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FINZIONI
Jorge L. Borges

J.L. Borges, La biblioteca di Babele , Einaudi, 1955, p. 79-89. (Trad. di Franco Lucentini; successivamente pubblicato con il tit.: Finzioni)


Tl鰊, Uqbar, Orbis Tertius


I

Debbo la scoperta di Uqbar alla congiunzione di uno specchio e di un抏nciclopedia. Lo specchio inquietava il fondo d抲n corridoio in una villa di via Gaona, a Ramos Mejia; l抏nciclopedia s抜ntitola ingannevolmente The Anglo-American Cyclopaedia (New York 1917), ed una ristampa non meno letterale che noiosa dell扙ncyclopaedia Britannica del 1902. Il fatto accadde un cinque anni fa. Bioy Casares, che quella sera aveva cenato da noi, stava parlando d抲n suo progetto di romanzo in prima persona, in cui il narratore, omettendo o deformando alcuni fatti, sarebbe incorso in varie contraddizioni, che avrebbero permesso ad alcuni lettori - a pochissimi lettori - di indovinare una realtatroce o banale. Dal fondo remoto del corridoio lo specchio ci spiava. Scoprimmo (a notte alta questa scoperta inevitabile) chE gli specchi hanno qualcosa di mostruoso. Bioy Casares ricordallora che uno degli eresiarchi di Uqbar aveva giudicato che gli specchi e la copula sono abominevoli, poichmoltiplicano il numero degli uomini. Interrogato sull抩rigine di questo detto memorabile, rispose che The Anglo-American Cyclopaedia lo registrava nell抋rticolo su Uqbar. Nella villa (che avevamo presa in affitto ammobiliata) c抏ra un esemplare di quest抩pera. Nelle ultime pagine del volume XLVI trovammo un articolo su Uppsala; nelle prime del XLVII, uno su Ural-Alt Languages; ma nemmeno una parola su Uqbar. Bioy, tra deluso e stupito, interrogi tomi dell抜ndice; provinvano tutte le lezioni possibili: Ukbar, Ucbar, Ooqbar, Ookbar, Oukbar... Prima di andarsene, mi disse che si trattava di una regione dell扞rak, o dell扐sia Minore. Confesso che assentii con un certo imbarazzo. Congetturai che quel paese non documentato, quell抏resiarca anonimo, fossero una finzione improvvisata dalla modestia di Bioy per giustificare una frase. L抏same, affatto sterile, d抲no degli atlanti di Justus Perthes, mi confermin questo dubbio. Bioy mi chiamda Buenos Aires. Mi disse che aveva sott抩cchio l抋rticolo su Uqbar, nel volume XLVI dell扙ncyclopaedia. Il nome dell抏resiarca non c抏ra, ma c抏ra bene notizia della sua dottrina, e in parole quasi identiche a quelle citate da lui, sebbene letterariamente inferiori. Lui aveva citato, a memoria: 揅opulation and mirrors are abominable Il testo dell扙ncyclopaedia diceva: 揚er uno di questi gnostici l抲niverso visibile illusione, o - piprecisamente - sofisma; gli specchi e la paternitsono abominevoli (mirrors and fatherhood are abominable) perchlo moltiplicano e lo divulgano Gli dissi, senza mancare alla verit che mi sarebbe piaciuto di vedere codesto articolo. Pochi giorni dopo me lo port Il che mi sorprese, perchgli indici cartografici della Erdkunde di Ritter ignorano completamente l抏sistenza di Uqbar.
Il volume portato da Bioy era effettivamente il XLVI dell扐nglo-American Cyclopaedia. L抜ndicazione alfabetica sul frontespizio e sulla costola era la stessa che nel nostro esemplare (Tor-Ups), ma il volume, invece che di 917 pagine, era di 921. Queste quattro pagine supplementari contenevano l抋rticolo su Uqbar: non previsto (come il lettore avrnotato) dall抜ndicazione alfabetica. Accertammo poi che tra i due volumi non c抏ra, a parte questa, altra differenza; entrambi (come credo di aver indicato) erano ristampe della decima Encyclopaedia Britannica. Bioy aveva comprato il suo esemplare in una qualsiasi vendita all抋sta. Leggemmo l抋rticolo con una certa attenzione. Il solo passo sorprendente era quello citato da Bioy; il resto pareva molto verosimile, molto conforme all抜ntonazione generale dell抩pera e (com掕 naturale) un ponoioso. Rileggendolo, scoprimmo sotto la sua rigorosa scrittura una fondamentale indeterminatezza. Dei quattordici nomi della sezione geografica ne riconoscemmo solo tre (Korassan, Armenia, Erzerum), interpolati nel testo in modo ambiguo; dei nomi storici, uno solo: quello dell抜mpostore Esmerdi il Mago, che perera citato solo per confronto. L抋rticolo sembrava precisare le frontiere di Uqbar, ma i suoi nebulosi luoghi di riferimento erano fiumi, crateri e montagne di quello stesso paese. Leggemmo, per esempio, che il confine meridionale formato dai bassopiani di Tsai Chaldun e dal delta dell扐xa, e che nelle isole di questo delta abbondano i cavalli selvatici. Questo, al principio della pagina 918. Dalla sezione storica (pagina 920), apprendemmo che, in seguito alle persecuzioni religiose del secolo XIII, gli ortodossi cercarono rifugio in quelle isole, dove s抜nnalzano ancora i loro obelischi e dove non raro, scavando, di ritrovare i loro specchi di pietra. La sezione 揕ingua e Letteratura assai breve, conteneva un solo luogo notabile, in cui si diceva che la letteratura di Uqbar era di carattere fantastico, e che le sue epopee come le sue leggende non si riferivano mai alla realt ma alle due regioni immaginarie di Mlejnas e di Tl鰊... La bibliografia comprendeva quattro volumi che finora non c掕 riuscito di trovare, sebbene il terzo - Silas Haslam, History of the Land Called Uqbar, 1874 - figuri nei cataloghi di libreria di Bernard Quaritch . Il primo, Lesbare und lesenswerthe Bemerkungen 黚er das Land Ukkbar in Klein Asien, avrebbe la data del 1641 e sarebbe opera di Johannes Valentinus Andre La cosa significativa un paio d抋nni dopo ritrovai inaspettatamente questo nome in certe pagine di De Quincey (Writings, volume XIII) e seppi che era quello di un teologo tedesco il quale, al principio del secolo XVII, descrisse la comunitimmaginaria della Rosacroce; comunitche altri, poi, fondrealmente sull'esempio di ciche colui aveva immaginato.
Quella stessa sera fummo alla Biblioteca Nazionale. ma invano disturbammo atlanti, cataloghi, annuari di societgeografiche, memorie di viaggiatori e di storici: nessuno era mai stato a Uqbar. Neppure l'indice generale dell'enciclopedia di Bioy registrava questo nome. Il giorno dopo Carlos Mastronardi (cui avevo riferito il caso) adocchiin una libreria le costole in nero e oro della Anglo-American Cyclopaedia... Entre consultil volume XLVI. Naturalmente, non trovla minima traccia di Uqbar.


II

All'Hotel de Adrogu tra i caprifogli effusivi e il fondo illusorio degli specchi, sussiste ancora un qualche ricordo limitato e decrescente di Herbert Ashe, ingegnere dei Ferrocarriles del Sur. In vita, come tanti inglesi, aveva patito d'irrealt morto, non nemmeno piil fantasma che era stato. Alto, disincantato, la sua stanca barba rettangolare era stata rossa. Pare che fosse vedovo, senza figli. Ogni anno o due andava in Inghilterra: per visitare (a quanto giudico da fotografie che ci mostr una meridiana e alcuni roveri. Mio padre aveva stretto con lui (ma il verbo eccessivo) una di quelle amicizie inglesi che cominciano con l'escludere la confidenza e prestissimo omettono la conversazione; solevano scambiarsi libri, e periodici; solevano affrontarsi, taciturnamente, agli scacchi... Lo ricordo nell'atrio dell'albergo, con un libro di matematica in mano, guardando a volte i colori irrecuperabili del cielo. Una sera, stavamo parlando del sistema di numerazione duodecimale (in cui il dodici si scrive dieci); Ashe mi disse che stava traducendo non so che tavole duodecimali in tavole sessagesimali (in cui sessanta si scrive dieci). Aggiunse che questo lavoro gli era stato affidato da un norvegese a Rio Grande do Sul. Otto anni che lo conoscevamo, e non ci aveva mai detto di essere stato laggi.. Parlammo di vita pastorale, di capangas, dell'etimologia brasiliana della parola gaucho (che alcuni vecchi dell'est pronunciano ancora ga鷆ho), e non fu piquestione - Dio mi perdoni - di funzioni duodecimali. Nel settembre 1937 (noi non eravamo in albergo), Herbert Ashe mordella rottura di un aneurisma. Giorni prima aveva ricevuto dal Brasile un pacchetto sigillato e raccomandato. Era un libro in ottavo grande. Ashe l'aveva lasciato al bar, dove - mesi dopo - lo ritrovai. Mi misi a sfogliarlo e provai una vertigine stupita e leggera, che non descriver perchquesta non la storia delle mie emozioni ma la storia di Uqbar, di Tl鰊 e dell'Orbis Tertius. In una notte dell'Islam che chiamano la Notte delle Notti, si spalancano le porte del cielo e l'acqua si fa pidolce nelle brocche; se queste porte, allora, si fossero aperte, non avrei provato quello che provai. Il libro era scritto in inglese ed era di 1001 pagine. Sulla gialla sua costola di cuoio lessi queste parole, che il frontespizio ripeteva: A First Encyclopaedia of Tl鰊. Vol. XI Hlaer to Jangr. Non v'era data nluogo di pubblicazione. La prima pagina e la velina d'una delle tavole portavano un timbro ovale, turchino, con questa iscrizione: Orbis Tertius.
Due anni prima, nelle pagine d'una enciclopedia plagiaria, avevo scoperto la sommaria descrizione d'un falso paese; ora il caso mi recava qualcosa di piprezioso e piarduo. Avevo tra mano, ora, un frammento vasto e metodico della storia totale d'un pianeta sconosciuto, con le sue architetture e le sue guerre, col terrore delle sue mitologie e il rumore delle sue lingue, con i suoi imperatori e i suoi mari, con i suoi minerali e i suoi uccelli e i suoi pesci, con la sua algebra e il suo fuoco, con le sue controversie teologiche e metafisiche. E tutto ciarticolato, coerente. senza visibile intenzione dottrinale o parodica.
L挀undicesimo volumedi cui parlo contiene riferimenti a volumi precedenti e successivi. Nestor Ibarra, in un articolo giclassico della 揘RF nega l'esistenza di questi volumi; Ezequiel Martinez Estrada e Drieu La Rochelle hanno confutato, forse vittoriosamente, questo dubbio. Ma il fatto che, finora, le ricerche pidiligenti sono rimaste senza risultato. Invano abbiamo scompigliato le biblioteche delle due Americhe e d'Europa. Alfonso Reyes, stanco di queste fatiche subalterne e poliziesche, propone che noi si intraprenda in comune l'opera di ricostruire i molti e massicci volumi che mancano: ex ungue leonem. Calcola, un po' sul serio, un po' per scherzo, che una generazione di Tl鰊isti potrebbe bastare. Questo calcolo arrischiato ci riporta al problema fondamentale: chi furono gli inventori di Tl鰊? I1 plurale inevitabile, perchl'ipotesi di un solo inventore - d'un infinito Leibniz operante nelle tenebre e nella modestia - stata scartata all' unanimit Si pensa che questo brave new world sia opera d'una societsegreta di astronomi, di biologi, di ingegneri, di metafisici, di poeti, di chimici, di moralisti, di pittori, di geometri, sotto la direzione di un oscuro uomo di genio. Abbondano, infatti, gli individui che dominano queste discipline, ma non quelli capaci di invenzione, meno quelli capaci di subordinare l'invenzione a un piano rigoroso e sistematico com'il piano di Tl鰊. Questo piano cos vasto che il contributo di ciascuno scrittore dev'essere stato infinitesimale. A1 principio si credette che Tl鰊 fosse un puro caos, una irresponsabile licenza dell' immaginazione; si sa ora che un cosmo, e le intime leggi che lo reggono sono state formulate, anche se in modo provvisorio. Mi basti ricordare che nelle contraddizioni apparenti dell'搖ndicesimo volumes'scorta la prova fondamentale che gli altri volumi esistono: tanto lucido e giusto l'ordine in esso seguito. Le riviste popolari hanno divulgato, con perdonabile eccesso, la zoologia e la topografia di Tl鰊; io penso che le sue tigri trasparenti e le sue torri di sangue non meritino, forse, la continua attenzione di tutti gli uomini. Ma mi arrischio a spendere qualche minuto sulla sua concezione dell抲niverso.
Hume, una volta per tutte, osservche gli argomenti di Berkeley non ammettono la minima replica e non infondono la minima convinzione. Questo giudizio verissimo sulla terra, falsissimo su Tl鰊. Le nazioni di questo pianeta sono - congenitamente - idealiste; il loro linguaggio e le derivazioni del loro linguaggio - religione, letteratura, metafisica, presuppongono l抜dealismo. Il mondo, per coloro, non un concorso di oggetti nello spazio; una serie eterogenea di atti indipendenti; successivo, temporale, non spaziale. Nella congetturale Ursprache di Tl鰊, da cui procedono gli idiomi e i dialetti 揳ttuali non esistono sostantivi; esistono verbi impersonali, qualificati da suffissi (o prefissi) monosillabici con valore avverbiale. Per esempio: non c'una parola che corrisponda alla nostra parola luna, ma c'un verbo che sarebbe da noi luneggiare o allunare. Sorse la luna sul fiume si dice hl鰎 u fang axaxaxas ml cio nell'ordine: verso su (upward) dietro semprefluire luneggi (Xul Solar traduce brevemente: hop, dietro perscorrere lun Upward, behind the onstreaming it mooned)
L'anzidetto si riferisce agli idiomi dell'emisfero australe. In quelli dell'emisfero boreale (sulla cui Ursprache l挀undicesimo volumedpochissime indicazioni) la cellula primordiale non il verbo, ma l'aggettivo monosillabico. Il sostantivo si forma per accumulazione di aggettivi. Non si dice luna: si dice aereo-chiaro sopra scuro rotondo, o aranciato-tenue-dell'altoceleste, o qualsiasi altro aggregato. In questo caso particolare, la massa degli aggettivi corrisponde a un oggetto reale: ma si tratta, appunto, di un caso particolare. Nella letteratura di questo emisfero (come nell'universo sussistente di Meinong) abbondano gli oggetti ideali, convocati e disciolti in un istante secondo, le necessitpoetiche. Determina questi oggetti, a volte, la mera simultaneit alcuni si compongono di due termini, uno di carattere visivo e uno di carattere uditivo: il colore del giorno nascente e il grido remoto d'un uccello; altri di pitermini: il sole e l'acqua contro il petto del nuotatore, il vago rosa tremulo che si vede con gli occhi chiusi, la sensazione dchi si lascia portare da un fiume e, nello stesso tempo, dal sogno. Questi oggetti di secondo grado possono combinarsi con altri; il processo, grazie a certe abbreviazioni praticamente infinito. Vi sono poemi famosi composti d'una sola enorme parola. Questa parola corrisponde a un solo oggetto, l'oggetto poetico creato dall'autore. Dal fatto che nessuno crede alla realtdei sostantivi nasce, paradossalmente, che il numero di questi ultimi interminabile. Gli idiomi dell'emisfero boreale di Tl鰊 possiedono tutti i numeri delle lingue indoeuropee, e molti altri.
Non esagerato affermare che la cultura classica di Tl鰊 comprende una sola disciplina: la psicologia. Le altre le sono subordinate. Ho gidetto che gli abitanti di questo pianeta concepiscono l抲niverso come una serie di processi mentali, che non si svolgono nello spazio, ma successivamente, nel tempo. Spinoza attribuisce alla sua inesauribile diviniti modi del pensiero e dell'estensione; su Tl鰊, nessuno comprenderebbe la giustapposizione del secondo (che caratterizza solo alcuni stati) e del primo, che un sinonimo perfetto del cosmo. In altre parole: non concepiscono che lo spaziale perduri nel tempo. La percezione di una fumata all'orizzonte, e poi della campagna incendiata, e poi della sigaretta mal spenta che provocl'incendio, considerata un esempio di associazione di idee.
Questo monismo o idealismo totale invalida la scienza. Spiegare (o giudicare) un fatto, unirlo a un altro fatto; ma quest'unione, su Tl鰊, corrisponde a uno stato posteriore del soggetto, e non s'applica allo stato anteriore, dunque non lo illumina. Ogni stato mentale irreducibile: il solo fatto di nominarlo - id est, di classificarlo - comporta una falsificazione. Da ci sembrerebbe potersi dedurre che su Tl鰊 non si d鄋no scienze, nragionamenti di sorta. La verit paradossale, che le scienze colesistono, e in numero quasi sterminato. Delle filosofie, nell'emisfero boreale, accade ciche nell'emisfero australe accade dei sostantivi: il fatto che ogni filosofia non possa essere, in partenza, che un gioco dialettico, una Philosophie des Als Ob, ha contribuito a moltiplicarle. Abbondano i sistemi incredibili, ma di architettura gradevole o di carattere sensazionale. I metafisici di Tl鰊 non cercano la verite neppure la verosimiglianza, ma la sorpresa. Giudicano la metafisica un ramo della letteratura fantastica. Sanno che un sistema non altro che la subordinazione di tutti gli aspetti dell'universo a uno qualsiasi degli aspetti stessi.. Ma persino l'espressione 搕utti gli aspetticonfutabile, poichsi fonda su un'impossibile addizione dell'istante presente ai passati; e questo stesso plurale, 搃 passati illecito, perchsuppone un'altra operazione impossibile... Una delle scuole di Tl鰊 nega perfino il tempo: ragiona che il presente indefinito, e che il futuro, il passato non hanno realtche come speranza o ricordo presente. Un'altra scuola afferma che il tempo gitutto trascorso, e che la nostra vita appena il ricordo o riflesso crepuscolare, e senza dubbio falsato e mutilato, di un processo irrecuperabile. Un'altra, che la storia dell'universo - e in esso le nostre vite, i pitenui particolari delle nostre vite - la scrittura che produce un dio subalterno per intendersi con un demonio. Un'altra, che l'universo paragonabile a quelle crittografie in cui non tutti i segni hanno un valore, e che solo vero ciche accade ogni trecento notti. Un'altra ancora, che mentre dormiamo qui, stiamo svegli dall'altra parte, e che dunque ogni uomo due uomini.
Tra le dottrine di Tl鰊, nessuna ha sollevato tanto scalpore come il materialismo. Alcuni pensatori ne hanno dato una formulazione, ma in termini pifervidi che chiari, come chi sa di proporre un paradosso. Per facilitare l'intendimento di una tesi cosinconcepibile, un eresiarca del secolo XI escogitil sofisma delle nove monete di rame, la cui scandalosa rinomanza equivale, su Tl鰊, a quella delle aporie eleatiche. Di questo 搑agionamento speciososi hanno molte versioni, che differiscono quanto al numero delle monete o a quello dei ritrovamenti; ecco la picomune:

Il marted X, tornando a casa per un sentiero deserto, perde nove monete di rame. I1 gioved Y trova sul sentiero quattro monete, un poco arrugginite per la pioggia del mercoled Il venerd Z scopre tre monete sullo stesso sentiero e lo stesso venerd di mattina, X ne ritrova due sulla soglia di casa

Da questa storia l'eresiarca pretendeva dedurre la realt- ciola continuit- delle nove monete recuperate.

assurdo (affermava) immaginare che quattro delle monete non siano esistite dal martedal gioved tre dal martedal venerdpomeriggio, e due dal martedal venerd靈 mattina. logico pensare che esse siano esistite - anche se in un certo modo segreto, di comprensione vietata agli uomini - in tutti i momenti di questi tre periodi.

I1 linguaggio di Tl鰊 si prestava male alla formulazione di questo paradosso; i pinon lo compresero. I difensori del senso comune si limitarono, al principio, a negare la veracitdella storia. Ripeterono che si trattava di un inganno verbale, fondato sull'impiego temerario di due voci neologiche, non consacrate dall'uso ed estranee ad ogni pensare severo: i verbi trovare e perdere, che comportavano, qui, una petizione di principio, poichsupponevano l抜dentitdelle prime nove monete e delle seconde.- Rammentarono che ogni sostantivo (uomo, moneta, gioved mercoled pioggia) non ha che un valore metaforico. Denunciarono la perfida circostanza di quell'搖n poco arrugginite per la pioggia del mercoled鞌, che presuppone ciche si tratta di dimostrare: la persistenza delle quattro monete tra il martede il gioved Osservarono che altro uguaglianza, altro identit e prospettarono, in guisa di reductio ad absurdum, il caso ipotetico di nove uomini che in nove notti successive provano un vivo dolore. Non sarebbe assurdo - chiesero - pretendere che questo dolore sia lo stesso? . Aggiunsero che l'eresiarca era stato mosso unicamente dal proposito blasfemo di attribuire la divina categoria dell抏ssere ad alcune semplici monete; e rilevarono che colui a volte negava la pluralit altre no. Se l'uguaglianza comporta identit- argomentarono - bisognerebbe anche ammettere che le nove monete sono una moneta sola.
Incredibilmente, questi argomenti non riuscirono a una confutazione definitiva. A cento anni dall抏nunciazione del problema, un pensatore non meno brillante dell'eresiarca, ma di tradizione ortodossa, formulun'ipotesi molto audace. Secondo questa felice congettura, - v'un solo soggetto: questo soggetto indivisibile ciascuno degli esseri dell'universo, i quali sono organi e maschere della divinit X Y ed Z. Z scopre tre monete perchricorda che X le ha perdute; X ne trova due sulla soglia perchricorda che le altre sono state recuperate... L'搖ndicesimo tomolascia capire che la vittoria completa di questo panteismo idealista si dovette a tre ragioni fondamentali: primo, il ripudio del solipsismo; secondo, la possibilitdi conservare la base psicologica delle scienze; terzo, la possibilitdi conservare il culto degli d鑙. Schopenhauer (l'appassionato e lucido Schopenhauer) formula una dottrina molto simile nel primo volume dei Parerga und Paralipomena.
La geometria di Tl鰊 comprende due discipline abbastanza distinte: la visiva e la tattile. La seconda corrisponde alla nostra, ed subordinata alla prima. La base della geometria visiva la superficie, non il punto. Questa geometria ignora le parallele e dichiara che l'uomo che si sposta modifica le forme che lo circondano. Base di quell'aritmetica la nozione di numero indefinito. Accentuano l抜mportanza dei concetti di maggiore e minore, che i nostri matematici simboleggiano con > e <. Affermano che loperazione del contare modifica le quantite le trasforma da indefinite in definite. Il fatto che vari individui, i quali calcolino una stessa quantit giungano a risultati eguali, per gli psicologi un esempio di associazione di idee o di buon eserc靭io della memoria Sappiamo gi infatti, che in Tl鰊 il soggetto della conoscenza unico ed eterno.
L'idea del soggetto unico informa anche completamente, gli abiti letterari. raro che i libri siano f韗mati. La nozione di plagio non esiste: s'stabilito che tutte le opere sono opere d'un solo autore, atemporale e anonimo. La critica suole inventare autori: sceglie due opere dissimili - il Tao Te King e Le mille e una notte, diciamo, - le attribuisce a uno stesso scrittore e passa subito a determinare con diligenza, la psicologia di questo interessante homme de lettres...
Non meno indifferenziati sono i libri. Quelli di narrativa hanno tutti lo stesso argomento, con tutte le permutazioni immaginabili. Quelli di carattere filosofico contengono invariabilmente la tesi e l'antitesi, il rigoroso pro e contra di ciascuna dottrina. Un libro che non includa il suo antilibro considerato incompleto.
Secoli e secoli di idealismo non hanno mancato di influire sulla realt Non infrequente, nelle regioni piantiche di Tl鰊, la duplicazione degli oggetti perduti. Due persone cercano una matita; la prima la trova, e non dice nulla; la seconda trova una seconda matita, non meno reale, ma meno attagliata alla sua aspettativa. Questi oggetti secondari si chiamano hr鰊ir, e sono, sebbene di forma sgraziata, un poco pilunghi. Fino a non molto tempo fai i hr鰊ir furono creature casuali della dimenticanza e della distrazione. Alla loro produzione metodica - sembra impossibile, ma cosafferma l'搖ndicesimo volume- non s'giunti che da cento anni. I primi tentativi furono sterili. Il modus operandi merita d'essere ricordato. I1 direttore di una delle carceri dello stato comunicai detenuti che nell'antico letto d'un fiume v'erano certi sepolcri, e promise la liberta chi facesse un ritrovamento importante. Durante i mesi che precedettero gli scavi, furono mostrate ai detenuti fotografie di ciche dovevano ritrovare. Questo primo tentativo mostrche la speranza e l'aviditpossono costituire una inibizione; in una settimana di lavoro con la pala e con il piccone, non si riuscad esumare altro hr鰊 che una ruota rugginita, di data anteriore all'esperimento. La cosa fu mantenuta segreta e fu poi ripetuta in quattro istituti di educazione. In tre l'insuccesso fu quasi completo, nel quarto (il cui direttore morcasualmente durante i primi scavi) gli scolari esumarono - o produssero - una maschera d抩ro, una spada arcaica, due o tre anfore di coccio, e il torso verdastro e mutilato d抲n re, recante sul petto un抜scrizione che non s'ancora potuta decifrare. Si scoprin tal modo come la presenza di testimoni, a conoscenza del carattere sperimentale della ricerca, costituisca una controindicazione... Le investigazioni in massa producono oggetti contraddittori; oggi si preferiscono i lavori individuali e quasi improvvisati. La produzione metodica (dice l挀undicesimo volume ha reso servizi prodigiosi agli archeologi. Essa ha permesso di interrogare e perfino di modificare il passato, divenuto non meno plastico e docile dell'avvenire. Fatto curioso: i hr鰊ir di secondo e di terzo grado,- i hr鰊ir derivati da un altro hr鰊; quelli derivati dal hr鰊 di un hr鰊 - esagerano le aberrazioni del hr鰊 iniziale; quelli di quinto ne sono quasi privi; quelli di nono si confondono con quelli di secondo; quelli di undicesimo hanno una purezza di linee non posseduta neppure dall'originale. Il processo periodico: il hr鰊 di dodicesimo grado comincia gidi nuovo a decadere. Pistrano e pi puro di ogni hr鰊 talvolta l'ur la cosa prodotta per suggestione, l抩ggetto evocato dalla speranza. La gran maschera d抩ro cui ho accennato ne un illustre esempio.
Le cose, su Tl鰊, si duplicano; ma tendono anche a cancellarsi e a perdere i dettagli quando la gente le dimentichi. classico l'esempio di un'antica soglia, che perdurfinchun mendicante venne a visitarla, e che alla morte di colui fu perduta di vista. Talvolta pochi uccelli, un cavallo, salvarono le rovine di un anfiteatro.


