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Il sergente nella neve
di Mario Rigoni Stern



Sommario

Parte prima
Il caposaldo
Parte seconda
La sacca


PARTE PRIMA

Il caposaldo

Ho ancora nel naso l'odore che faceva il grasso sul fu-
cile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie
e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchia-
va sotto le scarpe, gli sternuti e i colpi di tosse delle ve-
dette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento
sulle rive del Don. Ho ancora negli occhi il quadrato di
Cassiopea che mi stava sopra la testa tutte le notti e i pa-
li di sostegno del bunker che mi stavano sopra la testa di
giorno. E quando ci ripenso provo il terrore di quella
mattina di gennaio quando la Katiuscia, per la prima
volta, ci scaraventò le sue settantadue bombarde.
Prima che i russi attaccassero e pochi giorni dopo che
si era arrivati si stava bene nel nostro caposaldo.
Il nostro caposaldo era in un villaggio di pescatori in
riva al Don nel paese dei cosacchi. Le postazioni e le
trincee erano scavate nella scarpata che precipitava sul
fiume gelato. Tanto a destra che a sinistra la scarpata de-
clinava sino a diventare un lido coperto di erbe secche e
di canneti che spuntavano ispidi tra la neve. Al di là di
un lido, a destra, il caposaldo del Morbegno; al di là
dell'altro, quello del tenente Cenci. Tra noi e Cenci, in
una casa diroccata, la squadra del sergente Garrone con
una pesante. Di fronte a noi, a meno di cinquanta metri,
sull'altra riva del fiume, il caposaldo dei russi.
Dove eravamo noi doveva essere stato un bel paese.
Ora, invece, delle case rimanevano in piedi soltanto i ca-
mini di mattoni. La chiesa era metà; e nell'abside erano
il comando di compagnia, un osservatorio e una posta-
zione per la pesante. Scavando i camminamenti negli or-
ti delle case che non c'erano più, uscivano fuori dalla
terra e dalla neve patate, cavoli, carote, zucche. Qualche
volta era roba buona e si faceva la minestra.
Le uniche cose vive, animalmente vive, che erano rima-
ste nel villaggio, erano i gatti. Non più oche, cani, galline,
vacche, ma solo gatti. Gatti grossi e scontrosi che vagavano
fra le macerie delle case a caccia di topi. I topi non faceva-
no parte del villaggio ma facevano parte della Russia, della
terra, della steppa: erano dappertutto. C'erano topi nel ca-
posaldo del tenente Sarpi scavato nel gesso. Quando si
dormiva venivano sotto le coperte al caldo con noi. I topi!
Per Natale volevo mangiarmi un gatto e farmi con la
pelle un berretto. Avevo teso anche una trappola, ma
erano furbi e non si lasciavano prendere. Avrei potuto
ammazzarne qualcuno con un colpo di moschetto, ma ci
penso soltanto adesso ed è tardi. Si vede proprio che ero
intestardito di volerlo prendere con la trappola, e così
non ho mangiato polenta e gatto e non mi sono fatto il
berretto con il pelo. Quando si tornava dalla vedetta, si
macinava la segala: e così ci riscaldavamo prima di anda-
re a dormire. La macina era fatta con due corti tronchi
di rovere sovrapposti e dove questi combaciavano c'era-
no dei lunghi chiodi ribaditi. Si faceva colare il grano da
un foro che stava sopra nel centro e da un altro foro, in
corrispondenza dei chiodi, usciva la farina.
Si girava con una manovella. Alla sera, prima che
uscissero le pattuglie, era pronta la polenta calda. Dia-
volo! Era polenta dura, alla bergamasca, e fumava su un
tagliere vero che aveva fatto Moreschi. Era senza dubbio
migliore di quella che facevano nelle nostre case. Qual-
che volta veniva a mangiarla anche il tenente che era
marchigiano. Diceva: - Com'è buona questa polenta! -
e ne mangiava due fette grosse come mattoni.
E poiché noi avevamo due sacchi di segala e due ma-
cine, alla vigilia di Natale mandammo una macina e un
sacco al tenente Sarpi con auguri per i mitraglieri del
nostro plotone che erano lassù nel suo caposaldo.
Si stava bene nei nostri bunker. Quando chiamavano
al telefono e chiedevano: - Chi parla? - Chizzarri, l'at-
tendente del tenente, rispondeva: - Campanelli! - Era
questo il nome di convenienza del nostro caposaldo e
quello di un alpino di Brescia che era morto in settem-
bre. Dall'altra parte del filo rispondevano: - Qui Valsta-
gna: parla Beppo -. Valstagna è un paese sul fiume
Brenta lontano dal mio dieci minuti di volo d'aquila
mentre qui indicava il comando di compagnia. Beppo, il
nostro capitano nativo di Valstagna. Pareva proprio di
essere sulle nostre montagne e sentire i boscaioli chia-
marsi fra loro. Specialmente di notte quando quelli del
Morbegno, che erano nel caposaldo alla nostra destra,
uscivano sulla riva del fiume a piantare reticolati e con-
ducevano i muli davanti alle trincee e urlavano e be-
stemmiavano e battevano pali con le mazze. Chiamava-
no persino i russi e gridavano: - Paesani! Paruschi,
spacoina noci! - I russi, stupefatti, stavano a sentire.
Ma dopo abbiamo preso anche noi confidenza con le
cose.
Una notte di luna sono uscito con Tourn, il piemonte-
se, a cercare qualcosa fra case diroccate più discoste. Sia-
mo scesi in quei buchi che sono davanti ad ogni isba, do-
ve i russi ripongono le provviste per l'inverno e la birra
d'estate. In uno c'erano tre gatti che facevano all'amore,
e che, seccati, balzarono fuori mandando scintille dagli
occhi facendoci prendere un gran spavento. Quella volta
trovai una pentola di ciliege secche e Tourn due sacchi di
segala e due sedie, ed io in un altro buco, uno specchio
grande e bello. Volevamo portare quella roba nella no-
stra tana, ma c'era la luna e la vedetta russa che stava al
di là del fiume non voleva che portassimo via la sua roba
e ci sparò. Forse aveva ragione, ma lui non l'avrebbe po-
tuta adoperare, e le pallottole ci passavano vicine fi-
schiando come a dirci: "Mettete giù". Dietro un camino
abbiamo aspettato che una nube coprisse la luna, poi,
saltando fra le macerie, abbiamo raggiunto la nostra tana
dove i compagni ci aspettavano.
Era proprio bello sedersi su una sedia per scrivere al-
la ragazza, o radersi guardandoci nello specchio grande,
o bere, alla sera, lo sciroppo delle ciliege secche bollite
nell'acqua di neve.
Peccato che non riuscivo a prendere il gatto.
Quello che bisognava economizzare era l'olio per i lu-
mini. D'altra parte, un po' di luce ci voleva sempre nelle
tane, per il caso di un allarme, sebbene avessimo armi e
munizioni sempre a portata di mano.
Una notte che nevicava ero andato con il tenente oltre
i nostri reticolati ove c'era la spiaggia abbandonata fra
noi e il Morbegno. Non c'era nessuno là. Soltanto rotta-
mi aggrovigliati di chissà quali macchine. Volevamo ve-
dere cosa c'era di buono fra quei rottami. Trovammo un
bidone di olio, e pensammo che potesse servire per fare
i lumi e per ungere le armi. Così un'altra notte che c'era
tormenta ed era buio son ritornato l’ con Tourn e Bodei.
Mettendo il bidone in una posizione comoda per poter-
lo vuotare nei recipienti che avevamo con noi, si fece del
rumore. La vedetta sparò, ma era buio nero come il fon-
do esterno del paiolo della polenta; sparò così per scal-
darsi le mani. Bodei bestemmiava sottovoce per non far-
si sentire. Eravamo più vicini ai russi che ai nostri
compagni. Facendo diversi viaggi riuscimmo a portare
nella tana un cento litri di olio. Abbiamo dato un po'
d'olio al tenente Cenci per il suo caposaldo, poi al te-
nente Sarpi, poi anche il capitano ne volle, e la squadra
esploratori, e anche il maggiore al comando di battaglio-
ne. Infine, stanchi delle richieste, mandammo a dire che
non ne avevamo più. Quando ci diedero l'ordine di ri-
piegare ne abbiamo lasciato anche per i russi. Nella no-
stra tana c'erano tre lumi fatti con scatolette di carne
vuote. Per gli stoppini si adoperavano stringhe da scar-
pe tagliate a pezzi.

