accettiamo e
poi aspettiamo di scoprire se ci piace aver accettato. Sco-
prii fin troppo presto che mi piaceva. Sia pure attraverso i
tuoi timori, le tue esitazioni, eri stata cos brava a convin-
cermi che nascere bello e scappare dal nulla una gioia.
Una volta nato non ti dovrai scoraggiare, dicevi: neanche
a soffrire, neanche a morire. Se uno muore vuol dire che
nato, che uscito dal niente, e niente peggiore del niente:
il brutto dover dire di non esserci stato. La tua fede mi
seduceva, la tua prepotenza. Sembrava davvero la prepo-
tenza dei tempi remoti in cui la vita era esplosa nel modo
che mi avevi narrato. Io ti credevo, mamma. Insieme al-
L'acqua che mi immergeva io bevevo ogni tuo pensiero. E
ogni tuo pensiero aveva il sapore di una rivelazione. Poteva
avvenire altrimenti ? Il mio corpo era solo un progetto che
si sviluppava in te, ~razie a te; la mia mente era solo una
promessa che si realizzava in te, grazie a te. Apprendevo
esclusivamente ci che mi davi, ignoravo ci che non mi
davi: le mie sorsate di luce e di coscienza eri tu. Se sfidavi
tutto e tutti per condurmi alla vita, pensavo, ci signifi-
cava che la vita era veramente un dono sublime.
Ma poi crebbero le tue incertezze, i tuoi dubbi, e
prendesti ad alternare lusinghe e minacce, tenerezza e
rancore, coraggio e paura. Per lavarti della paura un
giorno attribuisti a me la decisione di esistere, mamma.
Affermasti d'avere obbedito a un mio ordine, non alla tua
scelta. Mi accusasti addirittura d'essere il tuo padrone: tu
la mia vittima, non io la tua. E passasti a rimproverarmi,
biasimarmi perch ti facevo soffrire. Giungesti addirittu-
ra a sfidarmi spiegando cos'era la vita da voi: una trap-
pola priva di libert, di felicit, di amore. Un pozzo di
schiavit e di violenze Cui non mi sarei potuto sottrarre.
Non ti stancavi mai di dimostrarmi che non c' salvezza
nel formicaio, che non si sfugge alle sue leggi cupe. Le
magnolie servono per scaraventarci le donne, la cioccolata
la mangiano quelli che non ne hanno bisogno, il domani
un uomo fucilato per un pezzo di pane e poi un sacco di
mutande sporche. Si concludevano sempre con una do-
manda, le tue fiabe tristi: ma proprio il caso che tu esca
dal tuo nido di pace per venire quaggi? Non mi raccon-
tasti mai che un fiore di magnolia si pu cogliere senza
morire, che un gianduiotto si pu mangiare senza umiliar-
Si, che il domani pu essere meglio di ieri. E quando te ne
accorgesti era troppo tardi: mi stavo gi suicidando. Non
piangere, mamma: io mi rendo conto che facevi questo
anche per amore, per prepararmi a non cedere il giorno
in cui l'orrore di esistere mi avrebbe investito. Non vero
che non credi all'amore, mamma. Ci credi tanto da stra-
ziarti perch ne vedi cos poco, e perch quello che vedi
non mai perfetto. Tu sei fatta d'amore. Ma sufficiente
credere all'amore se non si crede alla vita? Non appena
compresi che tu non credevi alla vita, che facevi uno sforzo
ad abitarci e portando me ad abitarci, io mi permisi la
prima e l'ultima scelta: rifiutar di nascere, negarti per
la seconda volta la luna. Ormai potevo, mamma. Il mio
pensiero non era pi il tuo pensiero: ne possedevo uno mio.
Piccolo forse, abbozzato, ma in grado di trarre questa con-
clusione: se la vita un tormento, approdarci perch?