Salto Oriental, 1940


Poscritto del 1947. Ho riprodotto l'articolo precedente come apparve nell'Antologia de la literatura fant醩tica 1940, senz'altra esclusione che di alcune metafore e d'una specie di riassunto burlesco che oggi risulterebbe fuori di luogo. Sono accadute tante cose da allora... Mi limitera farne cenno.
Nel marzo 1941, in un libro di Hinton che era appartenuto a Herbert Ashe, si trovuna lettera manoscritta di Gunnar Erfjord. La busta recava il timbro postale di Ouro Preto; la lettera chiariva interamente il mistero di Tl鰊. I1 suo testo conferma le ipotesi di Mart韓ez Estrada. La splendida storia cominciuna notte di Lucerna o di Londra, al principio del secolo XVII. Una societsegreta e benevola (che conttra i suoi aff韑iati Dalgarno, e poi George Berkeley) sorse per inventare un paese. Nel vago programma iniziale figuravano gli 搒tudi ermetici la filantropia e la cabala. A questo primo periodo risale il curioso libro di Andre In capo ad alcuni anni di conciliaboli e di sintesi premature, si comprese che una generazione non bastava per articolare un paese. Si decise che ciascuno dei maestri che formavano la societsi sarebbe scelto un discepolo per la continuazione dell'opera. Questo ordinamento ereditario venne osservato. Poi, dopo uno iato di due secoli, la confraternita risorge in America. Nel 1824, a Memphis (Tennessee) uno degli affiliati parla con l'ascetico milionario Ezra Buckley. Quest'ultimo lo sta a sentire con un certo sprezzo e si ride della modestia del progetto. Dice che in America assurdo inventare un paese e propone l'invenzione di un pianeta. A questa idea gigantesca ne aggiunge un'altra, figlia del suo nichilismo : quella di mantenere il silenzio sull'enorme impresa. Circolavano allora i venti volumi della prima Encyclopaedia Britannica; Buckley suggerisce un'enciclopedia metodica del pianeta illusorio. Lasceral pianeta i suoi filoni auriferi, i suoi fiumi navigabili, le sue praterie solcate dal toro e dal bisonte, i suoi negri, i suoi postriboli e i suoi dollari, ma a una condizione: 揕'opera non patteggercon l'impostore GesCristo Buckley nega Dio, ma vuole dimostrare al Dio inesistente che gli uomini mortali sono capaci di concepire un mondo. Buckley muore avvelenato a Baton Rouge, nel 1828. Nel 1914 la societrimette ai suoi collaboratori, che sono trecento, l抲ltimo volume della prima Encyclopaedia di Tl鰊. La pubblicazione resta segreta: i suoi quaranta volumi (l'opera pivasta che mai si sia compiuta dagli uomini) dovranno servire di base a una altr'opera piminuziosa, redatta non piin inglese, ma in una delle lingue di Tl鰊. Questa revisione di un mondo illusorio si chiama provvisoriamente Orbis Tertius, e uno dei suoi modesti demiurghi fu Herbert Ashe, non so se come agente di Gunnar Erfjord o come affiliato. Il fatto che egli ricevesse l挀undicesimo volumesembra favorire la seconda ipotesi. Ma gli altri volumi? A cominciare dal 1942, i fatti si moltiplicarono. Ricordo con singolare nettezza uno dei primi, e mi pare che sentii qualcosa del suo carattere premonitore. Accadde in un appartamento della via Laprida, dinanzi a un chiaro e alto balcone aperto sul tramonto. La principessa de Faucigny Lucinge aveva ricevuto da Poitiers il suo vaseIlame d'argento. Dal vasto fondo di un cassone costellato di etichette internazionali, venivano tratti alla luce oggetto fini e immobili: argenteria di Utrecht e di Parigi con una dura fauna araldica, un samovar. Tra il vasellame -con un percettibile e tenue tremore di uccello addormentato - palpitava misteriosamente una bussola. La principessa non la riconobbe. L'ago turchino anelava al nord magnetico; la cassa di metallo era concava; le lettere del quadrante erano d'uno degli alfabeti di Tl鰊. Fu questa la prima intrusione del mondo fantastico nel mondo reale. Della seconda, per un caso che m'inquieta, fui ancora testimone io stesso. Accadde alcuni mesi dopo, nel bazar di un brasiliano, alla Cuchilla Negra. Amorim e io tornavamo da Sant'Anna. Una piena del fiume Tacuarembci obbliga provare (e a sopportare) quella rudimentale ospitalit Il brasiliano ci sistemdue brande cigolanti in uno stanzone ingombro di botti e di cuoiami. Ci coricammo, ma ci tennero svegli fino all'alba le escandescenze d'un vicino invisibile, che pareva ubriaco e alternava bestemmie inestricabili con frammenti di canzoni lamentose: o meglio, con frammenti d'una sola canzone lamentosa. Com掕 naturale attribuimmo quell'insistente baccano all'amicizia del padrone per il proprio vino... Ma all'alba, trovammo l'uomo morto nel corridoio. L'asprezza della sua voce ci aveva ingannato: era appena un ragazzo. Nel delirio, gli erano cadute dalla cintura alcune monete e un cono di metallo lucente, del diametro di un dado. Un bambino, che volle raccogliere questo cono, non ci riusc Un uomo lo sollev ma con gran fatica. Io lo tenni in mano per alcuni minuti e ricordo il suo peso intollerabile, che perduranche dopo che l抏bbi lasciato. Ricordo anche il cerchio preciso che mi scolpsul palmo. Il fenomeno d'un oggetto cosi piccolo, e nello stesso tempo cospesante, lasciava un'impressione spiacevole, di sgomento e di paura. Un contadino propose di gettarlo nel fiume tumultuoso. Amorim lo acquistper pochi pesos. Nessuno sapeva nulla del morto, tranne che 搗eniva dalla frontiera Questi coni piccoli e pesantissimi (fatti d'un metallo che non di questo mondo) sono l抜mmagine della divinitin certe religioni di Tl鰊.
Do qui termine alla parte personale della mia relazione, Il resto ginella memoria (o nella speranza, o nel timore) di tutti i miei lettori. Mi basterdi rammentare i fatti seguenti, con parole brevi che s'arricchiranno e amplieranno nel concavo ricordo comune. Nel 1944, un reporter del quotidiano 揟he American(di NashviIle, Tennessee) scovin una biblioteca di Memphis i quaranta volumi della prima Encyclopaedia di Tl鰊. Ma si discute tuttora sulla natura della scoperta: se sia stata casuale, o se l抋bbiano consentita i direttori dell抋ncora nebuloso Orbis Tertius. L'ipotesi piverosimile la seconda. Nell'esemplare di Memphis; alcuni passi incredibili dell'搖ndicesimo volume(quelli, per esempio, sulla moltiplicazione dei hr鰊ir) sono stati eliminati o attenuati; ragionevole pensare che queste correzioni corrispondano all'intenzione di presentare un mondo non troppo incompatibile con il mondo reale. La disseminazione di oggetti di Tl鰊 nei diversi paesi farebbe parte dello stesso piano... . I1 fatto che il 搑itrovamentoha avuto nella stampa internazionale un'eco infinita. Manuali, antologie, riassunti, versioni letterali, ristampe autorizzate e non autorizzate di questo Opus Majus del Genere Umano hanno inondato e continuano a inondare la terra. Quasi immediatamente, la realtha ceduto in pipunti. Quel ch'certo, che anelava di cedere.
Dieci anni fa, bastava una qualunque simmetria con apparenza di ordine - il materialismo dialettico, l抋ntisemitismo, il nazismo - per mandare in estasi la gente. Come, allora, non sottomettersi a Tl鰊, alla vasta e minuziosa evidenza di un pianeta ordinato? Inutile rispondere che anche la realtordinata. Sarmagari ordinata, ma secondo leggi divine - traduco: inumane - che non finiamo mai di scoprire. Tl鰊 sarun labirinto, ma e un labirinto ordito dagli uomini, destinato a essere decifrato dagli uomini.
Il contatto con Tl鰊, l'assuefazione ad esso hanno disintegrato questo mondo. Incantata dal suo rigore, l抲manitdimentica che si tratta d'un rigore di scacchisti, non di angeli. gipenetrato nelle scuole l'搃dioma primitivo(congetturale) di Tl鰊; e l'insegnamento della sua storia armoniosa (e piena di episodi commoventi) ha giobliterato quella che presiedette alla mia infanzia: gi nelle memorie, un passato fittizio occupa il luogo dell'altro, di cui nulla sapevamo con certezza... neppure se fosse falso. Sono state riformate la numismatica, la farmacologia e l抋rcheologia. Suppongo che la biologia e le matematiche attendano anch'esse il proprio avatar... Una sparsa dinastia di solitari ha cambiato la faccia del mondo. I lavori continuano. Se le nostre previsioni non errano, tra un centinaio d'anni qualcuno scopriri cento volumi della seconda Encyclopaedia di Tl鰊.
Allora spariranno dal pianeta l'inglese e il francese e il semplice spagnolo. I1 mondo sarTl鰊. Io non me ne curo, io continuo a rivedere, nelle quiete giornate dell扝otel de Adrogu un'indecisa traduzione quevediana (che non penso di dare alle stampe) dell'Urn Burial di Browne.


L'accostamento ad Almotasim


Philip Guedalla scrive che il romanzo The Approach to Al-Mu抰asim dell'avvocato Mir Bahadur Al di Bombay, 撹 una combinazione piuttosto disagevole (rather uncomfortable combination) di quei poemi allegorici dell'Islam che mancano raramente di interessare i loro traduttori e di quei romanzi polizieschi che inevitabilmente superano John H. Watson e perfezionano l'orrore della vita umana nei pidistinti alberghi di Brighton In precedenza, Mr Cecil Roberts aveva denunciato nel libro di Bahadur 搇a duplice, inverosimile tutela di Wilkie Collins e dell'illustre poeta persiano del secolo XIII Ferid Eddin Attar pacata osservazione che Guedalla riprende senza novit ma col linguaggio incollerito. In sostanza, i due critici sono d'accordo; entrambi segnalano il meccanismo poliziesco dell'opera, e la sua undercurrent mistica. Questo ibridismo potrebbe farci supporre una parentela con Chesterton, ma come vedremo, la supposizione sarebbe errata.
L'editio princeps dell'Accostamento ad Almotasim usca Bombay sulla fine del 1932. Era stampata su una carta che era quasi carta da giornale e la copertina annunciava all抋cquirente trattarsi del primo romanzo poliziesco scritto da un nativo di Bombay City. In pochi mesi, il pubblico ne esaurquattro ristampe di mille esemplari ciascuna. La 揃ombay Quarterly Review la 揃ombay Gazette la 揅alcutta Review la 揌industan Review(di Allahabad) e il 揅alcutta Englishmansi profusero in ditirambi. Bahadur pubblicallora un'edizione illustrata che intitolThe Conversation with the Man Called Al-Mu抰asim, con questo felice sottotitolo: A Game with Shifting Mirrors (Un gioco di specchi mobili). questa l'edizione ristampata ora a Londra da Victor Gollancz, con prefazione di Dorothy L. Sayers e con omissione - forse misericordiosa -: delle illustrazioni. L'ho sott'occhio; non sono riuscito a procurarmi la prima, che suppongo molto superiore. A questa supposizione mi autorizza un'appendice, che riassume le divergenze piimportanti tra la stesura originale del 1932 e quella del 1934. Prima di esaminare l'opera e di discuterne i meriti, mi converrindicarne il corso generale.
Il protagonista visibile - di cui non ci viene mai detto il nome - uno studente in legge di Bombay. Sacrilegamente, costui ha rigettato la fede islamica dei suoi padri; ma ecco, sul declinare della decima notte della luna di muharram, si trova nel centro di una zuffa tra musulmani e ind 'una notte di tamburi e di invocazioni, tra la moltitudine inquieta, i grandi pali di carta della processione musulmana s'aprono lentamente la strada. D'un tratto vola una tegola da una terrazza ind qualcuno affonda un pugnale in un ventre; qualcuno - musulmano? ind - cade e muore: calpestato. Tremila uomini s'accapigliano: bastone contro rivoltella, oscenitcontro imprecazione, Dio l'Indivisibile contro gli D鑙. Attonito, lo studente libero pensatore entra nel tumulto. Con le disperate mani uccide un ind(o pensa d'averlo ucciso). Tonante, equestre, mezzo addormentata, la polizia del Sirkar interviene con grandi scudisciate imparziali. Fugge, quasi di sotto le zampe dei cavalli il nostro studente. Raggiunge l'ultima periferia. Scavalca due scarpate di ferrovia, o due volte la stessa scarpata. Scala il muro di un giardino in sfacelo, con una torre circolare nel fondo. Un branco di cani color di luna (a lean and evil mob of mooncoloured hounds) emerge dai neri rosai. Lo studente braccato cerca rifugio sulla torre. S抋rrampica per una scala di ferro (mancano alcune traverse), e sull抲ltima piattaforma - che ha un pozzo annerito al centro - s抲rta in un uomo squallido, che sta orinando vigorosamente al chiaro di luna. Costui gli confida la sua professione: rubare i denti d'oro ai cadaveri vestiti di bianco che i parsi lasciano su questa torre. Dice altre cose nefande e fa capire che, da quattordici notti, non si purifica picon sterco di bufalo. Parla con evidente rancore di certi ladri di cavalli di Guzerat, 搈angiatori di cani e di lucertole, uomini insomma cosinfami quanto noi due Raggiorna; nell'aria un volo basso di avvoltoi. Lo studente, stremato, s抋ddormenta. Quando si sveglia il sole gialto, e il ladro sparito; sono anche sparite alcune rupie d'argento e un paio di sigarette di Trichinopoli. Di fronte alle minacce proiettate dalla notte precedente, lo studente decide di perdersi per le strade dell'India. Pensa che s'mostrato capace di uccidere un idolatra, ma non di sapere con certezza se il musulmano ha piragione dell'idolatra. Ha ancora nell'orecchio il nome di Guzerat, e quello di una Malka-sansi (donna della casta dei ladri) di Palampur, oggetto preferito delle imprecazioni e dell'odio del profanatore di cadaveri. Ragiona che il rancore d'un uomo cosnefando onora la donna che ne oggetto. Risolve - senza grande speranza - di cercarla. Prega, e intraprende con sicura lentezza il lungo cammino. Qui finisce il secondo capitolo del libro.
Le peripezie dei diciannove capitoli restanti, impossibile riassumerle. V'un vertiginoso pullulare di dramatis personae, per non parlare d'una biografia che sembra esaurire i moti dello spirito umano (dall抜nfamia alla speculazione matematica) e d'una peregrinazione che abbraccia la vasta geografia dell'Indostan. La storia cominciata a Bombay passa sui bassopiani di Palampur, si trattiene un pomeriggio e una notte presso la porta di pietra di Bikanir, cospira nel palazzo multiforme di Katmand prega e fornica nel fetore pestilenziale del Machua bazar di Calcutta, guarda nascere i giorni sul mare da un ufficio del catasto di Madras, guarda morire le sere sul mare da un balcone nello stato di Trevancor, vacilla e uccide a Indapur, e conchiude la sua orbita di leghe e di anni nella stessa Bombay, a pochi passi dal giardino dei cani color di luna. L抋rgomento questo: un uomo - lo studente incredulo e fuggiasco che conosciamo - cade tra gente della classe pivile, e si adatta ad essa in una specie di gara di infamie. D抲n colpo - con lo spavento miracoloso di Robinson dinanzi all抩rma di un piede umano sulla sabbia - s抋ccorge d抲na certa attenuazione di quest'infamia: d'un intenerimento, d抲na esaltazione, d'un silenzio, in uno di quegli uomini abominevoli. 揊u come se fosse entrato nel dialogo, come terzo, un interlocutore picomplesso Sa che l抲omo vile con cui sta conversando incapace di questo momentaneo decoro; ne deduce che quel che ha scorto in colui il riflesso d'un amico, o di un amico d'un amico. Ripensando il problema, giunge a un convincimento misterioso: 揑n un qualche punto della terra v'un uomo da cui procede questa chiarit in un qualche punto della terra sta l抲omo che uguale a questa chiarit鄶. Risolve di dedicare la propria vita alla sua ricerca.
Gis抜ntravede l'argomento generale: l抜nsaziabile ricerca di un抋nima attraverso i delicati riflessi che essa ha lasciato nelle altre: al principio, la traccia tenue d'un sorriso o d抲na parola; poi, splendori diversi e crescenti della ragione, dell抜mmaginazione e del bene. A misura che gli uomini interrogati han conosciuto pida presso Almotasim, maggiore in essi la proporzione divina, ma si comprende che restano semplici specchi. La tecnica matematica qui applicabile: il denso romanzo di Bahadur una progressione ascendente, il cui termine finale il presentito 搖omo che si chiama Almotasim L'antecedente immediato di Almotasim un libraio persiano di somma cortesia e letizia, il predecessore di questo libraio un santo... Dopo lunghi anni lo studente giunge a una galleria, in fondo alla quale una porta, e da quella porta, attraverso una tenda a perline da pochi soldi, filtrava uno splendore Lo studente batte due volte le mani, chiede di Almotasim. Una voce d'uomo - l'incredibile voce di Almotasim - lo invita a entrare. Lo studente scosta la tenda e avanza. Qui termina il romanzo.
Se non m'inganno, per portare a buon fine una tale impresa, lo scrittore avrebbe dovuto soddisfare a due obblighi: primo; variare l'invenzione dei tratti profetici; secondo, fare dell'eroe prefigurato in questi tratti altra cosa che una mera convenzione o un mero fantasma. Bahadur ha soddisfatto al primo, ma non so se anche, o in che misura, al secondo. In altri termini: l'inaudito e mai visto Almotasim dovrebbe lasciarci l'impressione d'un personaggio reale, non di un disordine di superlativi insipidi. Nella stesura del 1932 le notazioni soprannaturali sono meno abbondanti: 搇'uomo detto Almotasimtiene alquanto del simbolo, ma non privo di tratti personali, idiosincrasici. Disgraziatamente, questa buona condotta letteraria non dur Nella versione del 1934 - quella che ho sott抩cchio - il romanzo scade ad allegoria: Almotasim l'emblema di Dio, e i puntuali itinerari del protagonista corrispondono scopertamente ai progressi di un'anima nell'ascesa mistica. Non mancano i dettagli affliggenti: un giudeo negro di Kochin che parla di Almotasim dice che ha la pelle scura; un cristiano lo immagina sopra una torre con le braccia aperte, un lama rosso lo ricorda seduto, 搒imile a quest抜mmagine di manteca di yak che modellai e adorai nel monastero di Tashilhunpo Queste notazioni vorrebbero introdurre un Dio unitario che s'accomoda delle diseguaglianze degli uomini. L'idea, a mio parere, poco stimolante. Non dirlo stesso d'un'altra idea, o congettura: quella che lo stesso Onnipotente sia in cerca di Qualcuno, e questo Qualcuno di Qualcun' Altro superiore (o comunque imprescindibile, anche se uguale), e cosdi seguito fino alla Fine - o meglio, al Senza fine - del Tempo, o in forma ciclica. Almotasim (nome di quell'ottavo Abbaside che vinse otto battaglie e generotto maschi e otto femmine, lasciottomila schiavi e regnotto anni, otto lune e otto giorni) significa etimologicamente il cercatore di rifugio. Nella versione del 1932, il fatto che la meta del pellegrinaggio fosse un altro pellegrinaggio rendeva felicemente ragione della difficoltdi raggiungerla; in quella del 1934, lo stesso fatto dluogo alla teologia stravagante di cui s'parlato. Mir Bahadur Al l'abbiamo visto, incapace di sottrarsi alla pigoffa delle tentazioni dell'artista: quella di essere un genio.
Rileggendo ciche ho scritto, temo di non aver messo in sufficiente risalto i meriti del libro. Vi sono tratti molto fini: per esempio, una certa disputa del capitolo XIX in cui s抜ndovina un amico di Almotasim nel contendente che non ribatte i sofismi dell'altro 損er non aver ragione in modo trionfale
opinione comune che derivare da un libro antico, per un libro attuale, sia cosa di molto merito; forse perchnon piace a nessuno (come disse Johnson) dovere qualcosa ai propri contemporanei. I ripetuti ma insignificanti contatti delI'Ulysses di Joyce con l扥dissea omerica continuano a suscitare - non capirmai perch- l'attonita ammirazione della critica; quelli del romanzo di Bahadur con il venerato Colloquio degli uccelli di Farid ud-din Attar riscuotono il non meno misterioso applauso di Londra, e anche di Calcutta e Allahabad. Non mancano altre derivazioni. Alcuni hanno rilevato certe analogie tra la prima scena del romanzo e il racconto di Kipling On the City Wall; Bahadur le riconosce, ma aggiunge che sarebbe ben strano se due descrizioni della decima notte di muharram non coincidessero... Eliot, con piragione, ricorda i settanta canti dell抜ncompleta allegoria The Fa雛ie Queene, in cui - com'osservato in una nota di Richard William Churci (Spencer, 1879) - l'eroina, Gloriana, non compare neppure una volta. Io, con tutta modestia, segnalo un precursore lontano e possibile: i1 cabalista di Gerusalemme, Isaac Luria, che predicla dottrina dellIbb鹯, ossia dell'anima di un maestro o antenato che s'infonde nell'anima di uno sventurato, per confortarlo e istruirlo.

Pierre Menard, autore del Chisciotte

a Silvina Ocampo .


L'opera visibile lasciata da questo romanziere di facile e breve enumerazione. Sono pertanto imperdonabili le omissioni e le aggiunte perpetrate da Madame Henri Bachelier in un elenco ingannevole che un certo giornale la cui tendenza protestante non un segreto per nessuno, ha avuto la sconsiderazione di presentare ai suoi deplorevoli lettori. Gli amici veri di Menard hanno visto questo catalogo con allarme, e anche con una certa tristezza. Non molto - e sembra ieri - che ci riunimmo dinanzi al marmo finale, tra i cipressi infausti, e gil'Errore cerca di appannare la sua Memoria... decisamente, una breve rettifica s抜mpone.
So che molto facile contestare la mia povera autorit Mi si consenta dunque di citare due alti testimoni. La baronessa di Bacourt (ai cui vendredis indimenticabili ebbi l抩nore di conoscere il compianto poeta) ha tenuto ad approvare le righe che seguono. La contessa di Bagnoregio, uno degli spiriti pifini del Principato di Monaco (e ora di Pittsburgh, Pennsylvania, dopo le sue recenti nozze col filantropo internazionale Simon Kautzsch), ha sacrificato 揳lla verite alla morte(sono le sue parole) con la signorile riserva che la distingue, e, in una lettera aperta pubblicata dalla rivista 揕uxe mi concede anch抏ssa il suo beneplacito. Questi titoli di nobilt credo, non sono insufficienti.
Ho detto che l'opera visibile di Menard facilmente enumerabile. Esaminati con zelo gli archivi personali del poeta, ho potuto stabilire che essa comprende gli scritti seguenti:
a) un sonetto simbolista pubblicato due volte (con varianti) dalla rivista 揕a conque(numeri di marzo e di ottobre del 1899;
b) una monografia sulla possibilitdi compilare un dizionario poetico di concetti che non siano sinonimi o perifrasi di quelli che informano il linguaggio comune, 搈a oggetti ideali creati secondo una convenzione, e destinati essenzialmente alle necessitpoetiche(N頼es 190l);
c) una monografia su 揷erte connessioni affinitdel pensiero di Descartes, di Leibniz e di John Wilkins(N頼es 1903);
d) una monografia sulla Characteristica universalis di Leibniz (N頼es 1904)
e) un articolo tecnico sulla possibilitdi arricchire i1 gioco degli scacchi eliminando uno dei pedoni di torre. Menard propone, raccomanda, discute, e finisce per rigettare questa innovazione;
f) una monografia sull'Ars mogna generalis di Raimondo Lullo (N頼es 1906);
g) una traduzione con prefazione e note del Libro de la invenci髇 liberal y arte del juego del axedrez di Ruy L髉ez de Segura (Paris 1907);
h) appunti per una monografia sulla logica simbolica di George Boole;
i) un esame delle leggi metriche essenziali della prosa francese, illustrato con esempi di Saint-Simon (揜evue de langues romanes Montpellier, ottobre 1909);
j) una replica a Luc Durtain (che aveva negato l抏sistenza di tali leggi) illustrata con esempi di Luc Durtain (揜evue de langues romanes Montpellier, dicembre 1909);
k) una traduzione manoscritta della Aguja de navegar ocultos di Quevedo, col titolo La Boussole des Pr閏ieux;
l) una prefazione al catalogo dellesposizione di litografie di Carolus Hourcade (N頼es 1914);
m) l抩pera Les probl鑝es d'un probl鑝e (Paris 1917) che discute nell'ordine cronologico le soluzioni dell抜llustre problema di Achille e della tartaruga. Di questo libro sono state pubblicate finora due edizioni; la seconda porta in epigrafe il consiglio di Leibniz: 揘e craignez point, monsieur, la tortue e i capitoli dedicati a Russell e a Descartes vi appaiono sostanzialmente rimaneggiati;
n) un'analisi minuziosa dei 揷ostumi sintatticidi Toulet (揘RF marzo 1921). Menard -ricordo - affermava che il censurare e il lodare sono operazioni sentimentali, che nulla hanno a che vedere con la critica;
o) una trasposizione in alessandrini del Cimeti鑢e marin di Paul Val閞y (揘RF gennaio 1928);
p) un'invettiva contro Paul Val閞y, nelle Feuilles pour la suppression de la r閍litdi Jacques Reboul. (Quest抜nvettiva - sia detto tra parentesi - giusto il contrario di ciche Menard pensava di Valery. Quest'ultimo l'intese appunto in tal modo, e l抋ntica amicizia tra i due non corse pericolo);
q) una 揹efinizionedella contessa di Bagnoregio, nel 搗ittorioso volume- l'espressione di un altro collaboratore, Gabriele d扐nnunzio - che questa signora pubblica annualmente per rettificare le inevitabili falsificazioni del giornalismo e presentare 揳l mondo e all扞taliaun抋utentica effigie della sua persona, tanto esposta (in causa stessa della sua bellezza e della sua operosit alle interpretazioni erronee o affrettate;
r) un ciclo di ammirabili sonetti per la baronessa di Bacourt (1934);
s) una lista manoscritta di versi che debbono la loro efficacia alla punteggiatura

Fin qui (senz抋ltra omissione che di qualche vago sonetto di circostanza per l抩spitale - o avido - album di Madame Henri Bachelier) l抩pera visibile di Menard, nell抩rdine cronologico. Vediamo ora la sotterranea, l抜nfinitamente eroica, l'impareggiabile. Che anche - ahi, limiti dell抲omo! - l抜ncompiuta. Quest'opera, forse la pisignificativa del nostro tempo, consta dei capitoli IX e XXXVIII della prima parte del Don Chisciotte, e di un frammento del capitolo XXII. So che una tale affermazione ha tutta l抋ria di un'assurdit giustificare questa 揳ssurdit鄶, lo scopo principale di questa nota .
Due testi di valore ineguale ispirarono l'impresa. Uno quel frammento filologico di Novalis - numero 2005 dell抏dizione di Dresda che abbozza il tema dell'identificazione totale con un determinato autore. L'altro uno di quei libri parassitari che ambientano Cristo in un boulevard, Amleto nella Cannebi鑢e e Don Chisciotte a Wall Street. Come ogni persona di buon gusto, Menard aveva in orrore queste inutili mascherate, buone solo - diceva - a procurarci il volgare piacere dell抋nacronismo, o (ciche peggio) a istupidirci con l抜dea primaria che tutte le epoche sono uguali, o che tutte sono distinte. Piinteressante, anche se d'esecuzione contraddittoria e superficiale, gli sembrava il famoso proposito di Daudet: riunire in un personaggio, che Tartarin, I'Ingegnoso Hidalgo e il suo scudiero... Chi insinua che Menard dedicla vita a scrivere un Chisciotte contemporaneo, calunnia la sua chiara memoria.
Non volle comporre un altro Chisciotte - ciche facile - ma il Chisciotte. Inutile specificare che non pensmai a una trascrizione meccanica dell'originale; il suo proposito non era di copiarlo. La sua ambizione mirabile era di produrre alcune pagine che coincidessero - parola per parola e riga per riga - con quelle di Miguel de Cervantes.
揑l mio proposito certo sorprendente, - mi scrisse il 30 settembre 1934, da Bayonne. - Ma l'oggetto finale d'una dimostrazione teologica o metafisica non meno dato e comune del divulgato romanzo che mi propongo. La sola differenza questa: che i filosofi pubblicano in gradevoli volumi le tappe intermedie del proprio lavoro, e io ho risoluto di cancellarle Nel testo definitivo, infatti, non v'alcuna correzione, alcuna aggiunta, che attesti questo lavoro di anni.
Il metodo che immaginda principio era relativamente semplice. Conoscere bene lo spagnolo, recuperare la fede cattolica, guerreggiare contro i mori o contro il turco, dimenticare la storia d'Europa tra il 1602 e il 1918, essere Miguel de Cervantes. Menard studiquesto procedimento (so che giunse a una padronanza sufficiente dello spagnolo del secolo XVII) ma lo scartperchfacile. Piuttosto, perchimpossibile!, diril lettore. D'accordo, ma l'impresa era giimpossibile in partenza, e di tutti gli impossibili mezzi per condurla a termine, questo era il meno interessante. Essere nel secolo XX un romanziere del secolo XVII gli parve simulazione. Essere in qualche modo Cervantes, e giungere cosal Chisciotte, gli parve meno arduo - dunque meno interessante - che restare Pierre Menard e giungere al Chisciotte attraverso le esperienze di Pierre Menard. (Questo convincimento, sia detto di passata, lo indusse a espungere il prologo autobiografico della seconda parte. Includere questo prologo sarebbe stato creare un altro personaggio - Cervantes - ma avrebbe anche significato presentare il Chisciotte in funzione di questo personaggio, e non di Menard. Il quale, naturalmente, rifiutquesta facilitazione). 揑n sostanza, - leggo in un altro punto della sua lettera; - la mia impresa non difficile. Mi basterebbe essere immortale per condurla a termine Confesserche mi piace immaginare che la termin e che leggo il Chisciotte - tutto il Chisciotte - come se l'avesse pensato Menard? Sere fa, sfogliando il capitolo XXVI (non tentato dal nostro amico), riconobbi il suo stile, e quasi 1a sua voce, in questa frase eccezionale: las ninfas de los rios, la dolorosa y h鷐ida Eco. Questa efficace congiunzione d'un aggettivo morale con uno fisico mi richiamalla memoria un verso di Shakespeare che discutemmo una sera:

Where a malignant and turbaned Turk...