La notte era per noi come il giorno. Camminavo sem-
pre fuori dai camminamenti e andavo da una vedetta
all'altra. Mi divertivo a camminare senza far rumore e
giungere così alle loro spalle per vederle, confuse, chie-
dermi la parola d'ordine. Io rispondevo: - Ciavhad de
Brexa -. Poi parlavo loro sottovoce in bresciano, rac-
contavo qualche barzelletta e dicevo parole sconce. Ri-
devano a sentirmi, veneto come sono, parlare nel loro
dialetto. Solo quando andavo da Lombardi stavo zitto.
Lombardi! Non posso ricordare il suo viso senza che si
rinnovi in me un fremito. Alto, taciturno, cupo. Quando
lo guardavo in viso non mi sentivo di fissarlo a lungo e
quando, molto di rado, sorrideva, faceva male al cuore.
Sembrava facesse parte di un altro mondo e sapesse del-
le cose che a noi non poteva dire. Una notte, mentre mi
trovavo da lui, venne una pattuglia russa, e le pallottole
dei mitra sfiorarono l'orlo della trincea. Io, allora, ab-
bassai il capo e guardai attraverso la feritoia. Lombardi,
invece, stava ritto con tutto il petto fuori e non si muo-
veva di un filo. Io avevo paura per lui, sentivo di arrossi-
re per vergogna. Una sera, poi, durante l'attacco dei rus-
si, venne il sergente Minelli a dirmi che Lombardi era
morto con una pallottola in fronte mentre, fuori della
trincea, ritto in piedi, sparava con un mitragliatore im-
bracciato. Ricordai allora com'era sempre stato tacitur-
no e il senso di soggezione che mi dava la sua presenza.
Pareva che la morte fosse già in lui.