Non mi avevi mai detto perch si nasce. Ed eri stata ab-
bastanza onesta da non imbrogliarmi con le leggende che
avete inventato per consolarvi: il Dio onnipotente che
crea a sua immagine e somiglianza, la ricerca del bene,
la corsa al paradiso. La tua sola spiegazione era stata che
eri nata anche tu, e prima di te la tua mamma, prima del-
la tua mamma, la mamma della tua mamma: all'indietro
verso uno ieri di cui si perdevan le tracce. Si nasceva in-
somma perch altri eran nati e perch altri nascessero: in
un prolificare affine a se stesso. Se non accadesse cos, mi
dicesti una sera, la specie umana si estinguerebbe. Anzi
non esisterebbe. Ma perch dovrebbe esistere, perch deve
esistere, mamma? Lo scopo qual ? Te lo dico io, mam-
ma: un'attesa della morte, del niente. Nel mio universo
che tu chiamavi uovo, lo scopo esisteva: era nascere. Ma
nel tuo mondo lo scopo soltanto morire: la vita una
condanna a morte. Io non vedo perch avrei dovuto
uscire dal nulla per tornare al nulla.

Allora ho compreso quant'era fondo e irrimediabile
il male che ti avevo inflitto e che avevo inflitto a me
stessa, alle cose in cui mi costringo a credere: nascere
per essere felici, liberi, buoni, per battersi in nome della
felicit, della libert, della bont, nascere per tentare, sa-
pere, scoprire, inventare. Per non morire. E in preda al
panico mi sono augurata che tutto ci fosse un sogno, un
incubo da cui sarei uscita per ritrovarti vivo, bambino
dentro di me, e ricominciare daccapo, senza spaventar-
mi, senza mostrarmi impaziente, senza rinunciare alla
fede che ha nome speranza, e ho scosso la gabbia: di-
cendo a me stessa che non esisteva. La gabbia ha resi-
stito. Era davvero una gabbia ed era davvero un tribu-
nale e s'era svolto davvero un processo dove tu mi avevi
giudicato colpevole perch io mi giudicavo colpevole
mi avevi condannato perch io mi condannavo. Restava
soltanto da decider la pena e questa era ovvia: rifiutare
la vita e tornare al nulla con te. Ti ho teso le braccia.
Ti ho supplicato di portarmi via con te, subito. E tu mi sei
venuto accanto, mi hai detto: Ma io ti perdono, mam-
ma. Non piangere. Nascer un'altra volta.

Splendide parole, bambino, ma parole e basta. Tutti
gli spermii e tutti gli ovuli della terra uniti in tutte le
possibili combinazioni non potrebbero mai creare di nuo-
vo te, ci che eri e che avresti potuto essere. Tu non rina-
scerai mai pi. Non tornerai mai pi. E continuo a par-
larti per pura disperazione.

Sono giorni che te ne stai chiuso l dentro, senza vivere
e senza andar via. La dottoressa ne stupita e impaurita.
Posso morire, dice, se non ti tolgo. Lo capisco benissimo
e aggiungo: non ho alcuna intenzione di punirmi fino
a quel punto, servirmi di te per applicare l'autocondan-
na di quell'assurdo processo. La durezza del rimpianto
mi basta. Allo stesso tempo, per, non ho alcuna fretta
di toglierti e sarebbe difficile individuarne il motivo.
Forse l'abitudine a stare insieme, addormentarci insie-
me, svegliarci insieme, sapermi sola senza essere sola?
Forse il sospetto illogico che si tratti di un errore e con-
venga attendere ancora? O forse perch tornare ad es-
sere ci che ero prima di te non mi interessa pi? Avevo
tanto agognato di diventar nuovamente padrona della
mia sorte. Ora che lo sono, non mi interessa pi. Ecco
un'ennesima realt che hai perso l'occasione di scoprire
nascendo: uno Si consuma per ottenere una ricchezza o un
amore o una libert, si affatica per conquistare un suo
diritto, e, quando lo conquista, non ne gioisce. Olo sciu-
pa olo ignora, magari pensando che gli piacerebbe tor-
nare indietro, ricominciare daccapo con le battaglie e i
tormenti. Aver realizzato il suo sogno lo fa sentire perdu-
to. Benedetto colui che pu dirsi: "Io voglio camminare,
non voglio arrivare". Maledetto colui che si impone:
"Voglio arrivare fin l". Arrivare morire, durante il
cammino puoi concederti soltanto fermate. Se almeno
riuscissi a convincermi che tu sei stato una fermata e ba-