Perch- diril nostro lettore - proprio il Chisciotte? In uno spagnolo, questa preferenza non sarebbe stata inesplicabile; ma inesplicabile pusembrare in un simbolista di N頼es, devoto essenzialmente di Poe, che generBaudelaire, che generMallarm che generVal閞y, che generEdmond Teste. La lettera citata chiarisce il punto. 揑1 Chisciotte, - spiega Menard, - m'interessa profondamente, ma non mi sembra... come dire?... inevitabile. Non posso immaginare l抲niverso senza l'interiezione di Edgar Allan Poe:

Ah, bear in mind this garden was enchanted!

o senza il Bateau Ivre o L'Ancient Mariner, ma mi so capace d'immaginarlo senza il Chisciotte. (Parlo, naturalmente, della mia capacitpersonale, e non della risonanza storica delle opere). I1 Chisciotte un libro contingente, il Chisciotte innecessario. Posso premeditarne la scrittura. posso scriverlo, senza incorrere in una tautologia. A dodici e tredici anni lo lessi, forse integralmente. Poi ho riletto con attenzione alcuni capitoli, quelli che non tenterper il momento. Ho dato anche una scorsa agli intermezzi, alle commedie, alla Galatea, alle Novelle esemplari, alle fatiche indubbiamente laboriose di Persiles e Segismunda, e al Viaggio del Parnaso... I1 ricordo d'insieme che ho del Chisciotte, semplificato dall'oblivio e dall'indifferenza, pubenissimo equivalere all抜mprecisa immagine anteriore d'un libro non scritto. Ammessa quest抜mmagine (che nessuno, in buona fede, purifiutarmi) resta che il mio problema assai pidifficile di quello di Cervantes. Il mio compiacente precursore non rifiutla collaborazione del caso: andava componendo la sua opera immortale un poco la diable, portato da inerzie del linguaggio e dell抜nvenzione. Io ho contratto l'obbligo misterioso di ricostruire letteralmente la sua opera spontanea. I1 mio gioco solitario governato da due leggi antitetiche. La prima mi permette di tentare varianti di tipo formale o psicologico; la seconda mi impone di abolire ogni variante in favore del testo 搊riginale e di ragionare irrefutabilmente questa abolizione... A questi impedimenti artificiali se ne aggiunge un altro, congenito. Comporre il Chisciotte al principio del secolo XVII fu impresa ragionevole, forse fatale; al principio del XX, quasi impossibile. Non invano sono passati, trecento anni, carichi di fatti quanto mai complessi: tra i quali, per citarne uno solo, lo stesso Chisciotte
A dispetto di questi ostacoli, il frammentario Chisciotte di Menard pisottile di quello di Cervantes. Quest抲ltimo, semplicisticamente, oppone alle finzioni cavalleresche la povera realtprovinciale del suo paese; Menard sceglie come 搑ealt鄶 la terra di Carmen durante il secolo di Lepanto e di Lope. Che spagnolate non avrebbe consigliato una scelta simile a Maurice Barr鑣 o al dottor Rodriguez Larreta! Menard, con tutta naturalezza, le elude. La sua pagina non s'impaccia di gitanerie, ndi conquistadores, ndi mistici, ndi Filippo II, ndi autodaf Neglige o proscrive il colore locale. Questo sprezzo testimonia d抲n senso nuovo del romanzo storico. Questo sprezzo condanna Salammb inesorabilmente.
Non meno interessante l'esame di capitoli singoli Vediamo per esempio il XXXVIII della parte prima, 揷he tratta del curioso discorso che fece Don Chisciotte sulle armi e sulle lettere noto che Don Chisciotte (come Quevedo nel passo analogo, e posteriore, della Hora de todos) si pronuncia contro le lettere, in favore delle armi. Cervantes era un vecchio soldato, e il suo giudizio si spiega. Ma che il Don Chisciotte di Pierre Menard - contemporaneo della Trahison des clercs e di Bertrand Russell - ricada in queste nebulose sofisticherie! Madame Henri Bachelier ha voluto scorgervi un'ammirevole e tipica subordinazione dell抋utore alla psicologia dell'eroe; altri (non piperspicacemente), una trascrizione del Chisciotte; la baronessa di Bacourt, l'influenza di Nietzsche. A questa terza interpretazione (che giudico irrefutabile) non so se m抋rrischiera farne seguire una quarta, che s'addirebbe assai bene alla modestia quasi divina di Menard: alla sua rassegnata o ironica abitudine di propagare delle idee che erano l'esatto rovescio di quelle preferite da lui. (Rammentiamo ancora una volta la sua diatriba contro Paul Val閞y nell抏ffimero foglio surrealista di Jacques Reboul). I1 testo di Cervantes e quello di Menard sono verbalmente identici, ma il secondo quasi infinitamente piricco. (Piambiguo, diranno i suoi detrattori; ma l'ambiguituna ricchezza).
Il raffronto tra la pagina di Cervantes e quella di Menard senz'altro rivelatore. I1 primo, per esempio, scrisse (Don Chisciotte, parte I, capitolo IX):

la verit la cui madre la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell抋vvenire.

Scritta nel secolo XVII, scritta dall抜ngenio lego Cervantes, quest'enumerazione un mero elogio retorico della storia. Menard, per contro, scrive:

la verit la cui madre la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell抋vvenire.

La storia, madre della verit l抜dea meravigliosa. Menard, contemporaneo di William James, non vede nella storia l'indagine della realt ma la sua origine. La veritstorica, per lui, non ciche avvenne, ma ciche noi giudichiamo che avvenne. Le clausole finali - esempio e notizia del presente, avviso dell抋vvenire. - sono sfacciatamente pragmatiche.
Altrettanto vivido il contrasto degli stili. Lo stile arcaizzante di Menard resta straniero, dopo tutto, e non senza qualche affettazione. Non cosi quello del precursore, che maneggia con disinvoltura lo spagnolo corrente della propria epoca.
Non v'esercizio intellettuale che non sia finalmente inutile. Una dottrina filosofica al principio una descrizione verosimile dell'universo; passano gli anni, ed un semplice capitolo - quando non un paragrafo o un nome - della storia della filosofia. Nelle opere letterarie, questa caducitfinale ancora pievidente. I1 Chisciotte - mi diceva Menard - fu anzitutto un libro gradevole; ora un抩ccasione di brindisi patriottici, di superbia grammaticale, di oscene edizioni di lusso! La gloria una forma d抜ncomprensione, forse la peggiore.
Queste affermazioni nichiliste non hanno nulla di nuovo; ma nuova e singolare la conclusione che ne trasse Menard. Risolse di precorrere la vanitche attende tutte le fatiche dell'uomo; s'accinse a un'impresa complessissima e futile in partenza. Dedici suoi scrupoli e le sue veglie a ripetere in un idioma estraneo un libro preesistente. Moltiplici rifacimenti, corresse e lacermigliaia di pagine manoscritte . Non permise a nessuno di esaminarle, e curche non gli sopravv靨essero. Invano ho cercato di ricostruirle.
Ho pensato che il Don Chisciotte finale potrebbe considerarsi come una specie di palinsesto, in cui andrebbero ricercate le tracce - tenui, ma non indecifrabili - della scrittura 揳nterioredel nostro amico. Disgraziatamente, solo un secondo Pierre Menard, invertendo il lavoro del primo, potrebbe resuscitare queste Troie...
揚ensare, analizzare, inventare (mi scrisse pure) non sono atti anomali, sono la normale respirazione dell抜ntelligenza. Glorificare l'occasionale esercizio di questa finzione, tesaurizzare pensieri antichi e lontani, ricordare con incredulo stupore ciche il doctor universalis pens confessare il nostro languore o la nostra barbarie. Ogni uomo dev'esser capace di ogni idea, e credo che nell抋vvenire sarcos鞌.
Menard (forse senza volerlo) ha arricchito mediante una tecnica nuova l抋rte incerta e rudimentale della lettura: la tecnica dell抋nacronismo deliberato e delle attribuzioni erronee. Questa tecnica, di applicazione infinita, ci invita a scorrere l扥dissea come se fosse posteriore all'Eneide, e i libro Le jardin du Centaure di Madame Henri Bachelier come se fosse di Madame Henri Bachelier. Questa tecnica popola di avventure i libri picalmi. Attribuire a Louis Ferdinand C閘ine o a James Joyce l扞mitazione di Cristo non sarebbe un sufficiente rinnovo di quei tenui consigli spirituali?

N頼es, 1939

Le rovine circolari


And if he left off dreaming about you...
Through the Looking-Glass IV

Nessuno lo vide sbarcare nella notte unanime, nessuno vide la canoa di bambincagliarsi nel fango sacro; ma pochi giorni dopo, nessuno ignorava che l'uomo taciturno veniva dal Sud e che la sua patria era uno degli infiniti villaggi che sono a monte del fiume, nel fianco violento della montagna, dove l'idioma zend non contaminato dal greco, e dove la lebbra infrequente. L'uomo grigio baciil fango, montsulla riva senza scostare (probabilmente senza sentire) i rovi che gli laceravano le carni, e si trasse melmoso e insanguinato fino al recinto circolare che corona una tigre o cavallo di pietra, che fu una volta del colore del fuoco ed ora di quello della cenere. Questa rotonda ciche resta d'un tempio che antichi incendi divorarono, cui profanla vegetazione delle paludi, e il cui dio non riceve pionori dagli uomini. Lo straniero si stese ai piedi della statua. Si sveglia giorno fatto. Constatsenza stupore che le ferite s'erano cicatrizzate; chiuse gli occhi pallidi e dorm non per stanchezza della carne ma per determinazione della volont Sapeva che questo tempio era il luogo che conveniva al suo invincibile proposito; sapeva che gli alberi incessanti non erano riusciti a soffocare, pia valle, le rovine d'un altro tempio propizio, anch'esso di d鑙 incendiati e morti; sapeva che il suo obbligo immediato era il sonno. Verso la mezzanotte lo svegliil grido inconsolabile d'un uccello. Orme di piedi nudi, alcune frutta e un bacile l抜nformarono che la gente del luogo aveva spiato con rispetto il suo sonno e sollecitava la sua protezione, o temeva la sua magia. Sentil freddo della paura e cercnella muraglia dilapidata una nicchia sepolcrale, si coprcon foglie sconosciute.
II proposito che lo guidava non era impossibile, anche se soprannaturale. Voleva sognare un uomo: voleva sognarlo con minuziosa interezza e imporlo alla realt Questo progetto magico aveva esaurito l'intero spazio della sua anima; se alcuno gli avesse chiesto il suo nome, o un tratto qualunque della sua vita anteriore, non avrebbe saputo rispondere. Gli conveniva il tempio disabitato e rotto, perchera un minimo di mondo visibile; anche gli conveniva la vicinanza dei contadini, perchs'incaricavano di sovvenire ai suoi bisogni frugali. I1 riso e le frutta del loro tributo erano pascolo sufficiente al suo corpo, consacrato all'unico compito di dormire e di sognare.
A1 principio i sogni furono caotici; poco dopo, di natura dialettica. Lo straniero si sognava nel centro d抲n anfiteatro circolare che era in qualche modo il tempio incendiato; nubi di alunni taciturni ne appesantivano i gradini; i volti degli ultimi si perdevano a molti secoli di distanza e ad un抋ltezza stellare, ma erano del tutto precisi. L'uomo dettava lezioni d'anatomia, di cosmografia, di magia: quei volti ascoltavano con ansiete procuravano di rispondere con senno, come se indovinassero l抜mportanza di quell抏same, che avrebbe riscattato uno di loro dalla condizione di vana apparenza, e l'avrebbe interpolato nel mondo reale. Nel sogno, o pitardi, da sveglio, l'uomo considerava le risposte dei suoi fantasmi, non si lasciava ingannare dagli impostori, indovinava in certe perplessitun抜ntelligenza crescente. Cercava un'anima che meritasse di partecipare all'universo.
Dopo nove o dieci notti comprese che non poteva sperare in quegli alunni che accettavano passivamente la sua dottrina, ma sin quelli che arrischiavano, a volte, una contraddizione ragionevole. I primi, sebbene degni di amore e di buon affetto, non potevano aspirare alla condizione di individuo; gli altri preesistevano un poco di pi Un pomeriggio (ormai anche i pomeriggi erano tributari del sonno, ormai non vegliava che un paio d'ore al mattino) congedper sempre il vasto collegio illusorio e restcon un solo alunno. Era un ragazzo taciturno, melanconico, discolo qualche volta, dai tratti affilati che ripetevano quelli del suo sognatore. La brusca eliminazione dei suoi condiscepoli non lo sconcerttroppo a lungo; dopo poche lezioni, i suoi progressi gimeravigliavano il maestro. Ma ecco, sopravvenne la catastrofe. Un giorno, l'uomo emerse dal sonno come da un deserto viscoso, guardla luce vana d'un tramonto che prese per un'aurora, comprese di non aver sognato. Tutta quella notte e tutto il giorno seguente la luciditintollerabile dell'insonnia s'abbattsu di lui. Volle esplorare la selva, estenuarsi; ma potappena, tra la cicuta, dormire pochi frammenti di sonno debole, fugacemente traversati da visioni di tipo rudimentale: inservibili. Volle convocare il collegio, ma aveva appena articolato poche parole d'esortazione che quello si deform si cancell Nella veglia quasi perpetua, lagrime di rabbia bruciavano i suoi vecchi occhi.
Comprese che l'impegno di modellare la materia incoerente e vertiginosa di cui si compongono i sogni il piarduo che possa assumere un uomo, anche se penetri tutti gli enigmi dell'ordine superiore e dell'inferiore: molto piarduo che tessere una corda di sabbia o monetare il vento senza volto. Comprese che un insuccesso iniziale era inevitabile. Giurdi dimenticare l'enorme allucinazione che l抋veva sviato al principio, e cercun altro metodo di lavoro. Prima di applicarlo, dedicun mese al recupero delle forze che aveva sprecato nel delirio. Non premeditpidi sognare, e quasi immediatamente gli riuscdi dormire per un tratto ragionevole del giorno. Le rare volte che sogndurante questo periodo non fece attenzione ai suoi sogni. Per riprendere l'impresa, aspettche il disco della luna fosse perfetto. Allora, di sera, si purificnelle acque del fiume, adorgli d鑙 planetari, pronuncile sillabe lecite d'un nome poderoso e dorm Quasi subito, sognun cuore che palpitava.
Lo sognattivo, caldo, segreto, della grandezza d'un pugno serrato, color granata nella penombra d'un corpo umano ancora senza volto nsesso; con minuzioso amore lo sogn durante quattordici lucide notti. Ogni notte lo percepiva con maggiore evidenza. Non lo toccava: si limitava ad esserne testimone, a osservarlo, talvolta a correggerlo con lo sguardo. Lo percepiva, lo viveva, da molte distanze e sotto molti angoli. La quattordicesima notte sfiorcon l'indice l'arteria polmonare e poi tutto il cuore, di fuori e di dentro. L'esame lo soddisfece. Deliberatamente non sogndurante tutta una notte; poi riprese il cuore, invocil nome di un pianeta e passalla visione d'un altro degli organi principali. In meno d'un anno giunse allo scheletro, alle palpebre. La capigliatura innumerevole fu il compito pidifficile. Sognun uomo intero, un giovane, che pernon si levava, nparlava, npoteva aprire gli occhi. Per notti e notti continua sognarlo addormentato.
Nelle cosmogonie gnostiche, i demiurghi impastano un rosso Adamo che non riesce ad alzarsi in piedi; cosinabile, rozzo ed elementare come quest'Adamo di polvere, era l扐damo di sogno che le notti del mago avevano fabbricato. Una sera, l'uomo fu quasi per distruggere tutta l'opera, ma si pent (Pigli sarebbe valso distruggerla). Fatto ogni voto ai numi della terra e del fiume, si gettai piedi dell'effigie che era forse una tigre o forse un cavallo, e imploril suo sconosciuto soccorso. Sul crepuscolo dello stesso giorno, sognquesta statua. La sognviva, tremula: non era un atroce bastardo di cavallo e di tigre, ma queste due veementi creature ad un tempo, e anche un toro, una rosa, una tempesta. Questo molteplice iddio gli rivelche il suo nome era Fuoco, che in quel tempio circolare (e in altri eguali) gli erano stati offerti i sacrifici e reso il culto, e che magicamente avrebbe animato il fantasma sognato, in modo che tutte le creature, eccetto il Fuoco stesso e il sognatore, l'avrebbero creduto un uomo di carne e di ossa. Gli ordindi inviarlo, una volta istruitolo nei riti, nell'altro tempio in rovina le cui torri sussistevano pia valle, affinchuna voce tornasse a glorificare il fuoco in quell'edificio deserto. Nel sonno dell'uomo che lo sognava il sognato si svegli
I1 mago esegugli ordini. Dedicqualche tempo (e furono finalmente due anni) a scoprirgli gli arcani dell'universo e del culto del fuoco. Nell'intimo, gli doleva di separarsi da lui. Col pretesto della necessitpedagogica, allungava ogni giorno le ore dedicate al sonno. Rifece anche l抩mero destro, forse mal riuscito. A volte, l'inquietava un'impressione che tutto quello fosse giavvenuto... In complesso, i suoi giorni erano felici; chiudendo gli occhi pensava: 揙ra starcon mio figlio O, pidi rado: 揑l figlio che ho generato m'aspetta, e non esisterse non vado
Gradualmente, lo venne avvezzando alla realt Una volta gli comanddi imbandierare una cima lontana. I1 giorno dopo, sul monte, fiammeggiava la bandiera. Tentaltri esperimenti di questo genere, ogni volta piaudaci. Comprese con una certa amarezza che suo figlio era pronto per nascere. Quella stessa notte, per la prima volta, la baci e lo inviall'altro tempio, le cui vestigia biancheggiavano a valle, a molte leghe di selva inestricabile e di acquitrini. Prima (perchnon sapesse mai che era un fantasma, perchsi credesse un uomo come gli altri) gl'infuse l'oblivio totale dei suoi anni di apprendistato.
La sua vittoria e la sua pace non furono senza melanconia. All抋lba e al tramonto si prosternava dinanzi alla figura di pietra, pensando forse che il suo figlio irreale eseguendo riti identici, in altre rovine circolari, pia valle la notte non sognava, o sognava come gli altri uomini. Percepiva un poco impalliditi i suoni e le forme dell抲niverso: il figlio assente si nutriva di queste diminuzioni della sua anima. Lo scopo della sua vita era raggiunto; continuava a vivere in una specie d'estasi. Dopo un certo tempo che alcuni narratori della sua storia preferiscono di computare in anni, altri in lustri, lo svegliarono a mezzanotte due rematori; non ne vide i volti, ma gli parlarono di un uomo magico, in un tempio del Nord, capace di camminare nel fuoco senza bruciarsi. I1 mago ricordbruscamente le parole del dio. Ricordche di tutte le creature che compongono l'orbe, il fuoco era l'unica a sapere che suo figlio era un fantasma. Questo ricordo, tranquillante al principio, finper tormentarlo. Temette che suo figlio meditasse su questo strano privilegio e scoprisse in qualche modo la sua condizione di mero simulacro. Non essere un uomo, essere la proiezione del sogno di un altr抲omo: che umiliazione incomparabile, che vertigine! A ogni padre interessano i figli che ha procreato (che ha permesso) in una mera confusione o felicit naturale che il mago temesse per l'avvenire di quel figlio, pensato viscere per viscere e lineamento per lineamento, in mille e una notte segrete.
I1 termine del suo rimuginare fu brusco, ma lo precedettero alcuni segni. Primo (dopo una lunga siccit una remota nube sopra un colle, leggera come un uccello; poi, verso Sud, un cielo rosa come la gengiva del leopardo; poi le fumate, che arrugginirono il metallo delle notti; infine la fuga impazzita delle bestie. Poichsi ripetciche era giaccaduto nei secoli. Le rovine del santuario del dio del fuoco furono distrutte dal fuoco. In un'alba senza uccelli il mago vide avventarsi contro le mura l'incendio concentrico. Pens un istante, di rifugiarsi nell'acqua; ma comprese che la morte veniva a coronare la sua vecchiezza e ad assolverlo dalle sue fatiche. Andincontro ai gironi di fuoco: che non morsero la sua carne, che lo accarezzarono e inondarono senza calore e senza combustione. Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che era anche lui una parvenza, che un altro stava sognandolo.

La lotteria a Babilonia.