La cosa più buffa era quando portavamo davanti alla
trincea i gabbioni dei reticolati. Ricordo un alpino, pic-
colo, sempre attivo, con la barba secca e rada, porta-ar-
ma tiratore veramente in gamba della squadra di Pintos-
si. Lo chiamavamo "il Duce". Bestemmiava in un modo
tutto suo particolare ed era ridicolo a vedersi perché in-
dossava un camicione bianco più lungo di lui, così che,
camminando, questo s'impigliava sempre sotto gli scar-
poni scatenando una fila di bestemmie che lo sentivano
anche i russi. S'impigliava spesso anche fra i gabbioni di
filo spinato che portava con il suo compagno e allora
neanche tirava il fiato per bestemmiare, e includeva la
naia, i reticolati, la posta, gli imboscati, Mussolini, la fi-
danzata, i russi. Sentirlo era meglio che andare a teatro.

Venne anche il giorno di Natale.
Sapevo che era il giorno di Natale perché il tenente la
sera prima era venuto nella tana a dirci: - é Natale do-
mani! - Lo sapevo anche perché dall'Italia avevo ricevu-
to tante cartoline con alberi e bambini. Una ragazza mi
aveva mandato una cartolina in rilievo con il presepio, e
la inchiodai sui pali di sostegno del bunker. Sapevamo
che era Natale. Quella mattina avevo finito di fare il soli-
to giro delle vedette. Nella notte ero andato per tutti i
posti di vedetta del caposaldo e ogni volta che trovavo
fatto il cambio dicevo: - Buon Natale!
Anche ai camminamenti dicevo buon Natale, anche al-
la neve, alla sabbia, al ghiaccio del fiume, anche al fumo
che usciva dalle tane, anche ai russi, a Mussolini, a Stalin.
Era mattina. Me ne stavo nella postazione più avanza-
ta sopra il ghiaccio del fiume e guardavo il sole che sor-
geva dietro il bosco di roveri sopra le postazioni dei rus-
si. Guardavo il fiume ghiacciato da su dove compariva
dopo una curva fin giù dove scompariva in un'altra cur-
va. Guardavo la neve e le peste di una lepre sulla neve:
andavano dal nostro caposaldo a quello dei russi. "Se
potessi prendere la lepre!", pensavo. Guardavo attorno
tutte le cose e dicevo: - Buon Natale! - Era troppo fred-
do star l’ fermo e risalendo il camminamento rientrai
nella tana della mia squadra. - Buon Natale! - dissi, -
buon Natale!
Meschini stava pestando il caffè nell'elmetto con il
manico della baionetta.
Bodei faceva bollire i pidocchi.
Giuanin stava appollaiato nella sua nicchia vicino alla
stufa.
Moreschi si rammendava le calze.
Quelli che avevano fatto gli ultimi turni di vedetta
dormivano. C'era un odore forte là dentro: odore di
caffè, di maglie e mutande sporche che bollivano con i
pidocchi, e di tante altre cose. A mezzogiorno Moreschi
mandò per i viveri. Ma siccome quel rancio non era da
Natale si decise di fare la polenta. Meschini ravvivò il
fuoco, Bodei andò a lavare il pentolone in cui aveva bol-
lito i pidocchi.
Tourn e io si voleva sempre stacciare la farina e, chissà
dove e come, un giorno Tourn riusc’ a trovare uno staccio.
Ma quello che restava nello staccio, tra crusca e grano ap-
pena spezzato, era più di metà e allora si decise a maggio-
ranza di non stacciarla più. La polenta era dura e buona.
Era il pomeriggio di Natale. Il sole incominciava ad
andarsene per i fatti suoi dietro la mugila e noi si stava
nella tana attorno alla stufa fumando e chiacchierando.
Venne poi dentro il cappellano del Vestone: - Buon Na-
tale, figlioli, buon Natale! - E si appoggiò con la schiena
ad un palo di sostegno. - Sono stanco, - disse, - ho fatto
tutti i bunker del battaglione. Quanti ce ne sono ancora
dopo il vostro?
- Una squadra sola, - dissi. - Dopo viene il Morbegno.
- Dite il rosario stasera e poi scrivete a casa. State al-
legri e sereni e scrivete a casa. Ora vado dagli altri. Arri-
vederci.
- Non ha neanche un pacchetto di Milit da darci, pa-
dre?
- Ah, sì! Prendete.
E ci butta due pacchetti di Macedonia e va fuori. Me-
schini bestemmia. Bodei bestemmia. Giuanin dalla sua
nicchia dice: - Zitti, è Natale oggi! - Meschini bestem-
mia ancora più fiorito: - Sempre Macedonia, - dice, - e
mai trinciato forte o Popolari o Milit. Questa è paglia
per signorine.
- Boia faus, - dice Tourn, - Macedonia.
- Porca la mula, - dice Moreschi, - Macedonia.
Poi mandai fuori la prima coppia di vedette perché
era buio. Ero l’ che mi grattavo la schiena vicino alla stu-
fa quando entrò Chizzarri a chiamarmi: - Sergentmagiù,
- disse, - ti vogliono al telefono. é il capitano -. Mi infi-
lai il pastrano e presi il moschetto domandandomi cosa
potessi aver fatto di male. Il telefono era nella tana del
tenente. Il tenente era fuori, forse a passeggiare lungo la
riva del fiume per sentire gli starnuti delle vedette russe.
Era proprio Beppo, il capitano, che mi voleva su a
Valstagna, al comando di compagnia. Aveva qualcosa da
dirmi. "Che sarà?" pensavo, mentre andavo su alla chie-
sa diroccata.
Con la faccia tonda e rossa il capitano mi aspettava
nella sua tana che era larga e comoda. Aveva il cappello
sulle ventitre con la penna diritta come un coscritto, le
mani in tasca. - Buon Natale! - disse. E poi mi tese la
mano e poi un bicchiere di latta con dentro cognac. Mi
chiese come andava al mio paese e come al caposaldo.
Mi cacciò tra le braccia un fiasco di vino e due pacchi di
pasta. Ritornai giù alla mia tana saltando fra la neve co-
me un capretto a primavera. Nella furia scivolai e caddi
ma non ruppi il fiasco né mollai la pasta. Bisogna saper
cadere. Una volta sono scivolato sul ghiaccio con quat-
tro gavette di vino e non versai una goccia: io ero giù per
terra ma le gavette le avevo salde in mano con le braccia
tese a livello. Ma era successo in Italia di aver quattro
gavette di vino, al corso sciatori.
Quando arrivai al caposaldo le vedette mi diedero
l'alt-chi-va-là-parola-d'ordine e gridai, forte che mi sen-
tirono anche i russi: - Pastasciutta e vino!