sta, che una morte non ferma la vita, che la vita non ave-
va bisogno di te, che questo dolore servito a qualcosa e
a qualcuno. Ma a chi serve un bambino che muore e una
mamma che rinuncia ad essere mamma? Ai moralisti, ai
giuristi, ai teologi, ai riformatori? In tal caso c' da do-
mandarsi chi sfrutter questa storia e quale sar il ver-
detto del loro tribunale. Merito la solidariet dei pi o il
vituperio? Ho reso un servigio ai moralisti o ai giuristi, ai
teologi o ai riformatori? Ho peccato istigandoti al suicidio
e uccidendoti, oppure ho peccato attribuendoti un'anima
che non possedevi? Senti come discutono, come gridano:
ha offeso Dio, no, ha offeso le donne; ha dileggiato un
problema, no, vi ha contribuito; ha capito che la vita
sacra, no, ha capito che la vita una beffa. Quasi che il
dilemma di esistere o non esistere si potesse risolvere con
una sentenza o un'altra, una legge o un'altra, e non toc-
casse ad ogni creatura risolverlo da s e per s. Quasi che
intuire una verit non aprisse interrogativi su una verit
opposta, ed entrambe non fossero valide. Qual il fine
dei loro processi, dei loro litigi? Stabilire ci che lecito
e ci che non lo ? Decidere dove sta la giustizia? Avevi
ragione, bambino: stava in tutti. Anche la coscienza
fatta di molte coscienze: io sono quel medico e quella dot-
toressa, la mia amica e il commendatore, mia madre e
mio padre, tuo padre e te. Io sono ci che ciascuno di voi
mi ha detto. E vallate di tristezza si stendono dinanzi a
me, invano fiorite d'orgoglio.

Tuo padre mi ha scritto di nuovo. Stavolta una
lettera che mi induce a riflettere. Dice: Ti conosco
abbastanza per evitare di consolarti affermando che hai
fatto bene a sacrificare il bambino a te stessa anzich te
stessa a lui. Sai meglio di me (sei stata tu a gridarlo cac-
ciandomi) che una donna non una gallina, che non tutte
le galline covano le uova, che molte le abbandonano, che
altre se le bevono. N noi le condanniamo per questo, o
non pi di quanto si condanni la natura che uccide con le
malattie e i terremoti. Ti conosco abbastanza anche per
evitare di ricordarti che la crudelt della natura e di cer-
te galline contiene una logica e una saggezza: se ogni pos-
sibilit di esistenza diventasse esistenza, morremmo per
mancanza di spazio. Sai meglio di me che nessuno indi-
spensabile, che il mondo se la sarebbe cavata ugualmen-
te se Omero e Icaro e Leonardo da Vinci e Ges Cristo
non fossero nati: il figlio che hai voluto perdere non lascia
vuoti, la sua scomparsa non reca danno n alla societ
n al futuro. Ferisce soltanto te, e oltremisura, perch
il tuo pensiero ha ingigantito un dramma il quale, forse,
non nemmeno un dramma. (Povera cara: hai scoperto
che pensare significa soffrire, che essere intelligenti si-
gnifica essere infelici. Peccato che ti sia sfuggito un terzo
punto fondamentale: il dolore il sale della vita e senza
di esso non saremmo umani.) Non ti scrivo dunque per
compiangerti. Ti scrivo per congratularmi, per ricono-
scere che hai vinto. Ma non perch ti sei scrollata di
dosso la schiavit di una gravidanza e di una maternit:
perch sei riuscita a non cedere al bisogno degli altri,
incluso il bisogno di Dio. Proprio il contrario di ci che
successo a me. Eh, s. L'invidia verso coloro che cre-
dono in Dio mi ha talmente assalito in questi ultimi
mesi da diventar tentazione, ed ho ceduto alla tenta-
zione. Lo riconosco ammettendo la mia stanchezza. Dio
un punto esclamativo con cui si incollano tutti i cocci
rotti: se uno ci crede vuol dire che staneo, che non
ce la fa pi a cavarsela da s. Tu non sei stanca perch
sei l'apoteosi del dubbio. Dio per te un punto interro-
gativo, anzi il primo punto interrogativo di infiniti punti
interrogativi. E solo chi si strazia nelle domande per
trovare risposte, va avanti; solo chi non cede alla como-
dit di credere in Dio per aggrapparsi a una zattera e
riposarsi, pu incominciare di nuovo: per contraddirsi di
nuovo, smentirsi di nuovo, regalarsi di nuovo al dolore.