Come tutti gli uomini di Babilonia, sono stato proconsole; come tutti, schiavo; anche ho conosciuto l抩nnipotenza, l抩bbrobrio, le carceri. Guardino: la mia mano destra monca dell抜ndice. Guardino: per questo strappo del mantello si vede sulla mia carne un tatuaggio vermiglio; il secondo simbolo, Beth. Le notti di luna piena, questa lettera mi conferisce potere sugli uomini il cui marchio Ghimel, ma mi subordina a quelli di Aleph, che nelle notti senza luna debbono obbedienza a quelli di Ghimel. Sul crepuscolo del mattino, in un sotterraneo, ho sgozzato tori sacri dinanzi a una pietra nera. Per tutto un anno della luna, sono stato dichiarato invisibile: gridavo e non mi rispondevano, rubavo il pane e non mi decapitavano. Ho conosciuto ciche ignorano i greci: l抜ncertezza. In una camera di bronzo, davanti al laccio silenzioso dello strangolatore, ho avuto speranza; nel fiume dei piaceri, paura. Eraclide Pontico riferisce con ammirazione che Pitagora ricordava d'essere stato Pirro, e prima di lui Euforbo, e ancor prima un qualche altro mortale; per ricordare vicissitudini analoghe, io non ho bisogno di ricorrere alla morte, nall'impostura.
Debbo questa varietquasi atroce a un'istituzione che altre repubbliche ignorano, o che opera in esse in modo imperfetto e segreto: la lotteria. Non ho indagato la sua storia; so che i maghi che ne ragionano non sono giunti a un accordo; so dei suoi scopi poderosi ciche pusapere della luna l抲omo non versato in astrologia. Sono di un paese vertiginoso dove la lotteria parte principale della realt fino a oggi pensai cospoco ad essa come alla condotta degli d鑙 indecifrabili o del mio cuore. Ora, lontano da Babilonia e dai suoi costumi che amo, penso con qualche stupore alla lotteria, e alle congetture blasfeme che mormorano nel crepuscolo gli uomini velati.
Mio padre raccontava che anticamente - anni addietro? secoli? - la lotteria fu a Babilonia un gioco di carattere plebeo. Diceva (se sia vero non so) che i barbieri distribuivano, in cambio di monete di rame, rettangoli d'osso e di pergamena ornati di simboli. Il sorteggio si faceva di giorno: i favoriti ricevevano, senz抋ltra convalida del caso, delle monete d抋rgento coniate. Come vedono, il procedimento era elementare.
Naturalmente, queste 搇otteriefallirono. La loro virtmorale era nulla. Non si rivolgevano a tutte le facoltdell抲omo: solo alla sua speranza. Aumentando l'indifferenza del pubblico, gli affaristi che avevano fondato quelle lotterie venali cominciarono a perdere il loro denaro. Qualcuno tentuna riforma: l'interpolazione di poche sorti avverse tra il numero di quelle favorevoli. In virtdi questa riforma, gli acquirenti di rettangoli numerati si mettevano al duplice azzardo di riscuotere un premio e di pagare una multa a volte ingente. Questo tenue rischio (per ogni trenta numeri favorevoli ve n'era uno disgraziato) risvegli com'naturale, l'interesse del pubblico. I Babilonesi si dettero in massa a questo gioco. Chi non acquistava sorti era considerato un pusillanime, un dappoco. Col tempo, questo disprezzo crebbe a includere non solo quelli che non giocavano, ma anche quelli che avendo giocato, e perduto, si rassegnavano alla conciliazione dell'ammenda. La Compagnia (cossi cominciallora a chiamarla) dovette vegliare sugli interessi dei vincitori, che non potevano riscuotere i premi se mancava nelle casse l'importo quasi totale delle multe. S'intentarono processi ai perditori che non pagavano: il giudice li condannava al pagamento della multa e delle spese, o a qualche giorno di carcere. Tutti, pur di defraudare la Compagnia, optarono per il carcere. Da questa bravata di alcuni nacque l'onnipotenza della Compagnia: il suo valore ecclesiastico, metafisico.
In poco tempo, i bollettini di sorteggio finirono per omettere la lista delle multe e si limitarono a elencare i giorni di prigione relativi a ciascun numero avverso. Questo laconismo, che passallora quasi inavvertito, fu di importanza capitale. Fu la prima apparizione nella lotteria di elementi non pecuniari. I1 successo fu grande. Su insistenza dei giocatori, la Compagnia si vide costretta ad accrescere la proporzione dei numeri avversi.
noto che il popolo di Babilonia molto devoto alla logica, e anche alla simmetria. Era illogico che i numeri fausti si computassero in tonde monete e gli infausti in giorni e notti di carcere. Alcuni moralisti osservarono il possesso di monete non sempre determinare la felicit ed esservi, forse, forme pidirette della fortuna
Un'altra inquietudine s'allargava nei quartieri poveri. I membri del collegio sacerdotale moltiplicavano le poste e godevano di tutte le vicissitudini del terrore e della speranza; i poveri (con invidia ragionevole, e comunque inevitabile) si vedevano esclusi da questo va e vieni, notoriamente delizioso. Il giusto desiderio che tutti, poveri e ricchi, partecipassero egualmente alla lotteria, promosse un'agitazione indignata, la cui memoria non s'cancellata ancora. Alcuni ostinati non compresero (o finsero di non comprendere) che si trattava di un' ordine nuovo, di una necessaria tappa storica... Uno schiavo rubun biglietto cremisi che nel sorteggio lo designper la bruciatura della lingua. Il codice prevedeva la stessa pena per chi rubava un biglietto. Alcuni Babilonesi argomentarono che colui meritava il ferro rovente nella sua qualitdi ladro; altri, magnanimi, che il carnefice doveva applicarglielo poichcosi aveva voluto il caso... Vi furono tumulti, effusioni deplorevoli di sangue; ma la gente di Babilonia impose finalmente la sua volontcontro l抩pposizione dei ricchi. I1 popolo conseguappieno i suoi fini generosi. In primo luogo, ottenne il trasferimento alla Compagnia di tutti i poteri pubblici. (Questa unificazione era necessaria, data la vastite complessitdelle nuove operazioni). In secondo luogo, ottenne che la lotteria fosse segreta, gratuita e universale. Fu abolita la vendita mercenaria delle sorti. Iniziato ai misteri di Bel, ogni uomo libero partecipava automaticamente ai sacri sorteggi che si facevano nei labirinti del dio ogni sessanta notti, e che determinavano il suo destino fino al nuovo esercizio. Le conseguenze erano incalcolabili. Una giocata fortunata poteva bastare per entrare nel concilio dei maghi, o per mandare in prigione un nemico (notorio o intimo), o per incontrare, nella calma oscuritdella propria stanza, la donna che comincia a inquietarci e che non speriamo di rivedere; una giocata avversa invece, poteva significare una mutilazione, l'infamia, la morte. A volte un fatto solo - il taverniere assassinato da C, l抋poteosi misteriosa di B - era la soluzione geniale di trenta o quaranta sorti. Combinare le giocate era difficile; ma bisogna ricordare che gli uomini della Compagnia erano (e sono) onnipotenti e astuti. Molte volte, il sapere di certe felicitche erano semplice fattura del caso, avrebbe potuto diminuirne l'efficacia; per evitare quest'inconveniente, gli agenti della Compagnia usavano di suggestioni e della magia. I loro passi, i loro maneggi, erano segreti. Per scoprire le intime speranze e gli intimi terrori di ciascuno, disponevano di astrologi e di spie. V'erano certi leoni di pietra, v'era una latrina segreta chiamata Qaphqa, v'erano certe crepe in un acquedotto polveroso che, secondo l抩pinione generale, davano sulla Compagnia; gente maligna o benevola depositava delazioni in questi luoghi. Un archivio alfabetico raccoglieva queste informazioni di varia attendibilit
Incredibilmente, non mancarono mormorazioni. La Compagnia, con la sua abituale discrezione, non replicdirettamente. Prefersgorbiare sulle rovine d抲na fabbrica di maschere un argomento breve, che ora figura nelle scritture sacre. Questo scritto dottrinale osservava che la lotteria un'interpolazione del caso nell'ordine del mondo, e che accettare errori non contraddire al caso, ma corroborarlo. Osservava pure che quei leoni e quel recipiente sacro, anche se non sconfessati dalla Compagnia (che non rinunciava al diritto di consultarli) funzionavano senza una garanzia ufficiale.
Questa dichiarazione calmle inquietudini del pubblico. Produsse anche altri effetti, forse non previsti dall抋utore. Modificprofondamente lo spirito e le operazioni della Compagnia. Non mi resta che poco tempo; m'avvertono che la nave sta per salpare; ma cercherdi spiegarmi.
Per inverosimile che appaia, nessuno aveva ancora tentato una teoria generale dei giochi. Il babilonese poco speculativo. Accetta i dettami del caso, gli affida la propria vita, la propria speranza, il proprio terrore, ma non gli accade di investigare le sue leggi labirintiche, le sfere giratorie che le rivelano. Tuttavia, la dichiarazione ufficiosa cui ho accennato ispirmolte discussioni di carattere giuridico-matematico, e da una di esse nacque la proposta seguente: 揝e la lotteria una intensificazione del caso, una periodica infusione del caos nel cosmo non converrebbe far intervenire il caso in tutte le fasi del gioco, e non in una sola? Non ridicolo che il caso detti la morte di qualcuno e che le circostanze di questa morte - pubblica o segreta, immediata o ritardata d抲n secolo non siano anch抏sse soggette al caso? Questi scrupoli, troppo giusti, provocarono finalmente una sostanziale riforma, le cui complessit(aggravate da un esercizio di secoli) non s'intendono che da pochi specialisti, ma che cerchertuttavia di riassumere, anche se in modo simbolico.
Immaginiamo un primo sorteggio, che d鑤ti la morte d抲n uomo. Per l抏secuzione, si procede a un altro sorteggio, che proporr- diciamo - nove esecutori possibili. Di questi esecutori, quattro potranno passare a un terzo sorteggio che diril nome del carnefice, due potranno sostituire all抩rdine avverso un ordine felice (diciamo, la scoperta d抲n tesoro), un altro potrrendere la morte piacerba (facendola infame, o arricchendola di torture), altri potranno rifiutarsi di darla. Tale lo schema simbolico. In realt il numero dei sorteggi infinito. Nessuna decisione finale, tutte si ramificano in altre. Gli ignoranti suppongono che infiniti sorteggi richiedano un tempo infinito; basta, in realt che il tempo sia infinitamente divisibile, come insegna la famosa parabola della Gara con la Tartaruga. Questo tipo di infinitezza si addice ammirevolmente ai sinuosi numi del Caso e dell扐rchetipo Celeste della Lotteria, adorato dai platonici... Una qualche eco deforme dei nostri riti sembra essere ricaduta nel Tevere; Elio Lampridio, nella Vita di Antonino Eliogabalo, riferisce che questo imperatore scriveva in conchiglie le sorti che destinava ai convitati, di modo che uno riceveva dieci libbre d抩ro, un altro dieci mosche, dieci marmotte, dieci orsi. Conviene ricordare che Eliogabalo fu educato in Asia Minore, tra i sacerdoti del dio eponimo. Si hanno anche sorteggi impersonali, di proposito indefinito: uno decreta che si scagli nelle acque dell扙ufrate uno zaffiro di Taprobana; un altro, che dal tetto d抲na torre si sciolga un uccello; un altro, che ogni secolo si tolga (o si aggiunga) un granello di rena ai grani innumerevoli della spiaggia. Le conseguenze, a volte, sono tremende. Sotto l抜nflusso benefico della Compagnia, i nostri costumi sono saturi di caso. L抋cquirente d抲na dozzina di anfore di vino damasceno non si meraviglia se una di esse contiene un talismano o una vipera; lo scrivano che redige un contratto non lascia quasi mai di introdurvi qualche dato erroneo; io stesso, in questa affrettata esposizione, ho falsato qualche splendore, qualche atrocit E anche, forse, qualche misteriosa monotonia... I nostri storici, che sono i piperspicaci dell抩rbe, hanno inventato un metodo per correggere il caso; si dice che le operazioni di questo metodo siano (in generale) fededegne; sebbene, naturalmente, non si divulghino senza una certa dose di inganno. Peraltro, nulla picontaminato di finzione che la storia della Compagnia. Un documento paleografico, esumato in un tempio, puessere opera di un sorteggio di ieri, o d抲n sorteggio di un secolo fa. Non si pubblica libro senza qualche divergenza tra ciascuno degli esemplari; gli scribi prestano giuramento segreto di omettere, di interpolare, di variare. Anche si esercita la menzogna indiretta.
La Compagnia, con modestia divina, evita ogni pubblicit I suoi agenti, com掕 naturale, sono segreti; i comandi ch'essa impartisce incessantemente (forse infinitamente) non differiscono da quelli che s抋rrogano gli impostori. D'altra parte, chi potrvantarsi d'essere un mero impostore? L'ubriaco che improvvisa un'ingiunzione assurda, il sognatore che si sveglia di colpo e strozza con le sue mani la donna che gli dorme a fianco, non c'il caso che eseguano una decisione segreta della Compagnia? Questo funzionamento silenzioso, comparabile a quello di Dio, provoca ogni sorta di congetture. Una, abominevolmente, insinua che gida secoli la Compagnia ha cessato d'esistere, e che il sacro disordine delle nostre vite puramente ereditario, tradizionale; un抋ltra la giudica eterna e insegna che durerfino all抲ltima notte, quando l抲ltimo dio annulleril mondo. Un抋ltra afferma che la Compagnia onnipotente, ma che solo influisce sulle cose minuscole: sul grido d'un uccello, sa una sfumatura nel colore della ruggine e della polvere, sui sogni incerti dell'alba. Un'altra, per bocca di eresiarchi mascherati, che non mai esistita e mai esister Un'altra, non meno vile, ragiona che indifferente affermare o negare la realtdella tenebrosa corporazione, poichBabilonia, essa stessa, non altro che un infinito gioco d'azzardo.

Esame dell'opera di Herbert Quain

Herbert Quain morto a Roscommon; ho visto senza sorpresa che il Supplemento letterario del 揟imesgli dedica appena una mezza collana di pietnecrologica, in cui non v掕 epiteto laudativo che non sia corretto (o seriamente redarguito) da un avverbio. Lo 揝pectator da parte sua, certo meno laconico, e forse picordiale, ma paragona il primo libro di Quain - The God of the Labyrinth a uno di Agata Christie, e gli altri a quelli di Gertrude Stein: accostamenti che nessuno giudicherinevitabili, e che non avrebbero rallegrato il defunto. Questo, del resto, mai si credette geniale: neppure nelle notti peripatetiche di conversazione letteraria, in cui l'uomo che ha gifatto gemere i torchi gioca invariabilmente a fare il Monsieur Teste o il dottor Samuel Johnson... Avvertiva con tutta luciditla condizione sperimentale dei propri libri: ammirevoli forse per originalite per certo probo laconismo ma non per le virtdella passione. Sono come le odi di Cowley, mi scrisse da Longford il 6 marzo 1939. Non appartengo all'arte, ma alla mera storia dell抋rte. Non v抏ra, per lui, disciplina inferiore alla storia.
Ho riferito un tratto di modestia di Herbert Quain: naturalmente, questa modestia non esaurisce tutto il suo pensiero. Flaubert e Henry James ci hanno abituato a supporre che le opere d'arte siano infrequenti, e di esecuzione laboriosa; il secolo XVI (ricordiamo il Viaggio del Parnaso, ricordiamo il destino di Shakespeare) non condivideva questa sconsolata opinione. Nla condivideva Herbert Quain. Giudicava che la buona letteratura piuttosto comune, e che non v掕 quasi dialogo casuale, conversazione udita per la strada, che non la raggiunga. Giudicava anche che il fatto estetico non puprescindere da qualche elemento di stupore, e che stupirsi a memoria difficile. Deplorava con sorridente sincerit搇a servile e ostinata conservazionedi libri preteriti... Non so se la sua vaga teoria si giustifichi; so che i suoi libri aspirano troppo alla sorpresa.
Deploro di aver prestato a una signora, irreversibilmente, il primo che pubblic Ho gidetto che si tratta d'un romanzo poliziesco, The God of the Labyrinth; posso aggiungere che l'editore lo mise in vendita negli ultimi giorni del novembre 1933. Ai primi di dicembre dello stesso anno, le gradevoli e ardue involuzioni del Siamese Twin Mystery affaccendarono Londra e New York; io preferisco attribuire l'insuccesso del romanzo del nostro amico a questa coincidenza rovinosa. Nonch(voglio esser del tutto sincero) alla sua deficiente esecuzione e alla vana e frigida pompa di certe descrizione del mare. A distanza di sette anni, m掕 impossibile recuperare i dettagli dell'azione; ma eccone il piano generale, quale l抜mpoveriscono (quale lo purificano) le lacune della mia memoria. V掕 un indecifrabile assassinio nelle pagine iniziali, una lenta discussione nelle intermedie, una soluzione nelle ultime. Poi, risolto ormai l抏nigma, v'un paragrafo vasto e retrospettivo che contiene questa frase: 揟utti credettero che l'incontro dei due giocatori di scacchi fosse stato casuale Questa frase lascia capire che la soluzione erronea. Il lettore, inquieto, rivede i capitoli sospetti e scopre un'altra soluzione, la vera. Il lettore di questo libro singolare piperspicace dei detective.
Ancora pieterodosso il 搑omanzo regressivo, ramificatoApril March, la cui terza (e unica) parte del 1936. Nel giudicare questo romanzo dobbiamo ricordare che si tratta d'un gioco, e che l'autore non lo considermai diversamente.
揜ivendico per quest'opera - l'udii affermare - i tratti essenziali di ogni gioco: la simmetria, le leggi arbitrarie, il tedio Lo stesso titolo non che un debole calenbour: non significa Marcia d'aprile, ma letteralmente Aprile marzo. Alcuni hanno avvertito in quelle pagine un'eco della dottrina di Dunne; la prefazione di Quain preferisce evocare il mondo alla rovescia di Bradley, in cui la morte precede la nascita e la ferita il colpo (Appearance and Reality, 1897, p. 215) . I mondi che propone April March non sono regressivi: regressiva la maniera di raccontarne la storia. Regressiva e ramificata, come ho gidetto. L'opera comprende tredici capitoli. Il primo riferisce l'ambiguo dialogo di alcuni sconosciuti su una banchina. Il secondo riferisce gli avvenimenti della vigilia del primo. Il terzo, anch'esso retrogrado, riferisce gli avvenimenti di un'altra possibile vigilia del primo; il quarto, quelli di un'altra. Ciascuna di queste tre vigilie (che rigorosamente si escludono) si ramifica in altre tre, d抜ndole molto diversa. Il corpo dell'opera consta poi di nove racconti; ogni racconto, di tre lunghi capitoli (il primo capitolo, naturalmente, comune a tutti i racconti). Di questi racconti, uno di carattere simbolico; un altro, soprannaturale; un altro, poliziesco; un altro, psicologico; un altro, comunista; un altro, anticomunista; eccetera. Uno schema, forse, aiutera comprendere la struttura:

x1
y1 x2
x3
x4
z y2 x5
x6
x7
y3 x8
x9

Puripetersi di questa struttura ciche disse Schopenauer delle dodici categorie kantiane: che tutto sacrificano a un furore simmetrico. Com'era prevedibile, alcuno dei nove racconti indegno di Quain. Il migliore non quello che immaginoriginariamente, l'x4; quello di natura fantastica, l'x9. Altri sono imbruttiti da scherzi insipidi e da pseudo-precisazioni inutili. Chi li leggesse nell'ordine cronologico (per esempio: x3, y1, z) perderebbe il sapore peculiare dello strano libro. Due racconti l'x7 e l'x8 - hanno poco valore di per s ma acquistano efficacia se giustapposti... Ricorderanche che Quain, avendo gipubblicato April March, si pentdell'ordine ternario e auspicche, tra i suoi futuri imitatori, gli uomini scegliessero il binario

x1
y1
x2
Z
x3
y2
x4


e i demiurghi e gli d鑙: infinite storie, infinitamente ramificate.
Molto diversa, ma anch'essa retrospettiva la commedia eroica in due atti The Secret Mirror. Nelle opere di cui abbiamo parlato, la complessitformale aveva intorpidito l'immaginazione dell'autore; qui la sua evoluzione pilibera. Nel primo atto (che anche il pilungo) siamo nella casa di campagna del generale Thrale, C.I.E., presso Melton Mowbray. L'invisibile centro della trama Miss Ulrica Trahle, la figlia maggiore del generale. La intravediamo, attraverso alcuni passi del dialogo, amazzone e altera; i giornali annunciano il suo fidanzamento con il duca di Rutland; i giornali smentiscono il fidanzamento. La venera un autore drammatico, Wilfred Quarles; la giovane gli ha concesso qualche volta un bacio distratto. I personaggi sono di vasta fortuna e di sangue antico; nobili, seppure veementi, gli affetti; il dialogo sembra vacillare tra la mera vaniloquenza di Bulwer-Lytton e gli epigrammi di Wilde o di Mr Philip Guedalla. V掕 un usignolo e una notte; v掕 un dolore segreto su un terrazzo (quasi del tutto impercettibile, v'qualche curiosa contraddizione, qualche dettaglio sordido). I personaggi del primo atto ricompaiono nel secondo, con altri nomi. L'揳utore drammaticoWilfred Quarles un commissario di Liverpool; il suo vero nome, John William Quigley. Miss Thrale esiste; Quigley non l抙a vista mai, ma colleziona morbosamente ritratti suoi del 揟atlere dello 揝ketch Quigley autore del primo atto. L抜nverosimile, o improbabile, 揷asa di campagnala pensione giudeo-韗landese dove lui vive, trasfigurata e magnificata da lui... La trama dei due atti parallela, ma nel secondo tutto leggermente orribile, tutto continuamente rimandato o frustrato. Quando The Secret Mirror fu rappresentato, la critica fece i nomi di Freud e di Julien Green. L'accenno al primo mi sembra del tutto ingiustificato. Comunque, si sparse la voce che The Secret Mirror fosse una commedia freudiana; questa interpretazione propizia (ed erronea) determinil suo successo. Disgraziatamente, Quain aveva giquarant'anni, Era abituato all抜nsuccesso e non si rassegnava facilmente a un cambiamento di regime. Decise di rifarsi. Verso la fine del 1939 pubblicStatements: forse il pioriginale dei suoi libri, certo il meno lodato e il pisegreto. Quain soleva ripetere che i lettori sono una specie ormai estinta. 揘on v'europeo - ragionava - che non sia uno scrittore, in potenza o in atto Affermava anche che, tra le diverse felicitche puprocurare la letteratura, la pialta l'invenzione. Poichnon tutti sono capaci di questa felicit molti dovranno contentarsi di simulacri. Per questi 搃mperfetti scrittori il cui numero legione, Quain compose gli otto racconti del libro Statements. Ciascuno di essi prefigura o promette un buon argomento, volontariamente frustrato dall'autore. Uno - non il migliore - insinua due argomenti. Il lettore, distratto dalla propria vanit crede di averli inventati. Dal terzo, The Rose of Yesterday, io commisi l抜ngenuitdi ricavare Le rovine circolari, che una delle narrazioni del libro Il giardino dei sentieri che si biforcano.

[1941]

Da:

J.L. Borges, La biblioteca di Babele , Einaudi, 1955, p. 79-89. (Trad. di Franco Lucentini; successivamente pubblicato con il tit.: Finzioni)


La biblioteca di Babele

L'universo (che altri chiama la Biblioteca) si compone d'un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, bordati di basse ringhiere. Da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori, interminabilmente. La distribuzione degli oggetti nelle gallerie invariabile. Venticinque vasti scaffali, in ragione di cinque per lato, coprono tutti i lati meno uno; la loro altezza, che quella stessa di ciascun piano, non supera di molto quella d'una biblioteca normale. Il lato libero dsu un angusto corridoio che porta a un'altra galleria, identica alla prima e a tutte. A destra e a sinistra del corridoio vi sono due gabinetti minuscoli. Uno permette di dormire in piedi; l'altro di soddisfare le necessitfecali. Di qui passa la scala spirale, che s'inabissa e s'innalza nel remoto. Nel corridoio uno specchio, che fedelmente duplica le apparenze. Gli uomini sogliono inferire da questo specchio che la Biblioteca non infinita (se realmente fosse tale, perchquesta duplicazione illusoria?); io preferisco sognare che queste superfici argentate figurino e promettano l'infinito... La luce procede da frutti sferici che hanno il nome di lampade. Ve ne sono due per esagono, su una trasversale. La luce che emettono insufficiente, incessante.
Come tutti gli uomini della Biblioteca, in gioventio ho viaggiato; ho peregrinato in cerca di un libro, forse del catalogo dei cataloghi; ora che i miei occhi quasi non possono decifrare ciche scrivo, mi preparo a morire a poche leghe dall'esagono in cui nacqui. Morto, non mancheranno mani pietose che mi gettino fuori della ringhiera; mia sepoltura sarl'aria insondabile: il mio corpo affonderlungamente e si corrompere dissolvernel vento generato dalla caduta, che infinita. Io affermo che la Biblioteca interminabile. Gli idealisti argomentano che le sale esagonali sono una forma necessaria dello spazio assoluto o, per lo meno, della nostra intuizione dello spazio. Ragionano che inconcepibile una sala triangolare o pentagonale. (I mistici pretendono di avere, nell'estasi, la rivelazione d'una camera circolare con un gran libro circolare dalla costola continua, che fa il giro completo delle pareti; ma la loro testimonianza sospetta; le loro parole, oscure. Questo libro ciclico Dio). Mi basti, per ora, ripetere la sentenza classica: 揕a Biblioteca una sfera il cui centro esatto qualsiasi esagono, e la cui circonferenza inaccessibile
A ciascuna parete di ciascun esagono corrispondono cinque scaffali; ciascuno scaffale contiene trentadue libri di formato uniforme; ciascun libro di quattrocentodieci pagine; ciascuna pagina, di quaranta righe; ciascuna riga, di quaranta lettere di colore nero. Vi sono anche delle lettere sulla costola di ciascun libro; non, per che indichino o prefigurino ciche diranno le pagine. So che questa incoerenza, un tempo, parve misteriosa. Prima d'accennare alla soluzione (la cui scoperta, a prescindere dalle sue tragiche proiezioni, forse il fatto capitale della storia) voglio rammentare alcuni assiomi.
Primo: La Biblioteca esiste ab aeterno. Di questa verit il cui corollario immediato l抏ternitfutura del mondo, nessuna mente ragionevole pudubitare. L'uomo, questo imperfetto bibliotecario, puessere opera del caso o di demiurghi malevoli; l'universo, con la sua elegante dotazione di scaffali, di tomi enigmatici, di infaticabili scale per il viaggiatore e di latrine per il bibliotecario seduto, non puessere che l'opera di un dio. Per avvertire la distanza che c'tra il divino e l'umano, basta paragonare questi rozzi, tremuli simboli che la mia fallibile mano sgorbia sulla copertina d'un libro, con le lettere organiche dell'interno: puntuali, delicate, nerissime, inimitabilmente simmetriche.
Secondo: Il numero dei simboli ortografici di venticinque . Questa constatazione permise, or sono tre secoli, di formulare una teoria generale della Biblioteca e di risolvere soddisfacentemente il problema che nessuna congettura aveva permesso di decifrare: la natura informe e caotica di quasi tutti i libri. Uno di questi, che mio padre vide nell抏sagono del circuito quindici novantaquattro, constava delle lettere M C V, perversamente ripetute dalla prima all'ultima riga. Un altro (molto consultato in questa zona) un mero labirinto di lettere, ma l'ultima pagina dice Oh tempo le tue piramidi. ormai risaputo: per una riga ragionevole, per una notizia corretta, vi sono leghe di insensate cacofonie, di farragini verbali e di incoerenze. (So d'una regione barbarica i cui bibliotecari ripudiano la superstiziosa e vana abitudine di cercare un senso nei libri, e la paragonano a quella di cercare un senso nei sogni o nelle linee caotiche della mano... Ammettono che gli inventori della scrittura imitarono i venticinque simboli naturali, ma sostengono che questa applicazione casuale, e che i libri non significano nulla di per s Questa affermazione, lo vedremo, non del tutto erronea).
Per molto tempo si credette che questi libri impenetrabili corrispondessero a lingue preterite o remote. Ora, vero che gli uomini piantichi, i primi bibliotecari, parlavano una lingua molto diversa da quella che noi parliamo oggi; vero che poche miglia a destra la lingua gidialettale, e novanta piani pisopra incomprensibile. Tutto questo, lo ripeto, vero, ma quattrocentodieci pagine di inalterabili M C V non possono corrispondere ad alcun idioma, per dialettale o rudimentale che sia. Alcuni insinuarono che ogni lettera poteva influire sulla seguente, e che il valore di M C V nella terza riga della pagina 71 non era lo stesso di quello che la medesima serie poteva avere in altra riga di altra pagina; ma questa vaga tesi non prosper Altri pensarono a una crittografia; quest抜potesi stata universalmente accettata, ma non nel senso in cui la formularono i suoi inventori.
Cinquecento anni fa, il capo d'un esagono superiore trovun libro tanto confuso come gli altri, ma in cui v'erano quasi due pagina di scrittura omogenea, verosimilmente leggibile. Mostrla sua scoperta a un decifratore ambulante questo gli disse che erano scritte in portoghese; altri gli dissero che erano scritte in yiddish. Potinfine stabilirsi, dopo ricerche che durarono quasi un secolo, che si trattava d'un dialetto samoiedo-lituano del guaran con inflessioni di arabo classico. Si decifranche il contenuto: nozioni di analisi combinatoria, illustrate con esempi di permutazioni a ripetizione illimitata. Questi esempi permisero a un bibliotecario di genio di scoprire la legge fondamentale della Biblioteca.
Questo pensatore osserva che tutti i libri, per diversi che fossero, constavano di elementi eguali: lo spazio, il punto, la virgola, le ventidue lettere dell'alfabeto. Stabil inoltre, un fatto che tutti i viaggiatori hanno confermato: non vi sono, nella vasta Biblioteca, due soli libri identici. Da queste premesse incontrovertibili dedusse che la Biblioteca totale, e che i suoi scaffali registrano tutte le possibili combinazioni dei venticinque simboli ortografici (numero, anche se vastissimo, non infinito) ciotutto cich'dato di esprimere, in tutte le lingue. Tutto: la storia minuziosa dell抋vvenire, le autobiografie degli arcangeli, il catalogo fedele della Biblioteca, migliaia e migliaia di cataloghi falsi, la dimostrazione della falsitdi questi cataloghi, la dimostrazione della falsitdel catalogo falso, l抏vangelo gnostico di Basilide, il commento di questo evangelo, il commento del commento di questo evangelo, il resoconto veridico della tua morte, la traduzione di ogni libro in tutte le lingue, le interpolazioni di ogni libro in tutti i libri.
Quando si proclamche la Biblioteca comprendeva tutti i libri, la prima impressione fu di straordinaria felicit Tutti gli uomini si sentirono padroni di un tesoro intatto e segreto. Non v抏ra problema personale o mondiale la cui eloquente soluzione non esistesse: in un qualche esagono. L'universo era giustificato, l抲niverso attingeva bruscamente le dimensioni illimitate della speranza. A quel tempo si parlmolto delle Vendicazioni: libri di apologia e di profezia che giustificavano per sempre gli atti di ciascun uomo dell'universo e serbavano arcani prodigiosi per il suo futuro. Migliaia di ambiziosi abbandonarono il dolce esagono natale e si lanciarono su per le scale, spinti dal vano proposito di trovare la propria Vendicazione.
Questi pellegrini s'accapigliavano negli stretti corridoi, profferivano oscure minacce, si strangolavano per le scale divine, scagliavano i libri ingannevoli nei pozzi senza fondo, vi morivano essi stessi, precipitativi dagli uomini di regioni remote. Molti impazzirono. Le Vendicazioni esistono (io ne ho viste due, che si riferiscono a persone da venire, e forse non immaginarie), ma quei ricercatori dimenticavano che la possibilitche un uomo trovi la sua, o qualche perfida variante della sua, sostanzialmente zero.
Anche si sper a quel tempo, nella spiegazione dei misteri fondamentali dell'umanit l抩rigine della Biblioteca e del tempo. verosimile che di questi gravi misteri possa darsi una spiegazione in parole: se il linguaggio dei filosofi non basta, la multiforme Biblioteca avrprodotto essa stessa l'inaudito idioma necessario, e i vocabolari e la grammatica di questa lingua. Gida quattro secoli gli uomini affaticano gli esagoni... Vi sono cercatori ufficiali, inquisitori. Li ho visti nell'esercizio della loro funzione: arrivano sempre scoraggiati; parlano di scale senza un gradino, dove per poco non s'ammazzarono; parlano di scale e di gallerie con il bibliotecario; ogni tanto, prendono il libro pivicino e lo sfogliano, in cerca di parole infami. Nessuno, visibilmente, s'aspetta di trovare nulla.
Alla speranza smodata, com'naturale, successe un'eccessiva depressione. La certezza che un qualche scaffale d'un qualche esagono celava libri preziosi e che questi libri preziosi erano inaccessibili, parve quasi intollerabile. Una setta blasfema suggerche s'interrompessero le ricerche e che tutti gli uomini si dessero a mescolare lettere e simboli, fino a costruire, per un improbabile dono del caso, questi libri canonici. Le autoritsi videro obbligate a promulgare ordinanze severe. La setta spar ma nella mia fanciullezza ho visto vecchi uomini che lungamente s'occultavano nelle latrine, con dischetti di metallo in un bossolo proibito, e debolmente rimediavano al divino disordine.
Altri, per contro, credettero che l'importante fosse di sbarazzarsi delle opere inutili. Invadevano gli esagoni, esibivano credenziali non sempre false, sfogliavano stizzosamente un volume e condannavano scaffali interi: al loro furore igienico, ascetico, si deve l'insensata distruzione di milioni di libri. Il loro nome esecrato, ma chi si dispera per i tesori che la frenesia di coloro distrusse, trascura due fatti evidenti. Primo: la Biblioteca cosenorme che ogni riduzione d'origine umana risulta infinitesima. Secondo: ogni esemplare unico, insostituibile, ma (poichla Biblioteca totale) restano sempre varie centinaia di migliaia di facsimili imperfetti, ciodi opere che non differiscono che per una lettera o per una virgola. Contrariamente all抩pinione generale, credo dunque che le conseguenze delle depredazioni commesse dai Purificatori siano state esagerate a causa dell'orrore che quei fanatici ispirarono. Li sospingeva l'idea delirante di conquistare i libri dell'Esagono Cremisi: libri di formato minore dei normali; onnipotenti, illustrati e magici.
Sappiamo anche d'un'altra superstizione di quel tempo: quella dell'Uomo del Libro. In un certo scaffale d'un certo esagono (ragionarono gli uomini) deve esistere un libro che sia la chiave e il compendio perfetto di tutti gli altri: un bibliotecario l'ha letto, ed simile a un dio. Nel linguaggio di questa zona si conservano alcune tracce del culto di quel funzionario remoto. Molti peregrinarono in cerca di Lui, si spinsero invano nelle pilontane gallerie. Come localizzare il venerando esagono segreto che l抩spitava? Qualcuno propose un metodo regressivo: per localizzare il libro A, consultare previamente il libro B; per localizzare il libro B, consultare previamente il libro C; e cosall'infinito... In avventure come queste ho prodigato e consumato i miei anni.
Non mi sembra inverosimile che in un certo scaffale dell'universo esista un libro totale ; prego gli d鑙 ignoti che un uomo - uno solo, e sia pure da migliaia d'anni! - l抋bbia trovato e l'abbia letto. Se l'onore e la sapienza e la felicitnon sono per me, che siano per altri. Che il cielo esista, anche se il mio posto all'inferno. Ch'io sia oltraggiato e annientato, ma che un istante, in un essere, la Tua enorme Biblioteca si giustifichi.
Affermano gli empche il nonsenso normale nella Biblioteca, e che il ragionevole (come anche l'umile e semplice coerenza) vi una quasi miracolosa eccezione. Parlano (lo so) della Biblioteca febbrile, i cui casuali volumi corrono il rischio incessante di mutarsi in altri, e tutto affermano, negano e confondono come una divinitin delirio Queste parole, che non solo denunciano il disordine, ma lo illustrano, testimoniano generalmente del pessimo gusto e della disperata ignoranza di chi le pronuncia. In realt la Biblioteca include tutte le strutture verbali tutte le variazioni permesse dai venticinque simboli ortografici, ma non un solo nonsenso assoluto. Inutile osservarmi che il miglior volume dei molti esagoni che amministro s'intitola Tuono pettinato, un altro Il crampo di gesso e un altro Axaxaxas ml Queste proposizioni, a prima vista incoerenti, sono indubbiamente suscettibili d'una giustificazione crittografica o allegorica; questa giustificazione verbale, e per ex hypothesi , gifigura nella Biblioteca. Non posso immaginare alcuna combinazione di caratteri
dhcmrlchtdj
che la divina Biblioteca non abbia previsto, e che in alcuna delle sue lingue segrete non racchiuda un terribile significato. Nessuno puarticolare una sillaba che non sia piena di tenerezze e di terrori; che non sia, in alcuno di quei linguaggi, il nome poderoso di un dio. Parlare incorrere in tautologie. Questa epistola inutile e verbosa giesiste in uno dei trenta volumi dei cinque scaffali di uno degli innumerabili esagoni - e cospure la sua confutazione. (Un numero n di lingue possibili usa lo stesso vocabolario; in alcune, il simbolo biblioteca ammette la definizione corretta di sistema duraturo e ubiquitario di gallerie esagonali, ma biblioteca sta qui per pane, o per piramide, o per qualsiasi altra cosa, e per altre cose stanno le sette parole che la definiscono. Tu, che mi leggi, sei sicuro d'intendere la mia lingua ?)
Lo scrivere metodico mi distrae dalla presente condizione degli uomini, cui la certezza di ci che tutto sta scritto, annienta o istupidisce. So di distretti in cui i giovani si prosternano dinanzi ai libri e ne baciano con barbarie le pagine, ma non sanno decifrare una sola lettera. Le epidemie, le discordie eretiche, le peregrinazioni che inevitabilmente degenerano in banditismo, hanno decimato la popolazione. Credo di aver giaccennato ai suicidi, ogni anno pifrequenti. M'inganneranno, forse, la vecchiezza e il timore, ma sospetto che la specie umana - l'unica - stia per estinguersi, e che la Biblioteca perdurer l'illuminata, solitaria, infinita, perfettamente immobile, armata di volumi preziosi, inutile, incorruttibile, segreta.
Aggiungo: infinita. Non introduco quest'aggettivo per un'abitudine retorica; dico che non illogico pensare che il mondo sia infinito. Chi lo giudica limitato, suppone che in qualche luogo remoto i corridoi e le scale e gli esagoni possano inconcepibilmente cessare; ciche assurdo. Chi lo immagina senza limiti, dimentica che limitato il numero possibile dei libri. Io m'arrischio a insinuare questa soluzione: La Biblioteca illimitata e periodica. Se un eterno viaggiatore la traversasse in una direzione qualsiasi, constaterebbe alla fine dei secoli che gli stessi volumi si ripetono nello stesso disordine (che, ripetuto, sarebbe un ordine: l扥rdine). Questa elegante speranza rallegra la mia solitudine .
1941 . Mar della Plata.