La nostra amica mi informa che il bambino ancora
dentro di te e rifiuti di liberartene, quasi tu volessi ser-
virti di lui per punire la tua incoerenza e proibirti di
vivere. Suppongo che me ne informi perch ti preghi di
non insistere in questa follia. Anzich pregarti, ti an-
nuncio che non vi insisterai a lungo. Ami troppo la vita
per non avvertirne il richiamo. Quando esso verr, tu
gli obbedirai come quel cane di London che segue i lupi
ululando e diventa lupo con loro .

Infatti domani torniamo a casa. E sebbene la parola
domani mi sembri un'offesa per te, una minaccia per me,
non posso fare a meno di guardarmi intorno ed accor-
germi che domani un giorno colmo di opportunit.

Mi hanno salutato con grande entusiasmo, come se
fossi stata ammalata a un piede o a un orecchio ed ora mi
accmgessl'a trascorrere una convalescenza. Si sono con-
gratulati per il lavoro che son riuscita a condurre a termi-
ne malgrado-le-difficolt. Mi hanno portato a mangiare.
E non una parola su te. Quando ho tentato io, hanno as-
sunto un'aria tra evasiva e imbarazzata: quasi alludessi
a un argomento sgradevole e volessero dirmi non-ci-pen-
siamo-pi-quel-che--stato--stato. Pi tardi la mia ami-
ca m'ha preso da parte e, col tono di ricordarmi un ap-
puntamento importante, ha detto d'essersi consultata col
medico il quale sostiene che non il caso di contare su
una tua partenza spontanea: se non ti faccio togliere,
muoio di setticemia. Bisogner che mi decida: sarebbe
paradossale che, per ristabilir l'equilibrio, tu uccidessi
me. Ho ancora tante cose da fare. Tu non le hai mai in-
cominciate, io invece s. Ho da sviluppare la mia carriera,
ad esempio, e dimostrare che non sono meno brava di un
uomo. Ho da battermi contro le comodit dei punti escla-
mativi, ad esempio, ho da indurre la ~gente a porsi pi
perch. Ho da spegnere la piet per me stessa, e convin-
cere me stessa che il dolore non il sale della vita. Il sale
della vita la felicit, e la felicit esiste: consiste nel darle
la caccia. Infine devo ancora chiarire il mistero che chia-
mano amore. Non quello che si divora in un letto, toccan-
doci. Quello che mi accingevo a conoscer con te. Mi man-
chi, bambino. Mi manchi quanto mi mancherebbe un
braccio, un occhio, la voce: e tuttavia mi manchi meno di
ieri, meno di stamani. E strano. Si direbbe che di ora in ora
il tormento si affievolisca per chiudersi in una parentesi. I
lupi hanno gi incominciato a chiamarmi e non importa
se sono ancora lontani: appena si avvicineranno, me ne
rendo conto, io li seguir. Davvero ho sofferto cos pro-
fondamente ed a lungo? Me lo chiedo con incredulit.
Una volta lessi in un libro che la durezza di una pena
sopportata si avverte soltanto quando ce ne siamo-liberati
e, stupefatti, si esclama: come ho fatto a tollerare un si-
mile inferno? Dev'esser davvero cos, e la vita straordi-
naria. Rimargina le ferite a una velocit folle. Se non re-
stassero le cicatrici, non ci ricorderemmo nemmeno che di
l sgorg il sangue. Del resto perfino le cicatrici svanisco-
no. Impallidiscono e infine svaniscono. Succeder anche a
me. Succeder? Devo riuscirci. Perch lo pretendo, lo esi-
go. Infatti ora stacco il tuo ritratto dal muro, la smetto di
farmi impressionare dai tuoi occhi spalancati. E nascon-
do le altre fotografie, anzi le strappo. E fo a pezzi questa
culla che mi son portata dietro come una bara, la scara-
vento nell'inceneritore. E nascondo il tuo guardaroba per
regalarlo a qualcuno, anzi lo straccio. E prendo l'appunta-
mento col medico, gli dico che sono d'accordo, uno di que-
sti giorni bisogna strapparti via. E magari chiamo tuo pa-
dre o non importa chi, e vado a letto con lui stasera: ne ho
abbastanza della castit. Tu sei morto ma io sono viva.