Il giardino dei sentieri che si biforcano

a Victoria Ocampo

A pagina 252 della Storia della Guerra europea di Liddel Hart, si legge che un抩ffensiva di tredici divisioni britanniche (appoggiate da millequattrocento pezzi d抋rtiglieria) contro la linea Serre-Montauban era stata decisa per il 24 luglio 1916, dovette essere ritardata fino alla mattina del 29. Questo ritardo (secondo il capitano Liddell Hart) si dovette unicamente alle piogge torrenziali. La seguente deposizione, dettata, riletta e firmata dal dottor Yu Tsun, ex professore d抜nglese alla Hochschule di Tsingtao, getta sul caso una luce insospettata. Mancano le due pagine iniziali.
... e riappesi il ricevitore. Immediatamente dopo riconobbi la voce che aveva risposto in tedesco. Era quella del capitano Richard Madden. Il fatto che Madden si trovasse nell抋ppartamento di Viktor Runeberg significava la fine dei nostri affanni e anche - ma questo pareva molto secondario, o almeno doveva parermi tale - delle nostre vite. Significava che Runeberg era stato arrestato, o assassinato Prima che declinasse il sole di quel giorno, io avrsubito la stessa sorte. Madden era implacabile. O meglio: era costretto a essere implacabile. Irlandese agli ordini dell扞nghilterra, uomo accusato di tepidezza e forse di tradimento, come non avrebbe profittato e gioito di questo miracoloso favore: la cattura, forse la morte, di due agenti dell扞mpero tedesco? Salii nella mia stanza; chiusi a chiave, assurdamente, la porta, e mi stesi sullo stretto letto di ferro. Dietro la finestra aperta c抏rano i tetti di sempre e il sole obnubilato delle sei. Mi parve incredibile che questo giorno senza premonizioni nsimboli fosse quello della mia morte implacabile. Con tutto questo: che mio padre era morto; con tutto questo: che ero stato bambino nel simmetrico giardino di Hai Feng: io, ora, stavo per morire? Poi riflettei che ogni cosa, a ognuno, accade precisamente, precisamente ora. Secoli e secoli, e solo nel presente accadono i fatti; innumerevoli uomini nell抋ria, sulla terra e sul mare, e tutto ciche realmente accade, accade a me... Il ricordo quasi intollerabile del volto cavallino di Madden abolqueste divagazioni. Nel mezzo del mio odio e del mio terrore (ora non m抜mporta di parlare di terrore: ora che ho beffato Richard Madden, ora che la mia gola anela la corda) pensai che quel guerriero tumultuoso e indubbiamente felice non sospettava che io possedessi il Segreto: il nome del luogo preciso in cui erano postate le artiglierie dell扻I Parco britannico sull扐ncre. Un uccello che rigil cielo grigio, macchinalmente lo tradussi in un aeroplano, e questo aeroplano in molti (nel cielo francese), che annientavano il parco d抋rtiglieria con bombe verticali. Se la mia bocca, prima che una palla la fracassasse, avesse potuto gridare questo nome in modo che l抲dissero in Germania... La mia voce umana era poverissima. Come farla giungere all抩recchio del Capo? All抩recchio di quell抲omo odioso e malaticcio, che nulla sapeva di Runeberg e di me se non che eravamo nello Staffordshire e che invano s抋spettavano notizie nostre nell抋rido ufficio berlinese dov抏gli era seduto, sfogliando infinitamente i giornali... Dissi a voce alta: 揇ebbo fuggire Mi levai senza rumore, in una inutile perfezione di silenzio, come se Madden gistesse spiandomi. Qualcosa - forse il mero desiderio d抲na prova ostensibile che le mie risorse erano nulle - mi persuase a una rivista delle mie tasche. Vi trovai ciche gisapevo vi avrei trovato. L抩rologio nordamericano, la catena di nichel con la sua medaglia rettangolare, il portachiavi con le compromettenti e inutili chiavi dell抋ppartamento di Runenberg, il taccuino, una lettera che decisi di distruggere immediatamente (e che non distrussi), il passaporto falso, una corona, due scellini e alcuni pence, la matita rossa e blu, il fazzoletto, la rivoltella con una pallottola. Assurdamente la impugnai e la soppesai per farmi coraggio. Pensai vagamente che un colpo di pistola puudirsi da molto lontano. In dieci minuti il mio piano era pronto. La guida telefonica mi dette il nome dell抲nica persona capace di trasmettere la notizia: viveva in un sobborgo di Fenton, a meno di mezz抩ra di treno.
Sono un uomo codardo. Ora lo dico, ora che ho condotto a termine un piano di cui nessuno potrdire che non fosse arrischiato. Io so che la sua esecuzione fu terribile. Non lo feci, no, per la Germania. Nulla m抜mporta d抲n paese barbaro, che m抙a obbligato alla condizione abietta di spia. E poi so d抲n uomo d扞nghilterra - un uomo modesto - che per me non meno di Goethe. Non parlai con lui pidi un抩ra, ma durante un抩ra fu Goethe... Lo feci, perch sentivo che il Capo teneva a vili quelli della mia razza - gli antenati innumeri che confluiscono in me. Volevo provargli che un giallo poteva salvare i suoi eserciti. Ora io dovevo sfuggire al capitano. Le sue mani e la sua voce potevano battere da un momento all抋ltro alla mia porta. Mi vestii senza rumore, mi dissi addio allo specchio, scesi, scrutai la strada deserta e tranquilla, e partii. La stazione non era molto distante, ma giudicai preferibile prendere una vettura. Mi dissi che in questo modo correvo meno pericolo d抏ssere riconosciuto; il fatto che nella strada deserta mi sentivo infinitamente visibile e vulnerabile. Ricordo che dissi al conducente di fermare un poco prima dell抏ntrata centrale. Scesi con lentezza voluta e quasi penosa Andavo al villaggio di Ashgrove, ma presi un biglietto per una stazione pidistante. Il treno partiva tra pochi minuti, alle otto e cinquanta. M抋ffrettai; il treno seguente non sarebbe partito che alle nove e mezzo. Non v抏ra quasi nessuno sulla banchina. Percorsi i vagoni: ricordo alcuni contadini, una donna in lutto, un giovane che leggeva con fervore gli Annali di Tacito, un soldato ferito e felice. Il convoglio infine si mosse. Un uomo che riconobbi corse invano fino al termine della banchina. Era il capitano Richard Madden. Annichilato, tremante, mi rifugiai all抋ltro estremo del corridoio, lontano dal temuto cristallo.
Da questo annichilamento passai a una felicitquasi abietta. Mi dissi che il duello era ormai impegnato e che avevo guadagnato il primo assalto, sventando - anche se per quaranta minuti, anche se per un favore del caso - l抋ttacco del mio avversario. Pensai che questa vittoria minima prefigurava la vittoria totale. Pensai che non era minima, poichsenza il prezioso intervallo che l抩rario dei treni m抩ffriva gisarei stato in carcere, o gisarei morto. Pensai (non meno sofisticamente) che la mia codarda felicitstava a provare che ero uomo da portare a buon fine l抋vventura. Da questa debolezza trassi forze che non m抋bbandonarono. Prevedo che l抲omo si rassegnera imprese ogni giorno piatroci; presto non vi saranno piche guerrieri e banditi; do loro questo consiglio: l抏secutore di un抜mpresa atroce immagini d抋verla gicompiuta, s抜mponga un futuro che sia irrevocabile come il passato. Cosprocedetti io stesso, mentre i miei occhi d抲omo gimorto registravano il fluire di quel giorno che forse era l抲ltimo, e la diffusione della notte. Il treno correva dolcemente, tra i frassini. Si fermquasi in mezzo alla campagna. Nessuno gridil nome della stazione. - Ashgrove? - chiesi a dei ragazzetti sulla banchina. - Ashgrove, - risposero. Scesi.
Una lampada illuminava la banchina, ma i volti dei ragazzi restavano nella zona d抩mbra. Uno mi chiese: - Lei va dal dottor Stephen Albert? - Senza aspettare che rispondessi, un altro disse: - lontano di qui, ma lei non si perderse prende questo sentiero a sinistra, e se poi volta a sinistra a ogni crocicchio. - Gettai loro una moneta (l抲ltima), scesi qualche gradino di pietra e presi per il sentiero solitario. Questo, lentamente, scendeva. Era di terra battuta, in alto i rami si confondevano, la luna bassa e circolare sembrava accompagnarmi.
Per un istante, temei che Richard Madden avesse penetrato il mio disperato proposito. Ma subito compresi che non era possibile. Il consiglio di voltare sempre a sinistra mi rammentche era questo il procedimento comune per scoprire la radura centrale di certi labirinti. M抜ntendo un poco di labirinti: non invano sono bisnipote di quel Ts抲i P阯 che fu governatore dello Yunnan e che rinunzial potere temporale per scrivere un romanzo che fosse ancor pipopoloso del Hung Lu Meng, e per costruire un labirinto in cui ogni uomo si perdesse. Tredici anni dedica queste eterogenee fatiche, ma la mano d抲no straniero lo assassine il suo romanzo era insensato e nessuno trovil labirinto. Sotto alberi inglesi meditai su quel labirinto perduto: lo immaginai inviolato e perfetto sulla cima segreta d抲na montagna; lo immaginai subacqueo, cancellato dalle risaie; lo immaginai infine, non gidi chioschi ottagonali e di sentieri che voltano, ma di fiumi e di province e di regni... Pensai a un labirinto di labirinti, a un labirinto sinuoso e crescente che abbracciasse il passato e l抋vvenire, e che implicasse in qualche modo anche gli astri. Assorto in queste immagini illusorie, dimenticai il mio destino d抲omo inseguito. Mi sentii, per un tempo indeterminato, percettore astratto del mondo. La campagna vaga e vivente, la luna, i resti del tramonto operarono in me; cosanche il declivio, che eliminava ogni possibilitdi fatica. La sera era intima, infinita. Il sentiero scendeva e si biforcava, tra i campi giconfusi. Una musica acuta e come sillabica s抋vvicinava e s抋llontanava nel va e vieni del vento, appannata di foglie e di distanza. Pensai che un uomo puessere nemico di altri uomini, di altri momenti di altri uomini, ma non d抲n paese: non di lucciole, di parole, di giardini, di corsi d抋cqua, di tramonti. Giunsi, cos a un alto cancello arrugginito. Di tra le sbarre, decifrai un viale e una specie di padiglione. Compresi subito due cose, la prima banale, la seconda incredibile: la musica veniva dal padiglione, la musica era cinese. Per questo l抋vevo accettata senza residuo, senza prestarle attenzione. Non ricordo se vi fosse un campanello, o un battaglio, o se chiamai battendo le mani. Il crepitio della musica continu
Ma dal fondo del giardino una lanterna s抋vvicinava: una lanterna che i tronchi rigavano e ogni poco annullavano una lanterna di carta, che aveva la forma dei tamburi e il colore della luna. La portava un uomo alto. Non vidi il suo volto, che restava nell抩mbra. April cancello e disse lentamente nella mia lingua:
- Vedo che il pietoso Hsi P掙ng procura di alleviare la mia s騦itudine. Lei vorrsenza dubbio vedere il giardino?
Riconobbi il nome d抲no dei nostri consoli e ripetei sconcertato: - Il giardino?
- Il giardino dei sentieri che si biforcano.
Qualcosa si agitnel mio ricordo e pronunciai con incomprensibile sicurezza: Il giardino del mio antenato Ts抲i P阯.
- Il suo antenato? Il suo illustre antenato? Avanti.
L抲mido sentiero s抋llungava a zig-zag come quelli della mia infanzia. Giungemmo a una biblioteca di libri orientali e occidentali. Riconobbi, rilegati in seta gialla, alcuni tomi manoscritti dell扙nciclopedia Perduta che diresse il Terzo imperatore della Dinastia Luminosa, e che non fu mai stampata. Il disco del grammofono girava presso una fenice di bronzo. Ricordo anche una grande giara dell抏poca rosa e un抋ltra, anteriore di parecchi secoli, di quel color azzurro che i nostri artisti copiarono dai vasai di Persia...
Stephen Albert mi osservava, sorridente. Era (l抙o gidetto) molto alto, di tratti affilati, con occhi grigi e barba grigia. V抏ra in lui qualcosa del sacerdote e anche del marinaio; mi disse poi d抏ssere stato missionario a Tientsin 損rima di aspirare a sinologo
Ci sedemmo; io su un divano lungo e basso, lui di spalle alla finestra e a un alto orologio circolare. Calcolai che il mio inseguitore non sarebbe arrivato prima di un抩ra. La mia irrevocabile determinazione poteva aspettare.
- Strano destino quello di Ts抲i P阯, - disse Stephen Albert. - Governatore della sua provincia natale, dotto in astronomia, in astrologia e nell抜nterpretazione infaticabile dei libri canonici, scacchista, famoso poeta e calligrafo: tutto abbandonper comporre un libro e un labirinto. Rinunciai piaceri dell抩ppressione, dell抜ngiustizia, del letto numeroso, dei banchetti e anche dell抏rudizione, e si chiuse per tredici anni nel Padiglione della limpida Solitudine. Alla sua morte, i suoi eredi non trovarono che manoscritti caotici. La famiglia, come lei forse non ignora, volle darli alle fiamme; ma il suo esecutore testamentario - un monaco taoista o buddista - insistette per la pubblicazione.
- Noi del sangue di Ts抲i P阯, - replicai, - continuiamo a esecrare quel monaco. La pubblicazione fu insensata. Il libro una confusa farragine di varianti contraddittorie. Una volta l抏saminai: nel terzo capitolo l抏roe muore, nel quarto vivo. E quanto all抋ltra impresa di Ts抲i P阯, al suo Labirinto...
- Ecco il Labirinto, - disse indicandomi un alto scrittoio di lacca.
- Un labirinto d抋vorio! - esclamai. - Un labirinto minimo...
- Un labirinto di simboli, - corresse. - Un invisibile labirinto di tempo. A me, barbaro inglese, stato dato di svelare questo mistero diafano. A distanza di pidi cent抋nni, i particolari sono irrecuperabili, ma non difficile immaginare ciche accadde. Ts抲i P阯 avrdetto qualche volta. 揗i ritiro a scrivere un libro E qualche altra volta: 揗i ritiro a costruire un labirinto Tutti pensarono a due opere; nessuno pensche libro e labirinto fossero una cosa sola. Il Padiglione della Limpida Solitudine sorgeva nel centro di un giardino forse intricato; il fatto puaver suggerito agli uomini l抜dea di un labirinto fisico. Ts抲i P阯 mori; nessuno, nelle vaste terre che erano state sue, trovil labirinto; fu la confusione del romanzo a suggerirmi che il labirinto fosse il romanzo stesso. Due circostanze mi dettero la retta soluzione del problema. Una: la curiosa leggenda secondo cui Ts抲i P阯 s抏ra proposto un labirinto che fosse strettamente infinito. L抋ltra: una frase in una lettera che scoprii. Albert si alz Per qualche istante mi voltle spalle; aprun cassetto del dorato e annerito scrittoio. Torncon un sottile foglio a quadretti, che era stato cremisi e ora era rosa. La fama di calligrafo di Ts抲i P阯 era giusta. Lessi con incomprensione e fervore queste parole che con meticoloso pennello tracciun uomo del mio sangue: 揕ascio ai diversi futuri (non a tutti) il mio giardino dei sentieri che si biforcano Resi il foglio in silenzio. Albert prosegu
- Prima di ritrovare questa lettera, m抏ro chiesto in che modo un libro potesse essere infinito. Non potei pensare che a un volume ciclico, circolare: un volume la cui ultima pagina fosse identica alla prima, con la possibilitdi continuare indefinitamente. Mi rammentai anche della notte centrale delle Mille e una notte, dove la regina Shahrazad (per una magica distrazione del copista) si mette a raccontare testualmente la storia delle Mille e una notte, a rischio di tornare un抋ltra volta alla notte in cui racconta, e cosall抜nfinito. Pensai anche a un抩pera platonica, ereditaria, da trasmettersi di padre in figlio, e alla quale ogni nuovo individuo avrebbe aggiunto un capitolo, e magari corretto, con zelo pietoso, le pagine dei padri. Queste congetture mi attrassero; ma nessuna sembrava corrispondere, sia pure in modo remoto, ai contraddittori capitoli di Ts抲i P阯. Ero in questa perplessit quando mi fecero avere da Oxford l抋utografo che lei ha esaminato. Mi colp naturalmente, la frase: 揕ascio ai diversi futuri (non a tutti) il mio giardino dei sentieri che si biforcano Quasi immediatamente compresi; il giardino dei sentieri che si biforcano era il romanzo caotico; le parole ai diversi futuri (non a tutti) mi suggerirono l抜mmagine della biforcazione nel tempo, non nello spazio. Una nuova lettura di tutta l抩pera mi confermin quest抜dea. In tutte le opere narrative, ogni volta che s掕 di fronte a diverse alternative ci si decide per una e si eliminano le altre; in quella del quasi inestricabile Ts抲i P阯, ci si decide - simultaneamente - per tutte. Si creano, cos diversi futuri, diversi tempi, che a loro volta proliferano e si biforcano. Di qui le contraddizioni del romanzo. Fang - diciamo - ha un segreto; uno sconosciuto batte alla sua porta; Fang decide di ucciderlo. Naturalmente, vi sono vari scioglimenti possibili: Fang puuccidere l抜ntruso, l抜ntruso puuccidere Fang, entrambi possono salvarsi, entrambi possono restare uccisi, eccetera. Nell抩pera di Ts抲i P阯, questi scioglimenti vi sono tutti; e ognuno il punto di partenza di altre biforcazioni. Talvolta i sentieri di questo labirinto convergono: per esempio, lei arriva in questa casa, ma in uno dei passati possibili lei mio amico, in un altro mio nemico. Se si rassegna alla mia pronuncia incurabile, leggeremo qualche pagina.
II suo volto, nel cerchio vivido del lume, era indubbiamente quello d抲n uomo anziano, ma con qualcosa d抜nfrangibile e anche d抜mmortale. Lesse con lenta precisione due versioni di uno stesso capitolo epico. Nella prima, un esercito marcia alla battaglia attraverso una montagna deserta; l抩rrore delle pietre e dell抩mbra gli fa disprezzare la vita, onde ottiene facilmente la vittoria; nella seconda, lo stesso esercito attraversa un palazzo in cui in corso una festa; la risplendente battaglia gli pare una continuazione della festa, onde ottiene la vittoria. Io ascoltavo con rispettosa venerazione queste antiche finzioni, forse meno ammirevoli del fatto che le avesse ideate un uomo del mio sangue, e che me le restituisse un uomo d抲n impero remoto, nel corso d抲na disperata avventura, in un抜sola occidentale. Ricordo le parole finali, ripetute in entrambe le versioni come per un comando segreto: 揅oscombatterono gli eroi, tranquillo e ammirevole il cuore, violenta la spada, rassegnati a uccidere o a morire
Da quell抜stante, sentii intorno a me e in me, nel mio corpo oscuro, un invisibile, intangibile pullulare. Non il pullulare dei divergenti, paralleli e finalmente coalescenti eserciti, ma un抋gitazione piinaccessibile, piintima, e che coloro, in qualche modo, prefiguravano. Albert prosegu
- Non credo che il suo illustre antenato giudicasse oziose queste varianti. Non giudico inverosimile che sacrificasse tredici anni dell抜nfinita esecuzione d抲n esperimento retorico. Nel suo paese, il romanzo un genere subalterno; a quel tempo era un genere disprezzato. Ts抲i P阯 fu romanziere geniale, ma fu anche un uomo di lettere che non si consider indubbiamente, semplice romanziere. La testimonianza dei suoi contemporanei proclama - e bene le conferma la sua vita - le sue tendenze metafisiche, mistiche. La controversia filosofica ha gran parte nel suo romanzo. So che, di tutti i problemi, nessuno l抜nquietnlo travaglipidell抋bissale problema del tempo. Ebbene, questo l抲nico problema di cui non sia mai questione nelle pagine del Giardino. La stessa parola che significa tempo non vi ricorre mai, in nessun caso. Come spiega lei questa volontaria omissione?
Proposi varie soluzioni, tutte insufficienti. Le discutemmo. Alla fine, Stephen Albert mi disse:
- In un indovinello sulla scacchiera, qual l抲nica parola proibita?
Riflettei un momento e risposi:
- La parola scacchiera.
- Precisamente, - disse Albert. - Il giardino dei sentieri che si biforcano un enorme indovinello, o parabola, il cui tema il tempo: questa causa recondita a vietare la menzione del suo nome. Omettere sempre una parola, ricorrere a metafore inette e a perifrasi evidenti, forse il modo pienfatico di indicarla. il modo tortuoso che prefer in ciascun meandro del suo infaticabile romanzo, l抩bliquo Ts抲i P阯. Ho confrontato centinaia di manoscritti, ho corretto gli errori introdotti dalla negligenza dei copisti, ho congetturato il piano di questo caos, ho ristabilito, o creduto di ristabilire, l抩rdine primitivo, ho tradotto l抩pera intera: non vi ho incontrato una sola volta la parola tempo. La spiegazione ovvia. Il giardino dei sentieri che si biforcano una immagine incompleta, ma non falsa, dell抲niverso quale lo concepiva Ts抲i P阯. A differenza di Newton e di Schopenhauer, il suo antenato non credeva in un tempo uniforme, assoluto. Credeva in infinite serie di tempo; in una rete crescente e vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli. Questa trama di tempi che s抋ccostano, si biforcano, si tagliano o s抜gnorano per secoli, comprende tutte le possibilit Nella maggior parte di questi tempi noi non esistiamo; in alcuni esiste lei e io no; in: altri io, e non lei; in altri, entrambi. In questo, che un caso favorevole mi concede, lei venuto a casa mia; in un altro, traversando il giardino, lei mi ha trovato cadavere; in un altro io dico queste medesime parole, ma sono un errore, un fantasma.
- In tutti, - articolai non senza un tremito, - io gradisco e venero la sua ricostruzione del giardino di Ts抲i P阯
- Non in tutti, - mormorcon un sorriso. - Il tempo si biforca perpetuamente verso innumerevoli futuri. In uno di questi io sono suo nemico.
Tornai ad accorgermi di quel pullulare che ho detto. Mi parve che l抲mido giardino che circondava la casa fosse saturo all抜nfinito di persone invisibili. Queste persone erano Albert e io, segreti, affaccendati e multiformi in altre dimensioni del tempo. Alzai gli occhi e l抜ncubo leggero si dissip Nel giardino giallo e nero c抏ra un solo uomo; ma quest抲omo era forte come una statua; ma quest抲omo avanzava per il sentiero ed era il capitano Richard Madden.
- Il futuro esiste gi - risposi, - ma io sono suo amico. Posso esaminare di nuovo la lettera?
- Albert si alz Alto, april cassetto dell抋lto scrittoio; mi volse un momento le spalle. Io avevo preparato la rivoltella. Mirai con somma attenzione: Albert crollsenza un lamento, immediatamente. Giuro che la sua morte fu istantanea: una folgorazione.
Il resto irreale, insignificante. Madden irruppe, m抋rrest Sono stato condannato alla forca. Abominevolmente, ho vinto: ho comunicato a Berlino il nome segreto della cittda attaccare. L抙anno bombardata ieri, l抙o letto negli stessi giornali che hanno proposto all扞nghilterra quest抏nigma: perchil dotto sinologo Stephen Albert fosse stato assassinato da uno sconosciuto, Yu Tsun. Il Capo ha decifrato l抏nigma. Sapeva che il mio problema era di indicare (attraverso lo strepito della guerra) 1a cittche si chiama Albert, e che non ho trovato altro mezzo che uccidere una persona di questo nome. Non sa (nessuno pusapere) la mia innumerabile contrizione e stanchezza

Funes o della memoria


Lo ricordo (io non ho diritto di pronunciare questo verbo sacro; un uomo solo, sulla terra, ebbe questo diritto, e quest'uomo morto), e ricordo la passiflora oscura che teneva nella mano, vedendola come nessuno vide mai questo fiore, nmai lo vedr anche se l'avrguardato dal crepuscolo del giorno a quello della notte, per una vita intera. Ricordo il suo volto taciturno dai tratti d'indiano, singolarmente remoto dietro la sigaretta. Ricordo (credo) le sue mani affilate d'intrecciatore; ricordo presso queste mani un servizio da mat con le armi della Banda Orientale; ricordo a una finestra della sua casa una tenda gialla, con un vago paesaggio lacustre. Ricordo chiaramente la sua voce; la voce posata, nasale e un poco lamentosa dell'orillero antico, senza le sibilanti italiane di oggi. Non l'ho visto pidi tre volte; l'ultima nel 1887... M'parso un progetto: felice quello di chiedere a tutti coloro che lo conobbero di scrivere su di lui; la mia testimonianza sarforse la pibreve, certo la pipovera, ma non la meno imparziale del volume che si va preparando. La mia deplorevole condizione di argentino mi impedirdi cadere nel ditirambo - genere obbligatorio in Uruguay quando il tema un'uruguayano Letterato, persona colta, bonaerense; Funes non pronunciqueste parole ingiuriose, ma sono abbastanza sicuro che io rappresentavo per lui queste sventure.- Pedro Leandro Ipuche ha scritto che Funes fu un precursore dei superuomini, 搖no Zarathustra selvatico e vernacolare non lo metto in dubbio, ma non si deve dimenticare che fu anche un cittadino di Fray Bentos, con certe incurabili limitazioni.
Il mio primo ricordo di Funes assai netto. Lo vedo in una sera di marzo o di febbraio del 1884. Mio padre, quell'anno, m'aveva portato in villeggiatura a Fray Bentos. Stavo tornando con mio cugino Bernardo Haedo dalla tenuta San Francisco. Tornavamo cantando, a cavallo, e questa non era la sola ragione della mia felicit Dopo una giornata soffocante, un'enorme tempesta color ardesia aveva oscurato il cielo. L'incitava il vento del sud, giimpazzivano gli alberi; io temevo (e speravo) che lo scatenarsi dell'acqua ci sorprendesse in aperta campagna. Corremmo una specie di corsa con la tempesta. Entrammo in una stradetta che affondava tra due altissimi marciapiedi di mattoni. D'un colpo s'era fatto buio; udii in alto passi rapidi, quasi segreti; alzai gli occhi e vidi un ragazzo che correva per lo stretto e rovinato marciapiede come su uno stretto e rovinato muro. Ricordo le sue scarpe di corda; ricordo, contro la gisterminata nuvolaglia, la sua sigaretta e il suo volto duro. Bernardo gli grid imprevedutamente: Che ore sono, Ireneo? - Senza consultare il cielo, senza fermarsi, l'altro rispose: - Mancano quattro minuti alle otto, ragazzo Bernardo Juan Francisco - La voce era acuta, burlesca.
Sono cosdistratto che questo dialogo non avrebbe attirato la mia attenzione se non l'avesse richiamata mio cugino, cui stimolavano (credo) un certo orgoglio locale e il desiderio di mostrarsi indifferente alla replica tripartita dell'altro.
Mi disse che il ragazzo della stradetta era un certo Ireneo Funes, celebre per alcune stranezze, come quella di non frequentare nessuno e di saper sempre l'ora come un orologio. Aggiunse che erra figlio d'una stiratrice del paese, Maria Clementina Funes, e che suo padre, secondo alcuni, secondo altri, un rachero del distretto del Salto. Viveva con sua madre in una fattoria dietro la villa dei Lauri.
Le estati dell'85 e dell'86 le passammo a Montevideo. Nell'87 tornai a Fray Bentos. Chiesi, com'e naturale, di tutti quelli che conoscevo, e da ultimo, del 揷ronometrico Funes Mi risposero che era stato travolto da un cavallo selvaggio nella tenuta San Francisco ed era rimasto paralizzato, senza speranza. Ricordo l'impressione di spiacevole stranezza che mi fece questa notizia: l'unica volta che l'avevo visto, noi venivamo a cavallo da San Francisco e lui camminava in alto; la disgrazia, nel racconto di mio cugino Bernardo, aveva molto d'un sogno elaborato con elementi anteriori. Mi dissero che non si moveva dalla branda, gli occhi fissi su un albero di fico in giardino, o su una tela di ragno. Verso sera, lasciava che l'avviciassero alla finestra. Spingeva la superbia al punto da simulare che il colpo che l'aveva fulminato fosse stato benefico... Due volte lo vidi dietro l'inferriata, che grossamente sottolineava la sua condizione di eterno prigioniero; una volta, immobile, con gli occhi chiusi; un'altra, sempre immobile, assorto nella contemplazione d'un odoroso rametto di santonina.
Non senza qualche vanagloria, io avevo cominciato a quel tempo lo studio metodico del latino. Avevo nella valigia il De viribus illustribus di Lhomond, il Thesaurus di Quicherat, i commentari di Giulio Cesare e un volume spaiato della Naturalis Historia di Plinio, che eccedeva (e continua a eccedere) le mie modiche virtdi latinista. In un piccolo paese, tutto si viene a sapere; Ireneo, nel suo rancho sulla costa, non tarda sapere dell'arrivo di questi libri anomali. Mi manduna lettera fiorita e cerimoniosa in cui ricordava il nostro incontro, disgraziatamente fugace, 揹el giorno sette febbraio dell'anno ottantaquattro esaltava i brillanti servizi che don Gregorio Haedo, mio zio, deceduto in quello stesso anno, 搑ese alle nostre due patrie nella gloriosa giornata di Ituzaing髷, e mi pregava di prestargli uno qualsiasi di quei volumi, insieme con un dizionario 損er la buona intelligenza del testo originale, poichignoro ancora il latino Prometteva di restituirli in buono stato e quasi immediatamente. La scrittura era perfetta, molto allungata; l'ortografia, del tipo auspicato da Andr鑣 Bello: i per y, j per g. Lper l naturalmente, temetti una burla. I miei cugini mi assicurarono che no, che erano cose di Ireneo. Non seppi se attribuire a trascuraggine, a ignoranza o a stupiditl'idea che per l'arduo latino bastasse, come solo strumento, un dizionario; per disingannarlo interamente gli mandai il Gradus ad Parnassum di Quicherat e il volume di Plinio.
Il I4 febbraio mi telegrafarono da Buenos Aires che tornassi immediatamente, perchmio padre non stava 搉iente bene Dio mi perdoni; il prestigio che mi valeva l'esser destinatario d'un telegramma urgente, il desiderio di comunicare a tutta Fray Bentos la contraddizione tra la forma negativa della notizia e la perentorietdell'avverbio, la tentazione di drammatizzare la mia sofferenza fingendo uno stoicismo virile, tutto questo, forse, mi tolse ogni possibilitdi dolore. Nel far la valigia, notai che mi mancavano il Gradus e la Naturalis Historia. Il Saturno salpava il giorno dopo, di mattina; quella sera, dopo cena, m'incamminai verso la casa di Funes.
Nel rancho ben tenuto fui ricevuto dalla madre di Funes. Mi disse che Ireneo era nella stanza di fondo e che non mi meravigliassi di trovarlo allo scuro, perchsoleva passare le ore morte senza accendere la candela. Attraversai il patio lastricato, un andito breve; giunsi al secondo patio. C'era una pergola; l'oscuritpotsembrarmi totale. Udii d'un tratto la voce alta e burlesca di Ireneo. Questa voce parlava in latino; questa voce (che veniva dalla tenebra) articolava con dilettazione morosa un discorso, o preghiera, o incanto. Risonavano le sillabe romane nel patio di terra; il mio timore le credette indecifrabili, interminabili poi, nell'enorme dialogo di quella notte, seppi ch'erano il primo paragrafo del capitolo ventesimoquarto del libro settimo della Naturalis Historia. L'argomento di questo capitolo la memoria; le ultime parole furono ut nihil non iisdem verbis redereretur auditum.
Senza il minimo cambiamento di voce, Ireneo mi disse d'entrare. Stava sulla branda, fumando. Mi pare che non vidi la sua faccia fino all'alba; credo di rammentare la brace della sua sigaretta, ravvivata a momenti. La stanza odorava vagamente d'umidit Mi sedetti; ripetei la storia del telegramma e della malattia di mio padre.
Giungo, ora, al punto pidifficile del mio racconto; il quale (bene che il lettore lo sappia fin d'ora) non ha altro tema che questo dialogo di mezzo secolo fa. Non tenterdi riprodurne le parole, ormai irrecuperabili. Preferisco riassumere con veracitle molte cose che Ireneo mi venne dicendo. La forma indiretta remota e debole; so che sacrifico l'efficacia del mio racconto; lascio al lettore di immaginare i frastagliati periodi che m'incantarono quella notte.
Ireneo comincicon l'enumerare, in latino e in spagnolo, i casi di memoria prodigiosa registrati dalla Naturalis Historia: Ciro, re dei persiani, che sapeva chiamare per nome tutti i soldati del suo esercito; Mitridate Eupatore, che amministrava la giustizia nelle ventidue lingue del suo impero; Simonide, inventore della mnemotecnica; Metrodoro, che professava l'arte di ripetere fedelmente ciche avesse ascoltato una sola volta. Con evidente buona fede, si meravigliche simili casi potessero sorprendere. Mi disse che prima di quella sera piovigginosa in cui il cavallo lo travolse, era stato ciche sono tutti i cristiani: un cieco, un sordo, uno stordito, uno smemorato. (Cercai di ricordargli la sua esatta percezione del tempo, la sua memoria dei nomi propri, ma non m'ascolt . Per diciannove anni aveva vissuto come chi sogna: guardava senza vedere, ascoltava senza udire, dimenticava tutto, o quasi tutto. Cadendo, perdette i sensi; quando li riacquist il presente era quasi intollerabile tanto era ricco e nitido, e cospure i ricordi piantichi e banali. Poco dopo s'accorse della paralisi; la cosa appena l'interess ragion(sent che l'immobilitera un prezzo minimo; ora la sua percezione e la sua memoria erano infallibili.
Noi, in un'occhiata, percepiamo: tre bicchieri su una tavola. Funes: tutti i tralci, i grappoli e gli acini d'una pergola. Sapeva le forme delle nubi australi dell'alba del 30 aprile 1882, e poteva confrontarle, nel ricordo, con la copertina marmorizzata d'un libro che aveva visto una sola volta, o con le spume che sollevun remo, nel Rio Negro, la vigilia della battaglia di Quebracho. Questi ricordi non erano semplici: ogni immagine visiva era legata a sensazioni muscolari, termiche, ecc. Poteva ricostruire tutti i sogni dei suoi sonni, tutte le immagini dei suoi dormiveglia. Due o tre volte aveva ricostruito una giornata intera; non aveva mai esitato, ma ogni ricostruzione aveva chiesto un'intera giornata. Mi disse: - Ho piricordi io da solo, di quanti non ne avranno avuti tutti gli uomini insieme, da che mondo mondo - Anche disse: - I miei sogni sono come la vostra veglia - E anche: - La mia memoria, signore, come un deposito di rifiuti - Un cerchio su una lavagna, un triangolo rettangolo, un rombo, sono forme che noi possiamo intuire pienamente; allo stesso modo Ireneo vedeva i crini rabbuffati d'un puledro, una mandria innumerevole in una sierra, i tanti volti d'un morto durante una lunga veglia funebre. Non so quante stelle vedeva nel cielo.
Queste cose che mi disse, ne allora nmai le posi in dubbio. Non c'era a quel tempo cinematografo nfonografo; tuttavia inverosimile e quasi incredibile che nessuno facesse un esperimento con Funes. Il fatto che viviamo ritardando tutto il ritardabile; forse sappiamo tutti profondamente che siamo immortali e che, presto o tardi, ogni uomo fartutte le cose e saprtutto. Dall'oscurit Funes continuava a parlare. Mi disse che verso il 1886 aveva scoperto un sistema originale di numerazione e in pochi giorni aveva superato il ventiquattromila. Non l'aveva scritto, perchd'averlo pensato una sola volta gli bastava per sempre. Il primo stimolo, credo, gli venne dallo scontento che per il 33 in cifre arabe ci volessero due segni e due parole, in luogo d'una sola parola e d'un solo segno. Applicsubito questo stravagante principio agli altri numeri. In luogo di settemilatredici diceva (per esempio) 揗aximo Perez in luogo di settemilaquattordici, 揕a Ferrovia altri numeri erano 揕uis Melian Lafinur, Olimar, zolfo, il trifoglio, la balena, il gas, la caldaia, Napoleone, Agustin de Vedia In luogo di cinquecento, diceva 搉ove A ogni parola corrispondeva un segno particolare, una specie di marchio; gli ultimi erano molto complicati... Cercai di spiegargli che questa rapsodia di voci sconnesse era precisamente il contrario di un sistema di numerazione. Gli feci osservare che dire 366 dire tre centinaia, sei decine, cinque unit analisi che non possibile con 搉umericome 揑l Negro Timoteoo 揗antello di carne Funes non mi sento non volle sentirmi.
Locke, nel secolo XVII, propose (e rifiut un idioma impossibile in cui ogni singola cosa, ogni pietra, ogni uccello e ogni ramo avesse un nome proprio; Funes aveva pensato, una volta, a un idioma di questo genere, ma l'aveva scartato parendogli troppo generico, troppo ambiguo. Egli ricordava, infatti, non solo ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ognuna delle volte che l'aveva percepita o immaginata. Decise di ridurre ciascuno dei suoi giorni passati a un settantamila ricordi, da contrassegnare con cifre. Lo dissuasero due considerazioni: quella dell'interminabilitdel compito; quella della sua inutilit Pensche all'ora della sua morte non avrebbe ancora finito di classificare tutti i ricordi della sua infanzia.
I due progetti che ho detto (un vocabolario infinito per la serie naturale dei numeri, un inutile catalogo mentale di tutte le immagini del ricordo) sono insensati, ma rivelano una certa balbuziente grandezza. Ci permettono di intravedere, o di dedurre, il vertiginoso mondo di Funes. Questi, non dimentichiamolo, era quasi incapace di idee generali, platoniche. Non solo gli era difficile di comprendere come il simbolo generico 揷anepotesse designare un cosvasto assortimento di individui diversi per dimensioni e per forma; ma anche l'infastidiva il fatto che il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte). Il suo proprio volto nello specchio, le sue proprie mani, lo sorprendevano ogni volta. Dice Swift che l'imperatore di Lilliput discerneva il movimento delle lancette d'un orologio; Funes discerneva continuamente il calmo progredire della corruzione, della carie, della fatica. Notava i progressi della morte, dell'umidit Era il solitario e lucido spettatore d'un mondo multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso. Babilonia, Londra e New York hanno offuscato col loro feroce splendore l'immaginazione degli uomini; nessuno, nelle loro torri popolose e nelle loro strade febbrili, ha mai sentito il calore e la pressione d'una realtcosintangibile come quella che giorno e notte convergeva sul felice Ireneo, nel suo povero sobborgo sudamericano. Gli era molto difficile dormire. Dormire distrarsi dal mondo; Funes, sdraiato sulla branda, nel buio, si figurava ogni scalfittura e ogni rilievo delle case precise che lo circondavano. (Ripeto che il meno importante dei suoi ricordi era piminuzioso e vivo della nostra percezione d'un godimento o d'un tormento fisico). Verso est, in fondo al quartiere, c'era uno sparso disordine di case nuove, sconosciute. Funes le immaginava nere, compatte, fatte di tenebra omogenea; in questa direzione voltava il capo per dormire.
Anche soleva immaginarsi in fondo al fiume, cullato e annulato dalla corrente.
Aveva imparato senza fatica l'inglese, il francese, il portoghese, il latino. Sospetto, tuttavia, che non fosse molto capace di pensare. Nel mondo sovraccarico di Funes non c'erano che dettagli, quasi immediati.
Il chiarore esitante dell'alba entrper il patio di terra.
Allora vidi il volto di quella voce che aveva parlato tutta la notte. Ireneo aveva diciannove anni; era nato nel 1868; mi parve monumentale come il bronzo, ma antico come l'Egitto, anteriore alle profezie e alle piramidi. Pensai che ciascuna delle mie parole (ciascuno dei miei movimenti) durerebbe nella sua implacabile memoria; mi gelil timore di moltiplicare inutili gesti.
Ireneo Funes mori nel l889, d'una congestione polmonare.

[1942]



La forma della spada



a E. H. M.

Gli traversava il volto una cicatrice amara: un arco cinereo e quasi perfetto che lo sfregiava da una tempia fino all'altro zigomo. Il suo vero nome non importa; tutti a Tacuarembo lo chiamavano l'Inglese della Colorada. Il padrone di quei campi, Cardoso, non avrebbe voluto venderli; dicono che l'Inglese ricorse a un argomento impreveduto: gli raccontla storia segreta della cicatrice. L'Inglese veniva dalla frontiera, da Rio Grande do Sul; alcuni assicuravano che in Brasile era stato contrabbandiere. I campi della Colorada erano pantanosi; le acque, amare; l'Inglese, per rimediare a queste deficienze, lavoral pari dei suoi peoni. Dicono che fosse severo fino alla crudelt ma scrupolosamente giusto. Dicono anche che s'ubriacasse; un paio di volte all'anno si chiudeva in camera e ne emergeva dopo due o tre giorni come da una battaglia o da una vertigine, pallido, tremante, sgomento, e non meno autoritario di prima. Ricordo i suoi occhi glaciali, la sua energica magrezza, i suoi baffi grigi. Non frequentava nessuno; vero che il suo spagnolo era rudimentale, misto di brasiliano. A parte qualche lettera commerciale e qualche catalogo, non riceveva corrispondenza.
L'ultima volta che visitai i distretti del nord, una piena del torrente Caraguata mi costrinse a pernottare alla Colorada. Dopo pochi minuti, credetti di notare che la mia presenza era importuna; cercai d'ingraziarmi l'Inglese; m'appigliai alla meno perspicace delle passioni: il patriottismo. Dissi che quando un paese animato da uno spirito come quello che anima l'Inghilterra, questo paese invincibile. Il mio interlocutore assent ma aggiunse, con un sorriso, che non era inglese. Era irlandese, di Dungarvan. Detto questo s'arrest come se avesse rivelato un segreto.
Dopo cena, uscimmo a guardare il cielo. Questo s'era schiarito, ma dietro le montagne del sud era fenduto e rigato da lampi, ordiva un'altra tempesta. Sulla veranda smantellata, il peone che aveva servito la cena ci portuna bottiglia di rum. Bevemmo a lungo, in silenzio.
Non so che ora fosse quando m'accorsi d'essere ubriaco: non so che ispirazione o che esaltazione o che tedio mi spingesse a chiedergli della cicatrice. Il volto dell'Inglese s'alter per qualche secondo pensai che stesse per buttarmi fuori. Alla fine mi disse con la sua voce abituale:
- Le racconterla storia della mia ferita a una condizione: quella di non attenuare alcun obbrobrio, alcuna circostanza infamante.
Assentii. Ecco la storia che mi narr alternando l'inglese con lo spagnolo e anche col portoghese:

Nel 1922, in una delle cittadine del Connaught, io ero uno dei molti che cospiravano per l'indipendenza dell'Irlanda. Dei miei compagni sopravvissuti, alcuni si sono volti a lavori pacifici; altri, paradossalmente, si battono nei mari o nel deserto sotto i colori inglesi. Uno, il pivaloroso, mornel cortile d'una caserma, fucilato all'alba da uomini pieni di sonno: altri (non i pisfortunati) caddero nelle anonime e quasi segrete battaglie della guerra civile. Eravamo repubblicani, cattolici; eravamo - sospetto - romantici. L'Irlanda, per noi, non era solo l'utopico avvenire e l'intollerabile presente; era un'amara e affettuosa mitologia, era le torri circolari e le rosse paludi, era il ripudio di Parnell e le immense epopee che cantano di tori rubati, tori che in un'altra incarnazione furono eroi e in altre pesci e montagne... Una sera che non dimenticher giunse tra noi un affiliato di Munster: un certo John Vincent Moon.
Aveva appena vent'anni. Era magro e molle a un tempo; dava la spiacevole impressione d'essere invertebrato. Aveva scorso con fervore e con vanitquasi tutte le pagine di non so quale manuale comunista; il materialismo dialettico gli serviva per tagliar corto a qualsiasi discussione. Le ragioni che puavere un uomo per abominarne un altro, o per amarlo, sono infinite: Moon riduceva la storia universale a un sordido conflitto economico. Affermava che la rivoluzione destinata a trionfare. Gli dissi che a un gentleman non possono interessare che le cause perdute... Era ginotte; continuammo a dissentire in corridoio, per le scale, poi nell'oscuritdelle strade. I giudizi emessi da Moon m'impressionarono meno del suo inappellabile tono apodittico. Il nuovo compagno non discuteva: asseriva. E asseriva con sprezzo e con una certa collera.
Eravamo giunti alle ultime case, quando una brusca sparatoria ci assord(poco prima avevamo costeggiato il lungo muro cieco d'una fabbrica o d'una caserma). Voltammo per una strada di terra battuta; un soldato, enorme nel riverbero, sorse da una baracca incendiata. Ci griddi fermarci. Io affrettai il passo; il mio compagno non mi segu Mi volsi: John Vincent Moon stava immobile, affascinato e come eternato dal terrore. Allora tornai indietro, atterrai con un colpo il soldato, scossi Vincent Moon, lo insultai e gli ordinai di seguirmi. Dovetti sostenerlo col braccio; la paura lo paralizzava. Fuggimmo, nella notte forata dagli incendi. Una scarica di fucileria ci raggiunse; una pallottola sfiorla spalla destra di Moon; questi, mentre fuggivamo tra i pini, ruppe in un debole singhiozzo.
In quell'autunno del 1922 io m'ero rifugiato nella villa del generale Berkeley. Questi (che non avevo mai visto) ricopriva allora non so quale carica amministrativa nel Bengala; la casa aveva meno d'un secolo, ma era scalcinata e oscura e abbondava di perplessi corridoi e vane anticamere. Il primo piano era tutto occupato dal museo e dall'enorme biblioteca: libri incompatibili, antinomici, che in qualche modo sono la storia del secolo XIX; scimitarre di Nishapur, nei cui archi di cerchio sembrava durare il vento e la violenza delle battaglie. Entrammo (mi sembra di ricordare) da un sotterraneo. Moon, con le labbra arse e tremanti, mormorche i casi di quella notte erano stati interessanti; lo medicai, gli portai una tazza di t accertai che la sua 揻erita era superficiale. D'un tratto perplesso, balbett .
- Ma lei s'notevolmente arrischiato.
Gli dissi di non preoccuparsi (l'abitudine della guerra civile m'aveva spinto ad agire come agii; inoltre, la cattura d'un solo affiliato poteva compromettere la nostra causa).
Il giorno dopo, Moon aveva recuperato il suo equilibrio. Accettuna sigaretta e mi sottopose a un severo interrogatorio su 搇e risorse economiche del nostro partito rivoluzionario Le sue domande erano molto lucide; gli dissi (ed era vero) che la situazione era grave. Improvvise scariche di fucileria scossero il sud. Dissi a Moon che i compagni ci aspettavano. Aveva lasciato il soprabito e la rivoltella in camera mia, quando tornai, trovai Moon steso sul sof con gli occhi chiusi. Pensava di avere la febbre; disse che una contrazione dolorosa gli immobilizzava la spalla.
Compresi allora che la sua codardia era irreparabile. Gli consigliai vagamente di riguardarsi e me ne andai. Quell'uomo impaurito mi faceva vergogna, come se il vigliacco fossi stato io, e non Vincent Moon. Ciche fa un uomo, come se lo facessero tutti gli uomini. Per questo non e giusto che una disobbedienza in un giardino contamini il genere umano; per questo non ingiusto che la crocifissione di un solo giudeo basti a salvarlo. Forse Schopenhauer ha ragione; io sono gli altri, ogni uomo tutti gli uomini, Shakespeare e in qualche modo il miserabile John Vincent Moon.
Nove giorni passammo nell'enorme casa del generale. Delle agonie e luci della guerra non dirnulla: il mio proposito di raccontare la storia di questa cicatrice che mi sfregia. Quei nove giorni, nella mia memoria, fanno un giorno solo, salvo il penultimo, quando i nostri irruppero in una caserma e potemmo fare esatta vendetta dei sedici compagni mitragliati a Elphin. Io scivolavo via di casa nel primo confuso chiarore dell'alba. Tornavo al cader della notte. Il mio compagno m'aspettava al primo piano: la ferita non gli permetteva di scendere al pianterreno. Lo ricordo con un libro di strategia tra le mani: F.N. Maude o Clausewitz. L'arma che preferisco l'artiglieria, mi confessuna notte. S'informava dei nostri piani; gli piaceva censurarli o riformarli. Anche soleva deplorare la nostra deplorevole base economica: profetizzava, dogmatico e scuro in volto, la fine rovinosa. 揅'est une affaire flamb閑 mormorava. Per mostrare che gli era indifferente d'essere un codardo fisico, esagerava la propria superbia mentale. Passarono cos bene o male, nove giorni.
Il decimo, la cittcadde definitivamente in potere dei Black and Tans. Alti cavalieri silenziosi pattugliavano le strade; v'erano ceneri e fumo nel vento; a un angolo di strada vidi un cadavere; meno tenace, nel mio ricordo, d'un manichino sul quale i soldati interminabilmente s'esercitavano al tiro, in mezzo alla piazza... Io ero uscito all'alba, come al solito; ma tornai prima di mezzogiorno. Moon, in biblioteca, parlava con qualcuno; dal tono della voce compresi che parlava al telefono. Poi udii il mio nome poi, che sarei tornato alle sette; poi, che avrebbero dovuto arrestarmi mentre traversavo il giardino. Il mio ragionevole amico stava ragionevolmente vendendomi. Lo udii esigere della garanzie di sicurezza personale.
Qui la mia storia si confonde e si perde. So che inseguii il delatore per neri corridori d'incubo e alte scale di vertigine. Moon conosceva la casa molto bene, molto meglio di me. Una o due volte lo persi. Lo bloccai prima che i soldati mi fossero sopra. Da una delle panoplie del generale strappai una mezzaluna d'acciaio; con essa gl'impressi sul volto, per sempre, una mezzaluna di sangue. Borges: a lei che uno sconosciuto, ho fatto questa confessione. Il suo disprezzo non mi dorrtroppo.

Qui il narratore s'interruppe. Notai che gli tremavano le mani.
- E Moon? - chiesi.
- Riscosse i denari di Giuda e fuggin Brasile. Quella sera, sulla piazza, vide fucilare un manichino da soldati ubriachi.
Attesi invano la continuazione della storia. Alla fine gli dissi di continuare.
Allora un gemito l'attravers allora mi mostrcon debole dolcezza la curva cicatrice biancastra.
- Lei non mi crede? - balbett - Non vede che porto impresso sul volto il marchio della mia infamia? Le ho narrato la storia in questo modo perchlei l'ascoltasse fino alla fine. Io ho denunciato l'uomo che m'aveva protetto: io sono Vincent Moon. Ora mi disprezzi.
[1942]



Tema del traditore e dell'eroe


So the Platonic Year
Wirls out new right and wrong.
Whirls in the old instead;
All men are dancers and their tread
Goes to the barbarous clangour of a gong.
W.B. Yeats, The Tower.