Cos viva che non mi pento, e non acCetto processi, non
accetto verdetti, neanche il tuo perdono. I lupi sono qui,
vicino, ed io ho la forza di partorirti ancora cento volte
senza implorare soccorso n da Dio n da nessuno... Dio,
che male! Mi sento male, ad un tratto. Cos'? Di nuovo
le coltellate. Si allungano fino al cervello per bucarlo co-
me allora. Sto sudando. Mi sale la febbre. E arrivato il
nostro momento, bambino: il momento di separarci. E
non lo voglio. Non voglio che ti strappino con il cucchia-
io, per gettarti nella pattumiera tra il cotone sporco e le
garze. Non vorrei. Ma non ho scelta. Se non corro al-
L'ospedale perch ti stacchino da queste viscere cui resti
aggrappato, mi ammazzi. E questo non posso permetter-
lo. Non devo. Tu sbagliavi a dire che non credo alla vita,
bambino. Io ci credo, invece. Mi piace, anche con le sue
infamie, e intendo viverla ad ogni costo. Io corro, bam-
bino. E ti dico addio con fermezza.
~r y y

Sopra di me c' un soffitto bianco e accanto a me,
dentro un bicchiere, ci sei tu. Non volevano che ti ve-
dessi ma li ho convinti affermando che era mio diritto
e ti hanno posato l: con una smorfia di disapprova-
zione. Ti guardo, finalmente. E mi sento beffata perch
non hai proprio nulla in comune con il bambino della fo-
tografia. Non sei un bambino: sei un uovo. Un uovo gri-
gio che galleggia in un alcool rosa e dentro il quale non si
scorge nulla. Finisti assai prima che se ne accorgessero:
non arrivasti mai ad avere le unghie e la pelle e le infi-
nite ricchezze che io ti regalavo. Creatura della mia fan-
tasia, riuscisti appena a realizzare il desiderio di due
mani e due piedi, qualcosa che assomigliava ad un cor-
po, L'abbozzo di un volto con un nasino e due microsco-
pici occhi. In fondo amai un pesciolino. E per amore di
un pesciolino mi inventai un calvario in seguito a cui ri-
schio di finire anch'io. E inaccettabile. Ma perch non ti
ho fatto togliere prima? Perch ho perso tanto tempo pre-

zioso lasciando che tu mi avvelenassi? Sto male, sembra-
no tutti allarmati. Mi hanno infilato aghi nel braccio de-

stro e nel polso sinistro, dagli aghi partono tubi sottili che
salgono come serpenti fino ai boccioni. L'infermiera si ag-
gira con passi d'ovatta. Ognitanto entra il dottore con un
altro dottore e si scambiano frasi che non capisco ma che
suonano come minacce. Darei molto perch arrivassero la
mia amica o tuo padre, meglio ancora i miei genitori:
m'era parso di udirne le voci. Invece non viene nessuno
fuorch quei due col camice bianco: uno lo stesso che
mi condann? Un momento fa s' arrabbiato. Ha det-
to: Raddoppiate la dose!. La dose di che? Della pe-
na? L'ho gi scontata, devo ricominciare? Poi ha detto:
Svelti, non capite che se ne va?. Chi se ne va? Un
ago, una persona, la vita? La vita non pu andarsene se
non si vuole: qui non muore nessuno. Nemmeno te, per-
ch sei gi morto. Morto senza sapere cosa significa es-
sere vivo: senza sapere cosa sono i colori, i sapori, gli
odori, i suoni, i sentimenti, il pensiero. Mi dispiace: per
te e per me. Mi umilia. Perch a cosa serve volare come un
gabbiano dentro l'azzurro se non si generano altri gab-
biani che ne genereranno altri ancora ed ancora per vo-
lare dentro l'azzurro? A cosa serve giocare come bam-
bini se non si generano altri bambini che ne genereran-
no altri ancora ed ancora per ~giocare e divertirsi? Do-
vevi resistere. Dovevi combattere, vincere. Hai ceduto
troppo presto, ti sei rassegnato troppo alla svelta: non
eri fatto per la vita. Chi si spaventa per un paio di fia-
be, per due o tre avvertimenti? Eri simile a tuo padre: lui
trova comodo riposarsi in Dio, tu trovasti comodo ripo-
sarti non nascendo. Chi di noi due ha tradito? Non io.