Sotto la nota influenza di Chesterton (inventore ed esornatore d'eleganti misteri) e del consigliere aulico Leibniz (che inventl'armonia prestabilita), ho immaginato questo tema, che forse scrivere che giin qualche modo mi giustifica, nei pomeriggi inutili. Mancano dettagli, rettifiche, . messe a punto; vi sono zone di questa storia che non mi sono state ancora rivelate; oggi, 3 gennaio 1944, l'intravedo cos
L'azione si svolge in un paese oppresso e tenace: Polonia, Irlanda, la repubblica di Venezia, un qualche stato sudamericano o balcanico...- O meglio: l'azione si svolse; poich sebbene il narratore sia contemporaneo, il tempo della sua storia e la meto il principio del secolo XIX. Diciamo (per comoditnarrativa) l'Irlanda. Diciamo il 1824. Il narratore si chiama Ryan. bisnipote del giovane, dell'eroico, del bello, dell'assassinato Fergus Kilpatrick, la cui tomba fu misteriosamente violata, il cui nome illustra i versi di Browning e di Hugo, la cui statua domina una collina grigia tra rosse paludi.
Kilpatrick fu un cospiratore; un segreto e glorioso capitano di cospiratori: come Mos che dalla terra di Moab avvistla terra promessa, e non potcalcarla; Kilpatrick peralla vigilia della rivolta vittoriosa che aveva premeditata e sognata. S'avvicina la data del primo centenario della sua morte; le circostanze del delitto sono enigmatiche; Ryan, che sta lavorando a una biografia dell'eroe, scopre che l'enigma non puramente poliziesco. Kilpatrick fu assassinato in un teatro; la polizia britannica non trovmai l'uccisore; gli storici affermano che questo insuccesso non intacca la buona reputazione della polizia, poichfu questa stessa, probabilmente, a farlo uccidere. Altri aspetti dell'enigma inquietano Ryan. Sono di carattere ciclico: sembrano ripetere o combinare fatti di regioni remote, di remote et Si sa, per esempio, che gli sbirri che esaminarono il cadavere dell'eroe trovarono una lettera chiusa che avvertiva Kilpatrick del pericolo che avrebbe corso andando a teatro quella sera; anche Giulio Cesare, mentre stava avviandosi al luogo dove l'attendevano i pugnali dei suoi amici, ricevette un biglietto, che non potleggere, in cui gli si scopriva il tradimento, con i nomi dei traditori. La moglie di Cesare, Calpurnia, vide rovinare in sogno una torre che il Senato aveva decretato al marito; voci false e anonime, la vigilia della morte di Kilpatrick, annunciarono a tutto il paese l'incendio della torre circolare di Kilgarvan, ciche potsembrare un presagio, poichcolui era nato a Kilvargan. Questi parallelismi (e altri) della storia di Cesare con quella di un cospiratore irlandese inducono Ryan a supporre una segreta forma del tempo, un disegno le cui linee si ripetono. Pensa alla storia decimale che ideCondorcet; alle morfologie che proposero Hegel, Spengler e Vico; agli uomini di Esiodo, che degenerarono dall'oro al ferro. Pensa alla trasmigrazione delle anime, dottrina che fa l'orrore della letteratura celtica e che lo stesso Cesare attribuai druidi britannici; pensa che prima d'essere Fergus Kilpatrick, Fergus Kilpatrick fu Giulio Cesare. Da questi labirinti circolari lo salva una curiosa scoperta che poi l'inabissa in altri labirinti ancor piinestricabili ed eterogenei: certe parole che un mendicante scambicon Fergus Kilpatrick il giorno della morte di quest'ultimo furono prefigurate da Shakespeare nella tragedia di Macbeth. Che la storia avesse copiato la storia era giabbastanza stupefacente; che la storia copi la letteratura, inconcepibile... Ryan accerta che nel 1814 James Alexander Nolan, il piantico dei compagni dell'eroe, aveva tradotto in gaelico i principali drammi di Shakespeare, tra cui il Giulio Cesare. Scopre anche negli archivi un articolo manoscritto di Nolan sui Festspaele svizzeri: vaste ed erranti rappresentazioni teatrali che richiedono migliaia di attori e che reiterano episodi storici nelle stesse citte montagne in cui occorsero. Un altro documento inedito gli rivela che, pochi giorni prima della fine, Kilpatrick, presiedendo l'ultimo consiglio aveva firmato la sentenza di morte d'un traditore il cui nome stato cancellato. Una simile condanna non nelle abitudini compassionevoli di Kilpatrick. Ryan ne indaga le ragioni (questa indagine una delle lacune della storia) e riesce a decifrare l'enigma.
Kilpatrick fu ucciso in un teatro, ma di teatro gli servi anche l'intera citt e gli attori furono legione, e il dramma coronato dalla sua morte occupmolti giorni e molte notti. Ecco che cosa avvenne:

Il 2 agosto 1824 i cospiratori si riunirono. Il paese era maturo per la rivolta; qualcosa, tuttavia, mancava sempre; c'era un traditore nel consiglio. Fergus Kilpatrick aveva incaricato James Nolan di scoprire questo traditore; Nolan eseguil compito: annunciche il traditore era lo stesso Kilpatrick. Dimostrcon prove irrefutabili la veritdell'accusa; i congiurati condannarono a morte il loro presidente. Questi firmla sua propria condanna, ma implorche il suo castigo non pregiudicasse la patria.
Allora Nolan concepuno strano progetto. L'Irlanda idolatrava Kilpatrick; il pitenue sospetto della sua viltavrebbe compromesso la rivolta; Nolan propose un piano che fece dell'esecuzione del traditore uno strumento per l'emancipazione della patria. Suggerche il condannato morisse per mano di un assassino sconosciuto, in circostanze particolarmente drammatiche, che si scolpissero nell'immaginazione popolare e affrettassero la rivolta. Kilpatrick giurdi collaborare a questo progetto, che gli offriva l'occasione di redimersi e che avrebbe sigillato la sua vita.
Nolan, pressato dal tempo, non seppe inventare interamente le circostanze di quell'esecuzione dai molti aspetti; dovette plagiare un altro drammaturgo, il nemico inglese William Shakespeare. Ripetscene del Macbeth, del Giulio Cesare. La pubblica e segreta rappresentazione occupvari giorni. Il condannato entra Dublino, discusse, oper preg riprov pronunciparole patetiche, e ciascuno di questi atti, che ne avrebbe aumentato la gloria, era stato prefissato da Nolan. Centinaia di attori collaborarono con il protagonista; la parte di alcuni fu complessa; quella; di altri, momentanea. Le cose che dissero e che fecero durano nei libri di storia, nella memoria appassionata dell'Irlanda. Kilpatrick, animato da questo minuzioso destino che lo redimeva e che lo perdeva, pid'una volta arricchcon atti e parole improvvisate il testo del suo giudice. Cosvenne dispiegandosi nel tempo il popoloso dramma, finchil 6 agosto 1824, in un palco dalle funeree cortine che prefigurava quello di Lincoln, una pallottola desiderata entrnel petto del traditore e dell'eroe, che appena potarticolare, tra due sbocchi di sangue improvviso, alcune parole previste.
Nell'opera di Nolan, i passi imitati di Shakespeare sono i meno drammatici; Ryan sospetta che l'autore li intercalasse affinchqualcuno, pitardi, potesse scoprire la verit Sospetta di far parte egli stesso della trama di Nolan... Dopo tenace cavillare, risolve di tenere segreta la scoperta. Pubblica un libro dedicato alla memoria dell'eroe; e anche questo, forse, era previsto.




La morte e la bussola

a Mandie Molina y Vedia


Dei molti problemi sui quali s'esercitla temeraria perspicacia di L鰊nrot, nessuno cosi strano - cosi rigorosamente strano, diremo - come la serie periodica di fatti di sangue che culminarono nella villa di Triste-le-Roy, tra il profumo interminabile: degli eucalipti. vero che Erik L鰊nrot non riusca impedire l'ultimo delitto, ma indiscutibile che lo previde. Neppure scoprl'identitdell'infausto assassino di Yarmolinsky, ma indovinla segreta morfologia della malvagia serie, e la partecipazione di Red Scharlach, il cui secondo soprannome Scharlach il Dandy.. Questo criminale (come tanti altri) aveva giurato sul proprio onore di uccidere L鰊nrot, ma questi non si lascimai intimidire. L鰊nrot si credeva un puro ragionatore, un Auguste Dupin, ma v'era in lui qualcosa dell'avventuriero, e persino del giocatore di carte.
Il primo delitto avvenne all'H魌el du Nord, l'alto prisma che domina l'estuario dalle acque colore di deserto. A questa torre (che riunisce ostensibilmente l'aborrito biancore d'un sanatorio, la numerata divisibilitd'un carcere e l'aspetto generale d'una casa di tolleranza) giunse il 3 dicembre il delegato di Podolsk al Terzo congresso Talmudico, dottor Marcello Yarmolinsky, uomo di barba grigia e occhi grigi. Mai sapremo se l'H魌el du Nord gli piacque: lo accettcon l'antica rassegnazione che gli aveva permesso di tollerare tre anni di guerra nei Carpazi e tremila anni di oppressione e di pogroms. Gli assegnarono una camera al piano R di fronte alla suite che non senza splendore occupava il Tetrarca di Galilea. Yarmolinsky cen rimandal giorno dopo l'esame della sconosciuta citt ordino in un placard i suoi molti libri e i suoi indumenti, e prima di mezzanotte spense la luce. (Cosi dichiarlo chauffeur del Tetrarca che dormiva nella stanza attigua). Il 4, alle 11 e 3 minuti a.m., lo chiamper telefono un redattore della 揧iddische Zeitung il dottor Yarmolinsky non rispose; lo trovarono nella sua stanza, col volto gilivido, quasi nudo sotto un gran mantello anacronistico. Giaceva non lontano dalla porta che dava sul corridoio; una profonda pugnalata gli aveva squarciato il petto: Un paio d'ore dopo, nella stessa stanza, tra giornalisti, fotografi e gendarmi, il commissario Treviranus e L鰊nrot discutevano con serenitil problema.
- inutile - diceva Treviranus, brandendo un sigaro imperioso - cercare spiegazioni tanto complicate. Sappiamo tutti che il Tetrarca di Galilea possiede i pibei zaffiri del mondo. Qualcuno, per rubarli, sarpenetrato qui per errore. Yarmolinsky s'alzato; il ladro ha dovuto ucciderlo. Che le sembra?
- Possibile, ma non interessante - rispose L鰊nrot. - Lei dirche la realtnon ha il minimo obbligo d'essere interessante. Io replicherche se la realtpusottrarsi a quest'obbligo, non possono sottrarvisi le ipotesi. In quella che lei ha improvvisato, interviene copiosamente il caso. Abbiamo qui un rabbino morto: io preferirei una spiegazione puramente rabbinica, non gli immaginari contrattempi di un ladro immaginario.
Treviranus rispose di malumore:
- Non m'interessano le spiegazioni rabbiniche: m'interessa la cattura dell'uomo che ha pugnalato questo sconosciuto.
- Non tanto sconosciuto - corresse L鰊nrot. - Ecco le sue opere complete -. Indicnel placard una fila di alti volumi: una Vendicazione della cabala; un Esame della filosofia di Robert Flood; una traduzione letterale del Sepher Yezirah; una Biografia del Baal Shem; una Storia della setta degli Hassidim; una monografia (in tedesco) sul Tetragr醡aton; un'altra sulla nomenclatura divina del Pentateuco. Il commissario li guardcon timore, quasi con repulsione. Poi si mise a ridere.
- Sono un povero cristiano - disse. - Si prenda tutti questi scartafacci, se vuole; non ho tempo da perdere in superstizioni giudaiche.
- Chissche questo delitto non appartenga alla storia delle superstizioni giudaiche - mormorL鰊nrot.
- Come il cristianesimo - s'azzarda completare il redattore della 揧iddische Zeitung Era miope, ateo e molto timido.
Nessuno gli rispose. Uno degli agenti aveva trovato nella piccola macchina da scrivere un foglio con questa frase inconclusa:

La prima lettera del Nome e stata articolata.

L鰊nrot s'astenne dal sorridere. Bruscamente bibliofilo - o ebraista, ordinche gli facessero un pacco dei libri del morto, e se li porta casa. Indifferente alle indagini della polizia, si mise a studiarli. Un libro in ottavo grande gli rivelgli insegnamenti di Israel Baal Shem Tobh, fondatore della setta dei Pietosi; un altro, le virte i terrori del Tetragr醡aton, che l'infallibile Nome di Dio; un altro, la tesi secondo la quale Dio ha un nome segreto, in cui compendiato (come nella sfera di cristallo che i persiani attribuiscono ad Alessandro il Macedone) il suo nono attributo, l'eternit ciola conoscenza immediata di tutte le cose che saranno, che sono e che furono nell'universo. La tradizione enumera novantanove nomi di Dio; gli ebraisti attribuiscono questo numero imperfetto al magico timore delle cifre pari; gli Hassidim spiegano che questa lacuna indica un centesimo nome, il Nome Assoluto.
Da questa erudizione lo distrasse, pochi giorni dopo, una visita del redattore della 揧iddische Zeitung Costui voleva parlare dell'ucciso; L鰊nrot preferparlare dei diversi nomi di Dio; il giornalista annunciin tre colonne che l'investigatore Erik L鰊nrot s'era messo a studiare i nomi di Dio per trovare l'assassino. L鰊nrot, abituato alle semplificazioni del giornalismo, non s'indign Uno di quei bottegai che hanno scoperto che qualsiasi uomo si rassegna a comprare qualsiasi libro, pubblicun'edizione popolare della Storia della setta degli Hassidim.
Il secondo delitto avvenne la notte del 3 gennaio, nel pisquallido e abbandonato dei vuoti sobborghi occidentali della capitale. Verso l'alba, uno dei gendarmi che vigilano a cavallo quelle solitudini, vide sulla soglia d'una antica coloreria un uomo disteso, avvolto in un mantello. Il duro volto era come mascherato di sangue; una pugnalata profonda gli aveva trafitto il petto. Sulla parete, al di sopra delle losanghe gialle e rosse, c'erano alcune parole scritte col gesso. Il gendarme le compit.. Nel pomeriggio, Treviranus e L鰊nrot si diressero verso la remota scena del delitto. A destra e a sinistra dell'automobile, la cittsi disintegrava; s'ingrandiva il firmamento e giimportavano poco le case, molto una fornace o un pioppo. Giunsero alla loro povera destinazione: un vicolo cieco dai muri rosa che sembravano riflettere in qualche modo un gigantesco tramonto di sole. Il morto era gistato identificato. Era Daniel Simon Azevedo, uomo di qualche fama nei vecchi sobborghi settentrionali, che era salito dalla condizione di carrettiere a quella di ladro e persino di spia. (Il singolare stile della sua morte sembrava adeguato: Azevedo era l'ultimo rappresentante d'una generazione di banditi che sapeva maneggiare il pugnale, ma non la rivoltella). Le parole scritte col gesso erano le seguenti:

La seconda lettera del Nome stata articolata.

Il terzo delitto avvenne la notte del 3 febbraio. Poco prima dell'una, suonil telefono nell'ufficio del commissario Treviranus. Parl con infinita precauzione, un uomo dalla voce gutturale; disse di chiamarsi Ginzberg (o Ginsburg) e di esser disposto a chiarire, dietro ragionevole compenso, il mistero dei due sacrifici di Azevedo e di Yarmolinsky. Una discordia di fischi e di cornette soffocla voce del delatore. Poi la comunicazione s'interruppe. Senza ancora scartare la possibilitdi uno scherzo (dopo tutto, s'era di Carnevale), Treviranus accertche gli avevano parlato dalla Liverpool House, una taverna della Rue de Toulon (quella strada salmastra in cui convivono il cosmorama e la latteria, il bordello e i venditori di bibbie). Treviranus chiamal telefono il padrone. Costui - Black Finnegan, un antico criminale irlandese, ora offuscato e quasi annullato dall'onest- gli disse che l'ultimo a parlare dal telefono del locale era stato un inquilino, certo Gryphius, che poi era uscito con alcuni amici. Treviranus si recalla Liverpool House. Il padrone lo informdi quanto segue. Otto giorni prima, Gryphius aveva preso una camera sovrastante al bar. Era un uomo dai tratti affilati, dalla nebulosa barba grigia, vestito poveramente di nero; Finnegan (che destinava quella camera a un uso che Treviranus indovin gli aveva chiesto una pigione senz'altro eccessiva; Gryphius aveva pagato senza fiatare. Non usciva quasi mai; cenava e faceva colazione nella sua stanza; era molto se lo vedevano qualche volta nel bar. Quella sera, era sceso a telefonare nell'ufficio dei Finnegan. Un coupchiuso s'era fermato davanti alla taverna. Il cocchiere non era sceso di cassetta; alcuni clienti ricordarono che portava una maschera d'orso. Dal coupscesero due arlecchini; erano di bassa statura, e nessuno potnon accorgersi che erano molto ubriachi. Tra uno strepito di cornette, irruppero nell'ufficio di Finnegan; abbracciarono Gryphius, che, sembrriconoscerli, ma che restmolto freddo. Scambiarono qualche parola in yiddish - l'uno con voce bassa, gutturale, gli altri con voci acute, in falsetto - e salirono nella stanza di sopra. Un quarto d'ora dopo riscesero, molto felici; Gryphius, traballante, non pareva meno ubriaco dei suoi compagni. Camminava, alto e vertiginoso, tra i due arlecchini mascherati. (Una delle donne del bar ricordle losanghe gialle, rosse e verdi). Due volte inciamp due volte gli arlecchini lo rialzarono. I tre risalirono nel coupe disparvero in direzione dell'acqua morta e rettangolare della vicina darsena. Gisulla predella del coup l'ultimo arlecchino aveva sgorbiato una figura oscena e una frase sull'insegna della taverna.

Treviranus vide questa frase. Era quasi prevedibile. Diceva:

L'ultima lettera del Nome stata articolata.

Esaminpoi la stanzetta di Gryphius-Ginzberg. Macchiava il suolo una brusca stella di sangue; negli angoli, mozziconi di sigarette di marca ungherese; in un armadio, un libro in latino: Philologus hebraeo-graecus (1739) di Leusden, con diverse note manoscritte. Treviranus lo guardcon indignazione e fece cercare L鰊nrot. Questi, senza togliersi il cappello, si mise a leggere, mentre il commissario interrogava i contraddittori testimoni del possibile rapimento. Alle quattro se ne andarono. Nella tortuosa Rue de Toulon gialbeggiava; illividivano sul marciapiede i coriandoli morti; disse Treviranus:
- E se la storia di questa notte fosse tutta una simulazione?
Erik L鰊nrot sorrise e lesse con tutta gravitqueste righe (che qualcuno aveva sottolineato) della trentatreesima dissertazione del Philologus: Dies Judaeorum incipit a solis occasu usque ad solis occasum diei sequentis; - Questo - aggiunse - vuol dire: 揑l giorno ebraico comincia al tramonto e dura fino al tramonto successivo L'altro arrischiuna risposta ironica:
- E questo l'indizio piimportante che lei ha raccolto questa notte?
- No. Piimportante e una parola che disse Ginzberg.
I giornali della sera non trascurarono queste sparizioni periodiche. 揕a Croce della Spadale pose in contrasto con l'ordine e l'ammirevole disciplina dell'ultimo Congresso Eremitico; Ernst Palast, su 揑l Martire deplor揼li intollerabili indugi di un pogrom clandestino e frugale in cui, per ammazzare tre ebrei, ci sono voluti tre mesi la 揧iddische Zeitungscartl'orribile ipotesi di un complotto antisemita, 搒ebbene molti spiriti penetranti non scorgano altra soluzione dell'impenetrabile mistero Scharlach giurche nel suo distretto non si sarebbero mai avuti delitti di questo genere, e accusdi colpevole negligenza il commissario Franz Treviranus.
Quest'ultimo ricevette, la notte del Imarzo, un'imponente busta sigillata. L'apr la busta conteneva una lettera firmata Baruch Spinoza e un minuzioso piano della citt strappato evidentemente da un Baedeker. La lettera profetizzava che il 3 marzo non si sarebbe avuto un quarto delitto, poichla coloreria dell'est, la taverna della Rue de Toulon e L'H魌el du Nord erano 搃 vertici perfetti d'un triangolo equilatero e mistico il piano mostrava in inchiostro rosso la regolaritdi questo triangolo. Treviranus lesse con rassegnazione questo argomento more geometrico e spedlettera e piano all'indirizzo di L鰊nrot, cui indiscutibilmente spettavano tali scemenze.
Erik L鰊nrot le studi I tre luoghi, in realt erano equidistanti. Simmetria nel tempo (3 dicembre, 3 gennaio, 3 febbraio); simmetria nello spazio... Sent d'un tratto, che stava per decifrare il mistero. Un compasso e una bussola completarono questa improvvisa intuizione. Sorrise, pronuncila parola Tetragr醡aton (di recente acquisizione) e chiamal telefono il commissario. Gli disse:
- Grazie per questo triangolo equilatero che mi ha mandato. M'ha permesso di risolvere il problema. Domani, venerd i criminali saranno in prigione; possiamo stare molto tranquilli.
- Dunque, non progettano un quarto delitto?
- Precisamente perchprogettano un quarto delitto, possiamo stare molto tranquilli. --Riappese il ricevitore. Un'ora dopo viaggiava in un treno delle Ferrovie Meridionali verso la villa abbandonata di Triste-le-Roy. A sud della cittdel mio racconto scorre un ingombro fiumiciattolo d'acque fangose, lordato dai rifiuti e dalle concerie. Dall'altra parte si stende un sobborgo d'officine, dove, sotto la protezione d'un capobanda barcellonese, pullulano i pistoleros. L鰊nrot sorrise pensando che il pifamoso di costoro - Red Scharlach - avrebbe dato qualsiasi cosa per sapere di questa sua visita clandestina. Azevedo era stato compagno di Scharlach; L鰊nrot considerla remota possibilitche la quarta vittima dovesse essere Scharlach. Poi la scart.. Virtualmente, aveva risolto l'enigma; le mere circostanze, la realt(nomi, arresti, volti, strascichi giudiziari e carcerari) ormai l'interessavano appena. Avrebbe voluto passeggiare, riposarsi di tre mesi d'indagini sedentarie. Riflettche la spiegazione dei delitti stava in un triangolo anonimo e in una polverosa parola greca. Il mistero gli parve quasi cristallino; si vergogndi avergli dedicato cento giorni.
Il treno si fermin un silenzioso scalo merci. L鰊nrot scese. Era una di quelle sere deserte che sembrano albe. L'aria della torbida pianura era umida e fredda L鰊nrot si incamminper la campagna. Vide cani, vide un furgone in una strada morta, vide l'orizzonte, vide un cavallo argentato che beveva l'acqua crapulosa d'una pozzanghera. Annotava quando vide il belvedere rettangolare della villa di Triste-le-Roy, alto quasi come i neri eucalipti che lo circondavano. Pensche appena un'alba e un tramonto lo separavano dall'ora attesa dai cercatori del Nome.
Una cancellata arrugginita definiva il perimetro irregolare della villa. Il cancello principale era chiuso. L鰊nrot, senza molta speranza di entrare, fece tutto il giro, finchsi trovdi nuovo davanti al cancello invalicabile. Passla mano tra le sbarre, quasi macchinalmente, e trovla maniglia. Lo stridere del ferro lo sorprese. Con una passivitlaboriosa, il cancello intero cedette.
L鰊nrot avanztra gli eucalipti, calpestando confuse generazioni di foglie morte. Vista da vicino, la villa abbondava di simmetrie maniache e di inutili ripetizioni: a una Diana Glaciale in una nicchia malinconica corrispondeva, in una seconda nicchia, un'altra Diana; un balcone si apriva di contro a un altro balcone; doppie scalinate correvano tra balaustre doppie. Un Ermete a due facce proiettava un'ombra mostruosa. L鰊nrot fece il giro della villa come aveva fatto quello della cancellata. Esamintutto; sotto il livello della terrazza vide una stretta persiana.
La spinse; pochi scalini di marmo conducevano a un sotterraneo. L鰊nrot, che aveva giintuito le preferenze dell'architetto, indovinche dall'altra parte del sotterraneo c'erano altri scalini. Li trov sal alzle mani e aprla botola d'uscita.
Un chiarore lo guida un finestra. L'apr una luna gialla e circolare illuminava nel triste giardino due asciutte fontane. L鰊nrot esplorla casa. Per gallerie e retrocucina uscin cortili uguali, o pivolte nello stesso cortile. Salper scale polverose in anticamere circolari; infinitamente si moltiplicin specchi opposti; si stancdi schiudere o di socchiudere finestre che gli rivelavano, fuori, lo stesso desolato giardino da varie altezze e da vari angoli; e, dentro, mobili con fodere gialle e lampadari avvolti in tarlatana.
Una stanza da letto lo trattenne; in questa stanza, un solo fiore in un vaso di porcellana; al primo soffio, gli antichi petali si disfecero. Al secondo - e ultimo - piano, la casa gli sembrinfinita e crescente, 揕a casa non cosgrande -pens- L'ingrandiscono la penombra, la simmetria, gli specchi, i molti anni, - il mio estraniamento, la solitudine
Per una scala a chiocciola salal belvedere. La luna di quella sera traversava le losanghe delle finestre; erano gialle, rosse e verdi. Lo trattenne un ricordo stupito e vertiginoso.
Due uomini di bassa statura, feroci e muscolosi, si gettarono su di lui e lo disarmarono; un altro, molto alto, lo saluto con gravite gli disse:
- Lei molto amabile. Ci ha risparmiato una notte e un giorno.
Era Red Scharlach. Gli uomini ammanettarono L鰊nrot. Questi, alla fine, ritrova la voce:
- Scharlach, lei cerca il Nome segreto?
Scharlach lo guardava, indifferente. Non aveva partecipato alla breve lotta; aveva appena allargato la mano per ricevere la rivoltella di L鰊nrot. Parl L鰊nrot udnella sua voce una stanca vittoria, un odio contro le dimensioni dell'universo, una tristezza non minore di quell'odio.
- No - disse Scharlach. - Cerco qualcosa di pieffimero e deperibile, cerco Erik L鰊nrot. Tre anni fa, in un cabaret della Rue de Toulon, lei stesso arreste fece incarcerare mio fratello. In un coup i miei uomini mi trassero dalla sparatoria con una pallottola poliziesca nel ventre. Nove giorni e nove notti agonizzai in questa desolata villa simmetrica; mi bruciava la febbre, l'odioso Giano bifronte che guarda gli occasi e le aurore tingeva d'orrore il mio sonno e la mia veglia. Finii per abominare il mio corpo, finii per sentire che due occhi, due mani, due polmoni, sono cosmostruosi come due volti. Un irlandese cercdi convertirmi alla fede di Ges mi ripeteva la frase dei go韒: tutte le strade portano a Roma. La notte, il mio delirio s'alimentava di questa metafora: sentivo che il mondo un labirinto dal quale impossibile fuggire, poichtutte le strade, anche se fingevano di portare a nord o a sud, portavano realmente a Roma, che era anche il carcere rettangolare in cui agonizzava mio fratello e la villa di Triste-le-Roy. In quelle notti, giurai sul dio che vede con due volti e su tutti gli dei della febbre e degli specchi, di tessere un labirinto intorno all'uomo che aveva incarcerato mio fratello. L'ho tessuto, ed solido: la materia me l'hanno data un eresiologo morto, una bussola, una setta del secolo XVII, una parola greca, un pugnale, le losanghe d'una coloreria.
- Il primo termine della serie mi fu fornito dal caso: Io avevo tramato con alcuni colleghi, tra cui Daniel Azevedo, il furto degli zaffiri del Tetrarca. Azevedo ci trad s'ubriaccol danaro che gli avevamo anticipato e fece il colpo un giorno prima. Nell'albergo enorme si perdette; verso le due del mattino irruppe nella stanza di Yarmolinsky. Questi, assillato dall'insonnia, s'era messo a scrivere. Verosimilmente, preparava delle note o un articolo sul Nome di Dio; aveva giscritto le parole: La prima lettera del Nome stata articolata. Azevedo gl'intimsilenzio; Yarmolinsky allungla mano verso il campanello che avrebbe svegliato tutte le forze dell'albergo; Azevedo gli dette una sola pugnalata nel petto. Fu quasi un movimento riflesso; mezzo secolo di violenza gli aveva insegnato che il sistema pifacile, il pisicuro, sempre d'uccidere... Dieci giorni dopo seppi dalla 揧iddische Zeitungche lei cercava negli scritti di Yarmolinsky la chiave della morte di Yarmolinsky. Lessi la Storia della setta degli Hassidim; seppi che dal reverente timore di pronunciare il Nome di Dio era nata la dottrina che questo Nome onnipotente e recondito. Seppi che certi Hassidim, in cerca di questo Nome segreto, erano giunti a commettere sacrifici umani... Compresi che lei congetturava che il rabbino fosse stato sacrificato dagli Hassidim; mi dedicai a giustificare questa congettura.
- Marcello Yarmolinsky era morto la notte del 3 dicembre; per il secondo 搒acrificioscelsi la notte del 3 gennaio. Era morto a nord; per il secondo 搒acrificioci conveniva un luogo dell'ovest . Daniel Azevedo fu la vittima necessaria. Meritava la morte: era un impulsivo, un traditore; la sua cattura poteva annientare tutto il piano. Uno dei nostri lo pugnal per connettere il suo cadavere al cadavere precedente, io scrissi sui rombi della coloreria 揕a seconda lettera del Nome stata articolata
- Il terzo 揹elittoavvenne il 3 febbraio. Fu, come Treviranus indovin una mera simulazione. Gryphius-Ginzberg-Ginsburg sono io; sopportai (con l'aggiunta d'una tenue barba posticcia) una settimana interminabile in quel perverso cubicolo della Rue de Toulon, finchgli amici mi sequestrarono. Dalla predella del coup uno di loro scrisse sulla porta: 揕'ultima lettera del Nome stata articolata Questa frase fece capire che la serie era di tre delitti. Cosi l'intese il pubblico; ma io intercalai nella trama ripetuti indizi perchlei, il ragionatore Erik L鰊nrot, comprendesse che era di quattro. Un prodigio nel nord, altri due nell'est e nell'ovest, reclamano un quarto prodigio nel sud; Il Tetragr醡aton - il Nome di Dio, JHVH - di quattro lettere; gli arlecchini e l'insegna della coloreria suggerivano quattro termini. Sottolineai un certo passo nel manuale di Leusden; questo passo, rammentando che gli ebrei computavano il giorno da tramonto a tramonto, fa capire che le morti, in realt avvennero il quattro di ogni mese. Mandai il triangolo equilatero a Treviranus. Sapevo che lei avrebbe aggiunto il punto che mancava: il punto che determinava un rombo perfetto, il punto che prefissava il luogo dove un'esatta morte l'attendeva. Tutto questo premeditai, Erik L鰊nrot, per attirare lei nelle solitudini di Triste-le-Roy.
L鰊nrot evitgli occhi di Scharlach. Guardgli alberi e il cielo, suddivisi in rombi torbidamente gialli, verdi e rossi. Senti un po' di freddo e una tristezza impersonale, quasi anonima. Giera notte; dal giardino polveroso sali il grido inutile d'un uccello. L鰊nrot considero per l'ultima volta il problema delle morti simmetriche e periodiche. -
- Nel suo labirinto - disse alla fine - ci sono tre linee di troppo. Io so d'un labirinto greco che una linea unica, retta. In questa linea si sono perduti tanti filosofi che ben vi si potrperdere un mero detective. Scharlach, quando in un altro avatar lei mi darla caccia, finga (o commetta) un delitto in A; quindi un secondo delitto in B, a otto chilometri da A; quindi un terzo in C, a quattro chilometri da A e da B. a metstrada tra i due. E m'aspetti poi in D, a due chilometri da A e da C, di nuovo a metstrada. Mi uccida in D come ora sta per uccidermi in Triste-le-Roy.
- Per quest'altra volta - rispose Scharlach - le prometto questo labirinto invisibile, incessante, d'una sola linea retta.
Indietreggidi alcuni passi. Poi, accuratissimamente, fece fuoco.

[1943]



Il miracolo segreto

The story is well known of the
monk who, going out into the wood
to meditate, was detained there by
the song of a bird for three hundred
years, which to his consdousness
passed as only one hour
Newmann, A grammar of assent,
nota III.

La notte del 14 marzo 1939, in un appartamento della Zeltnergasse di Praga, Jaromir Hlad韐, autore dell'inconclusa tragedia I nemici, di una Vendicazione dell'eternite di un esame delle indirette fonti ebraiche di Jacob Boehme sognuna lunga partita a scacchi. Non la disputavano due persone, ma due famiglie illustri; la partita era cominciata molti secoli prima; nessuno ricordava quale fosse la posta, ma si mormorava che fosse enorme e forse infinita; i pezzi e la scacchiera stavano in una torre segreta; Jaromir (nel sogno) era il primogenito d'una delle famiglie ostili; agli orologi suonava l'ora d'una mossa che non poteva piessere ritardata; il sognatore correva per le sabbie d'un deserto piovoso e non riusciva a ricordare le figure ne le leggi del gioco degli scacchi. Qui si svegli Cessil fracasso della pioggia e dei terribili orologi. Un rumore ritmico e unanime, intramezzato da qualche voce di comando, saliva dalla Zeltnergasse. Era l'alba; le blindate avanguardie del Terzo Reich entravano a Praga.
Il 19, le autoritricevettero una denuncia; lo stesso 19, di sera, Jaromir Hlad韐 fu arrestato. Lo portarono in una caserma asettica e bianca, sull'altra riva della Moldava Non potnegare nessuna delle accuse della Gestapo. il suo nome materno era Jaroslavski, il suo sangue era ebreo, il suo saggio su Boehme ebraizzante, la sua firma allungava una lista di firme sotto una protesta contro l'Anschluss. Nel 1928 aveva tradotto il Sepher Yezirah per la casa editrice Hermann Barsdorf; il prolisso catalogo di questa casa aveva esagerato commercialmente la fama del traduttore; questo catalogo fu sfogliato da Julius Rothe, uno dei capi nelle cui mani stava la sorte di Hlad韐. Non v'uomo che, fuori della sua specialit non sia credulo; due o tre aggettivi in lettere gotiche bastarono perchJulius Rothe ammettesse l'eminenza di Hlad韐 e decretasse la sua condanna a morte, pour encourager les autres. L'esecuzione fu fissata per il 29 marzo, alle nove di mattina. Questo ritardo (di cui il lettore apprezzerpitardi l'importanza) si dovette al desiderio amministrativo di agire impersonalmente e posatamente, come i vegetali e i pianeti.
Il primo sentimento di Hlad韐 fu di mero terrore. Pensche non l'avrebbero terrorizzato la forca, nl'ascia, nla ghigliottina, ma che morire fucilato era intollerabile. Invano si ripetche il tremendo era l'atto puro e generale del morire, non le circostanze concrete. Non si stancava d'immaginare queste circostanze: assurdamente, cercava di esaurirne tutte le variazioni. Anticipava infinitamente il processo, dall'alba insonne alla misteriosa scarica. Prima del giorno fissato da Julius Rothe, morcentinaia di morti, in cortili le cui forme e i cui angoli esaurivano la geometria, mitragliato da soldati variabili, in numero cangiante, che a volte lo finivano da lontano, altre da molto vicino. Affrontava con vero timore (forse con vero coraggio) queste esecuzioni immaginarie; ogni finzione durava pochi secondi; chiuso il cerchio, Jaromir interminabilmente tornava alle tremanti vigilie della sua morte. Poi riflettche la realtnon suole coincidere con le previsioni; con logica perversa ne dedusse che prevedere un dettaglio circostanziale impedire che esso accada. Fedele a questa debole magia, inventava, perchnon succedessero, particolari atroci; naturalmente, finper temere che questi particolari. fossero profetici. Miserabile la notte, procurava di affermarsi in qualche modo nella sostanza fuggitiva del tempo. Sapeva che questo andava precipitando verso l'alba del giorno 29; ragionava a voce alta: 揙ra la notte del 23; finchduri questa notte (e altre sei notti) sono invulnerabile, immortale Pensava che le notti di sonno erano vasche profonde e oscure, in cui poteva sommergersi. A volte l'afferrava un'impazienza della scarica definitiva, che lo redimesse, male o bene, dalla sua vana fatica d'immaginare. Il 28, quando l'ultimo occaso splendeva tra le alte sbarre, lo distrasse da queste considerazioni abiette l'immagine del suo dramma I nemici.
Hlad韐 aveva passato i quarant'anni. A parte alcune amicizie e molte abitudini, il problematico esercizio della lettura era tutta la sua vita; come ogni scrittore, misurava le virtdegli altri dalle loro opere, e chiedeva che gli altri misurassero lui dalle sue intenzioni e illuminazioni. Tutti i libri che avevano dato alla stampa gl'infondevano un pentimento complesso. Nei suoi esami dell'opera di Boehme, di Abnesra e di Flood, era intervenuta, essenzialmente, la mera diligenza; nella sua traduzione del Sepher Yezirah, piuttosto la negligenza, la fatica e la congettura. Giudicava meno deficiente, forse, la Vendicazione dell'eternit il primo volume compendia la storia delle diverse eternitideate dagli uomini, dall'Essere immobile di Parmenide fino al passato modificabile di Hinton; il secondo nega (con Francis Bradley) che tutti gli eventi dell'universo costituiscano una serie temporale. Argomenta che il numero delle possibili esperienze dell'uomo non infinito, e che basta una sola 搑ipetizionea dimostrare che il tempo un inganno... Disgraziatamente, non sono meno ingannevoli gli argomenti che dimostrano quest'inganno; Hlad韐 soleva enumerarli con una certa disdegnosa perplessit Aveva anche composto una serie di poesie espressioniste; queste, a confusione del poeta, figurarono in un'antologia del 1924, e non ci fu antologia posteriore che non le ereditasse. Da tutto questo passato equivoco e languido Hlad韐 voleva redimersi col dramma in versi I nemici. (Preconizzava il verso, che impedisce agli spettatori di dimenticare l'irrealt condizione dell'arte.)
Questo dramma osservava l'unitdi tempo, di luogo e di azione; si svolgeva a Hradcany, nella biblioteca del barone di Roemerstadt, in una delle ultime sere del secolo XIX. Nella prima scena del primo atto, uno sconosciuto fa visita a Roemerstadt. (Un orologio suona le sette, una veemenza d'ultimo sole esalta le vetrate, il vento porta le note appassionate e riconoscibili d'una musica ungherese.) A questa visita ne seguono altre; Roemerstadt non conosce le persone che lo importunano, ma ha l'incomoda impressione di averle giviste, forse in sogno. Tutti i visitatori esagerano in lodi e riguardi, ma evidente - prima per gli spettatori del dramma, poi per lo stesso barone - che sono suoi nemici segreti, congiurati per perderlo. Roemerstadt riesce a ostacolare o a sventare i loro complessi intrighi; nel dialogo si fa allusione alla sua fidanzata, Julia di Weidenau, e a un certo Jaroslav Kubin, che una volta aveva importunato la fanciulla con il suo amore. Kubin, ora, impazzito e crede d'essere Roemerstadt... I pericoli si moltiplicano; Roemerstadt, alla fine del secondo atto, si vede obbligato a uccidere un cospiratore. Comincia il terzo e ultimo atto. Aumentano gradualmente le incoerenze: tornano attori che sembravano eliminati dalla trama; torna, per un istante, l'uomo ucciso da Roemerstadt. Qualcuno fa osservare che non ha annottato: l'orologio suona le sette, splende nelle alte vetrate il sole al tramonto, il vento porta un'appassionata musica ungherese. Compare il primo interlocutore e pronuncia le parole che giaveva pronunciato nella prima scena del primo atto. Roemerstadt gli parla senza stupore; lo spettatore comprende che Roemerstadt il miserabile Jaroslav Kubin. Il dramma non un dramma: il delirio circolare che interminabilmente vive e rivive Kubin.
Hlad韐 non s'era mai chiesto se questa tragicommedia degli errori fosse futile o ammirevole, rigorosa o casuale. Nell'argomento che ho abbozzato vedeva l'invenzione piadatta alla dissimulazione dei suoi difetti e all'esercizio delle sue doti; vi si scorgeva la possibilitdi giustificare (in modo simbolico) i fondamenti della propria esistenza. Aveva giterminato il primo atto e qualche scena del terzo; la natura metrica dell'opera gli permetteva di rivederla continuamente, di correggerne gli esametri, senza avere sottocchio il manoscritto. Pensche mancavano ancora due atti, e che tra brevissimo tempo sarebbe morto. Parlcon Dio nell'oscurit 揝e in qua che modo esisto, se non sono una delle tue ripetizioni e delle tue errata, esisto come autore dei Nemici. Per condurre a termine questo dramma, che pugiustificarmi e giustificarti, chiedo ancora un anno. Accordami questi giorni, Tu a cui appartengono i secoli e il tempo Era l'ultima notte, la piatroce; ma dieci minuti dopo, il sonno l'annegcome un'acqua scura
Verso l'alba, sognd'essersi rifugiato in una delle navate della biblioteca del Clementinum. Un bibliotecario dagli occhiali neri gli domando: - Che cerca? - Hlad韐 rispose: - Cerco Dio. - Il bibliotecario disse: - Dio in una delle lettere d'una delle pagine d'uno dei quattrocentomila volumi del Clementinum. I miei padri e i padri dei miei padri hanno cercato questa lettera; io sono diventato cieco a cercarla. - Si tolse gli occhiali e Hlad韐 gli vide gli occhi, che erano morti. Un lettore venne a restituire un atlante. - Quest'atlante inutile, - disse, e lo dette a Hlad韐. Questi l'apra caso. Vide una carta dell'India, vertiginosa. Bruscamente sicuro, toccuna delle lettere piu piccole. Una voce che veniva da ogni luogo gli disse: - Il tempo per il tuo lavoro t'stato concesso. - Qui Hlad韐 si svegli
Ricordche i sogni degli uomini appartengono a Dio e che Maimonide ha scritto che le parole di un sogno, quando suonano chiare e distinte, e non si puvedere chi le ha dette, sono divine. Si vest due soldati entrarono nella cella e gli ordinarono di seguirli.
Di ldalla porta, Hlad韐 aveva previsto un labirinto di gallerie, di scale e di padiglioni. La realtfu meno ricca scesero in un cortiletto per una sola scala di ferro. Diversi soldati - alcuni con l'uniforme sbottonata - rivedevano una motocicletta e la discutevano. Il sergente guardl'orologio; erano le otto e quarantaquattro minuti. Si doveva aspettare che suonassero le nove. Hlad韐, piinsignificante che sventurato, si sedette su una catasta di legna. S'accorse che gli occhi dei soldati fuggivano i suoi. Per alleviare l'attesa, il sergente gli dette una sigaretta. Hlad韐 non fumava; l'accettper cortesia o per umilt Accendendola, vide che gli tremavano le mani. Il giorno s'annuvol i soldati parlavano a voce bassa come se lui gifosse morto. Vanamente cercdi ricordarsi della donna il cui simbolo era Julia di Weidenau...
Il plotone si formo, s'inquadr Hlad韐, in piedi contro il muro della caserma, attese la scarica. Qualcuno temette che la parete restasse macchiata di sangue; ordinarono allora al condannato di avanzare di alcuni passi. Hlad韐, assurdamente, ricordi vacillamenti preliminari ordinati dai fotografi. Una pesante goccia di pioggia gli sfioruna tempia e lentamente rotolsulla sua guancia; il sergente vociferil comando finale.
L'universo fisico si ferm
Le armi convergevano su Hlad韐, ma gli uomini che stavano per ucciderlo restavano immobili. Il braccio del sergente eternizzava un gesto inconcluso. Su un mattone del cortile un'ape proiettava un'ombra fissa. Il vento s'era arrestato come in un quadro. Hlad韐 tentun grido, una sillaba, la torsione d'una mano. Comprese che era paralizzato. Non il pitenue rumore gli giungeva dal mondo impedito. Pens搒ono all'inferno, sono morto Pens搒ono impazzito Pens搃l tempo s'fermato Poi riflettche in questo caso anche il suo pensiero si sarebbe fermato. Volle metterlo a prova: ripetesenza muovere le labbra) la misteriosa quarta ecloga di Virgilio. Immaginche i giremoti soldati condividessero la sua angoscia; bramdi comunicare con loro. Si stupdi non sentire alcuna stanchezza, e neppure la vertigine della sua lunga immobilit Dopo un tempo indeterminato, s'addorment Quando si risvegli il mondo continuava immobile e sordo. Durava: sulla sua guancia la goccia d'acqua; nel cortile, l'ombra dell'ape; il fumo della sigaretta che aveva fumato non finiva mai di disperdersi. Un altro 揼iornopassprima che Hlad韐 comprendesse.
Un anno intero aveva chiesto a Dio per terminare il suo lavoro: un anno gli concedeva l'Onnipotente. Dio compiva per lui un miracolo segreto: l'ucciderebbe, all'ora fissata, il plotone tedesco, ma nella sua mente, tra l'ordine e l'esecuzione dell'ordine, trascorrerebbe un anno. Dalla perplessitpassallo stupore, dallo stupore alla rassegnazione, dalla rassegnazione, a un'improvvisa gratitudine.
Non disponeva d'altro documento che della memoria; il mandare a mente ogni esametro nuovo, gl'impose un fortunato rigore, ignorato da coloro che arrischiano e dimenticano paragrafi provvisori e sconclusionati. Non lavorper la posterite neppure per Dio, delle cui preferenze letterarie poco sapeva. Minuzioso, immobile, segreto, ordnel tempo il suo alto labirinto invisibile. Rifece il terzo atto due volte. Soppresse certi simboli troppo evidenti: i rintocchi ripetuti, la musica. Nulla veniva a importunarlo e a distrarlo. Soppresse, abbrevi ampli in nessun caso preferla versione primitiva. Giunse ad amare il cortile, la caserma. Uno dei volti che gli erano di fronte modificla sua concezione del carattere di Roemerstadt. Scoprche le ardue cacofonie che tanto allarmavano Flaubert, sono mere superstizioni visive: debolezze e molestie della parola scritta, non di quella sonora... Terminil suo dramma non gli mancava di risolvere, ormai, che un solo aggettivo. Lo trov la goccia d'acqua riprese a scivolare sulla sua guancia. Gridil principio d'un grido, mosse il capo, la quadruplice scarica lo fulmin
Jaromir Hlad韐 mori il 29 marzo, alle nove e due minuti del mattino.

[1943].


Tre versioni di Giuda

There seemed a certainty in degradation.
T. E. Lawrence Seven Pillors of Wisdom.

Nell'Asia Minore o ad Alessandria, nel secolo II della nostra fede, quando Basilide annunciava che il cosmo una temeraria o malvagia improvvisazione di angeli imperfetti, Nils Runeberg avrebbe diretto, con singolare passione intellettuale, una delle conventicole gnostiche. Dante gli avrebbe destinato, probabilmente, un sepolcro di fuoco; il suo nome arricchirebbe il catalogo degli eresiarchi minori, tra Satornice e Carpocrate; qualche frammento delle sue prediche, ornato d'ingiurie, durerebbe nell'apocrifo Liber adversus omnes haereses, o sarebbe perito quando l'incendio d'una biblioteca monastica divorl'ultimo esemplare del Syntagma. Invece, Dio gli assegnil secolo XX e la cittuniversitaria di Lund. Qui, nel 1904, pubblicla prima edizione di Kristus och Judas; e, nel 1909, la sua opera capitale Den hemlige Fr鋖saren (tradotta in tedesco da Emil Schering: Der heimliche Heiland, 1912).
Prima di tentare un esame di questi lavori, necessario ripetere che Nils Runeberg, membro dell'Unione Evangelica Nazionale, era profondamente religioso. In un cenacolo di Parigi o anche di Buenos Aires, un letterato potrebbe benissimo riscoprire le tesi di Runeberg; queste tesi, cosproposte in un cenacolo, sarebbero leggeri e inutili esercizi della negligenza e della bestemmia. Per Runeberg, furono la chiave che decifra un mistero centrale della teologia; furono materia di meditazione e di analisi, di controversia storica e filologica, di orgoglio, di giubilo e di terrore. Giustificarono e scompigliarono la sua vita. Chi leggerquest'articolo, consideri che in esso non riferisco, di Runeberg, che le conclusioni, e non la dialettica e le prove. Alcuni osserveranno che le conclusioni precedettero senza dubbio, le prove. Ma chi si rassegnerebbe a cercar prove di cosa che ginon creda, e di cui non gl'importi?
La prima edizione di Kristus och Judas porta questa categorica epigrafe, il cui senso, anni pitardi, sarebbe stato mostruosamente allargato dallo stesso Nils Runeberg: 揘on una sola cosa, tutte le cose che la tradizione attribuisce a Giuda Iscariota sono false(De Quincey, 1857). Alla maniera d'un suo predecessore tedesco, De Quincey stimche Giuda avesse consegnato GesCristo per forzarlo a dichiarare la sua divinite ad accendere una vasta ribellione contro il giogo di Roma; Runeberg suggerisce una giustificazione d'indole metafisica. Abilmente, comincia col sottolineare la superfluitdell'atto di Giuda. Osserva (come Robertson) che per identificare un maestro che quotidianamente predicava nella sinagoga e che faceva miracoli dinanzi a migliaia di persone, non era necessario il tradimento d'un apostolo. Ciappunto, tuttavia, avvenne. Supporre un errore nella Scrittura intollerabile; non meno intollerabile ammettere un fatto casuale nel piprezioso avvenimento della storia del mondo. Ergo il tradimento di Giuda non fu casuale; fu cosa prestabilita, e che ebbe il suo luogo misterioso nell'economia della redenzione. Incarnandosi - prosegue Runeberg - il Verbo passdall'ubiquitallo spazio, dall'eternitalla storia, dalla felicitsenza limiti alla mutazione e alla morte; per rispondere a tanto sacrificio, era necessario che un uomo, in rappresentanza di tutti gli uomini, facesse un sacrificio condegno. Giuda Iscariota fu quest'uomo. Giuda, unico tra gli apostoli, intula segreta divinite il terribile proposito di Ges Il Verbo s'era abbassato alla condizione di mortale; Giuda, discepolo del Verbo, poteva abbassarsi alla condizione di delatore (l'infamia peggiore tra tutte le. infamie) e d'ospite del fuoco che non s'estingue. L'ordine inferiore uno specchio dell'ordine superiore; le forme della terra corrispondono alle forme del cielo; le macchie della pelle sono una carta delle costellazioni incorruttibili; Giuda rispecchiava in qualche modo Ges Di qui i trenta denari e il bacio; di qui la morte volontaria, per meritare ancor pila Riprovazione. Cosi spiegNils Runeberg l'enigma di Giuda.
I teologi di tutte le confessioni lo sconfessarono. Lars Peter Engstr鰉. l'accusdi ignorare, o di negligere, l'unione ipostatica; Axel Borelius, di rinnovare l'eresia degli gnostici, che negarono l'umanitdi Ges l'inflessibile vescovo di Lund, di contraddire al terzo versetto del capitolo XXII del vangelo di san Luca.
Questi vari anatemi influirono su Runeberg, che parzialmente riscrisse il libro riprovato e modificla propria dottrina. Abbandonai suoi avversari il terreno ideologico e propose oblique ragioni di ordine morale. Ammise che Ges che disponeva delle considerevoli risorse che puoffrire l'Onnipotenza, non aveva bisogno d'un uomo per redimere tutti gli uomini. Confut poi, quanti affermano che nulla sappiamo dell'inesplicabile traditore; sappiamo, disse, che fu uno degli apostoli, uno di quelli che furono scelti per annunciare il regno dei cieli, per risanare infermi, per mondare lebbrosi, per risuscitare morti e per cacciare demoni (Matteo X 7-8; Luca X I). Un uomo cui il Redentore ha cosdistinto merita che noi diamo dei suoi atti l'interpretazione migliore. Ascrivere il suo delitto alla cupidigia (come hanno fatto alcuni, sull'autoritdi Giovanni XII 6) rassegnarsi al movente piturpe. Nils Runeberg propone il movente contrario: un ascetismo iperbolico e addirittura illimitato. L'asceta, per la maggior gloria di Dio, avvilisce e mortifica la carne; Giuda fece la stessa cosa con lo spirito. Rinunciall'onore, al bene, alla pace, al regno dei cieli, come altri, meno eroicamente, rinunciano al piacere. Premeditcon luciditterribile le sue colpe. L'adulterio partecipa della tenerezza e dell'abnegazione; l'omicidio, del coraggio; le profanazioni e la bestemmia, d'un certo fulgore satanico. Giuda scelse quelle colpe cui non visita alcuna virt l'abuso di fiducia (Giovanni XII 6) e la delazione. Agcon gigantesca umilt si stimindegno d'essere buono. Paolo ha scritto: 揅hi si gloria, si glorii nel Signore(Ai Corinti I 31); Giuda cercl'Inferno, perchla felicita del Signore gli bastava. Pensche la felicit come il bene, un attributo divino, cui non debbono usurpare gli uomini.
Molti hanno scoperto, post factum, che le giustificabili premesse di Runeberg giprefigurano l'assurditdella conclusione e che Den hemlige Fr鋖saren una semplice perversione o esasperazione di Kristus och Judas. Verso la fine del 1907 Runeberg termine rivide il testo manoscritto; quasi due anni passarono senza che lo desse alle stampe. Nell'ottobre 1909 il libro usccon una prefazione (tepida fino all'enigmatico) dell'ebraista danese Erik Erfjord e con questa perfida epigrafe: 揘el mondo era, e il mondo fu fatto per lui, e il mondo non lo conobbe(Giovanni I 10). Il tema generale non complesso, ma la conclusione mostruosa. Dio, argomenta Runeberg, s'abbassalla condizione di uomo per la redenzione del genere umano; ci permesso di pensare che il suo sacrificio fu perfetto, non invalidato o attenuato da omissioni. Limitare ciche soffrall'agonia d'un pomeriggio sulla croce, bestemmia. Affermare che fu un uomo e che fu incapace di peccato, implica contraddizione: gli attributi di impeccabilitas e di humanitas non sono compatibili. Kemnitz ammette che il Redentore potsentire fatica, freddo, turbamento, fame e sete; anche lecito ammettere che potpeccare e perdersi. Il famoso passo: 揝alircome radice da terra arida; non v'in lui forma, ne bellezza alcuna... Disprezzato come l'ultimo degli uomini; uomo di dolori, esperto in afflizioni(Isaia LIII 2-3) per molti una profezia del crocifisso, nell'ora della sua morte; per alcuni (per Hans Lassen Martensen, ad esempio) una confutazione della bellezza che per volgare consenso s'attribuisce a Cristo; per Runeberg, la puntuale profezia non d'un momento solo, ma di tutto l'atroce avvenire, nel tempo e nell'eternit del Verbo fatto carne. Dio interamente si fece uomo, ma uomo fino all'infamia, uomo fino alla dannazione e all'abisso. Per salvarci, avrebbe potuto scegliere uno qualunque dei destini che tramano la perplessa rete della storia, avrebbe potuto essere Alessandro o Pitagora o Rurik o Ges scelse un destino infimo: fu Giuda.
Invano le librerie di Stoccolma e di Lund proposero questa rivelazione. Gli increduli la giudicarono, a priori, un insipido e laborioso gioco teologico; i teologi la disdegnarono. Runeberg intuin questa indifferenza ecumenica una quasi miracolosa conferma. Dio ordinava quest'indifferenza; Dio non voleva che si propalasse sulla terra il suo terribile segreto. Runeberg comprese che l'ora non era giunta. Sentche stavano convergendo su di lui antiche maledizioni divine; ricordElia e Mos che sulla montagna si coprirono il volto per non vedere Dio: Isaia, che atterrquando i suoi occhi videro Colui la cui gloria riempie la terra; Saul, che restcieco sulla via di Damasco; il rabbino Simeon ben Azal, che vide il Paradiso e mor il famoso mago Giovanni da Viterbo, che impazzquando potvedere la Trinit i Midrashim, che abominano gli empi che pronunciano il Shem Hamephorash, il Segreto Nome di Dio. Non era egli stesso, forse, colpevole di questo crimine oscuro? Non sarebbe questa la bestemmia contro lo Spirito, quella che non sarperdonata (Matteo XII 31)? Valerio Sorano mori per aver divulgato l'occulto nome di Roma; quale infinito castigo sarebbe stato il suo, per aver scoperto e divulgato l'orrendo nome di Dio?
Ebbro d'insonnia e di vertiginosa dialettica, Nils Runeberg errper le vie di Malm pregando a volte che gli fosse concessa la grazia di dividere l'Inferno col Redentore.
Mordella rottura d'un aneurisma, il primo marzo 1912. Gli eresiologi, forse, ne faranno cenno: aggiunse al concetto di Figlio, che sembrava esaurito, le complessitdel male e della sventura.

[1944].


FINE






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