Sono molto stanca, non sento pi le gambe, a intervalli
mi si annebbiano gli occhi e il silenzio m'avvolge come un
ronzio di vespe. Eppure non cedo, io, guarda. Tengo duro,
io, guarda. Siamo talmente differenti. Non devo addor-
mentarmi. Devo stare sveglia e pensare. Se penso, forse,
resisto. Da quando stai in quel bicchiere? Da ore, da gior-
ni, da anni? Magari sono giorni e a me sembrano anni:
non posso lasciarti ancora in un bicchiere. Bisogna che ti
sistemi in un posto pi dignitoso: ma dove? Forse ai piedi
della magnolia. Il fatto che la magnolia lontana: si
trova nel tempo in cui anch'io ero piccina. Il presente non
ha magnolie. Nemmeno la mia casa. Dovrei portarti a
casa. Al mattino, per. Ora notte: il soffitto bianco sta
diventando nero. E fa freddo. Meglio che infili il cappotto
per scendere gi. Via, andiamo: ti porto. Vorrei tenerti
fra le braccia, bambino. Ma sei cos minuscolo: non posso
tenerti fra le braccia. Posso appoggiarti sulla palma di una
mano ed tutto. Purch un colpo di vento non ti rubi. Ecco
una cosa che non capisco: pu rubarti un colpo di vento
e tuttavia pesi tanto, barcollo. Dammi la mano, ti prego-
cos. Bravo. Ecco, ora sei tu che mi conduci, mi guidi
Ma allora non sei un uovo, non sei un pesciolino: sei un
bambino! Mi arrivi gi al ginocchio. No, al cuore. No,
alla spalla. No, al di sopra della spalla. non sei un bam-
bino, sei un uomo ! Un uomo con dita forti e gentili. Ne
ho bisogno ormai: sono vecchia. Non riesco nemmeno a
scendere i gradini se non mi sorreggi. Ricordi quando
andavamo su e gi per questa scala, attenti a non cade-
re, stretti l'uno all'altra in un abbraccio di complicit? Ri-
cordi quando ti insegnavo ad andarci da solo, camminavi
da poco, e contavamo i gradini ridendo? Ricordi come
imparavi aggrappandoti ad ogni sporgenza, ansimando,
mentre io ti seguivo con le mani tese? E il giorno in cui
ci litigammo perch non ascoltavi le mie raccomanda-
zioni? Dopo mi dispiacque. Volevo chiederti scusa ma
non mi riusciva. Ti cercavo di sotto le ciglia e anche tu
mi cercavi di sotto le ciglia finch ti fior sulle labbra un
sorriso e compresi che avevi compreso. Poi cosa accad-
de? Il mio pensiero si appanna, le mie palpebre sem-
brano piombo. E il sonno o la fine? Non devo cedere al
sonno, alla fine. Aiutami a restare sveglia, rispondimi:
fu difficile usare le ali? Ti spararono in molti? Gli spara-
sti a tua volta? Ti oppressero nel formicaio? Cedesti alle
delusioni e alle rabbie oppure rimanesti dritto come un al-
bero forte? Scopristi se c' la felicit, la libert, la bont,
L'amore? Spero che i miei consigli ti siano serviti. Spero
che tu non abbia mai urlato l'atroce bestemmia "perch
sono nato?". Spero che tu abbia concluso che ne valeva la
pena: a costo di soffrire, a costo di morire. Sono cos or-
gogliosa d'averti tirato fuori dal nulla a costo di soffrire, a
costo di morire. Fa davvero freddo e il soffitto bianco ora
proprio nero. Ma siamo arrivati, ecco la magnolia. Co-
gli un fiore. Io non ci sono mai riuscita, tu ci riuscirai. Al-
zati sulla punta dei piedi, allunga un braccio. Cos. Dove
sei? Eri qui, mi sorreggevi, eri ~rande, eri un uomo. E ora
non ci sei pi. C' solo un bicchiere di alcool dentro
cui galleggia qualcosa che non volle diventare un uomo,
una donna, che non aiutai a diventare un uomo, una don-
na. Perch avrei dovuto, mi chiedi, perch avresti dovuto?
Ma perch la vita esiste, bambino ! Mi passa il freddo a
dire che la vita esiste, mi passa il sonno, mi sento io la vita.
Guarda, s'accende una luce. Si odono voci. Qualcuno cor-
re, grida, si dispera. Ma altrove nascono mille, centomila
bambini, e mamme di futuri bambini: la vita non ha bi-
sogno n di te n di me. Tu sei morto. Forse muoio anch'io.
Ma non conta. Perch la vita non muore.
Fine






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