Un giorno che, sdraiato sulla paglia, guardavo i pali di
sostegno e pensavo che parole nuove dovevo scrivere alla
ragazza, venne Chizzarri a dirmi che il tenente Cenci ave-
va telefonato che andassi da lui a fare due chiacchiere.
Infilai il camminamento che portava al suo caposaldo.
Mi pareva di essere al paese come quando si va da
una contrada all'altra per trovare un amico e far due
chiacchiere all'osteria. Ma dal tenente Cenci era diffe-
rente. Aveva una tana tutta bianca scavata nel gesso,
mentre le nostre erano nere. C'erano dentro un lettino
ben rifatto, con le coperte pulite e senza una grinza, un
tavolo con sopra una coperta da campo, alcuni libri, e il
lume a petrolio che pareva un soprammobile. Vicino
all'entrata, in una nicchia, una fila di bombe a mano ros-
se e nere parevano fiori. Presso il lettino, appoggiato alla
parete, il moschetto lucido: accanto a questo l'elmetto
sospeso ad un chiodo. Per terra non vi era un filo di pa-
glia o una cicca. Prima di entrare battei e strisciai le
scarpe per non portar dentro neve.
Il tenente Cenci, sorridente, mi aspettava in piedi nel-
la sua divisa pulita e con il passamontagna bianco risvol-
tato intorno al capo come il turbante di un indiano. Mi
chiese della ragazza, si parlava di cose belle e gentili, e
poi chiamò l'attendente a fare il caffè.
Quando stavo per andarmene mi regalò un pacchetto
di Africa e mi diede in prestito un libro che parlava di un
aviatore che volava per l'oceano, le Ande, i deserti. Mi ac-
compagnò per le postazioni del suo caposaldo; guardan-
do il campo di tiro dei suoi mitragliatori gli feci osservare
che doveva sparare un po' più alto e a sinistra perché le
pallottole passavano sopra la nostra trincea e noi non po-
tevamo mettere fuori il naso, com'era successo una volta
ch'era venuta una pattuglia russa e lui sparava.
Ritornando solo alla mia tana pensavo se avrei trovato
posta e che parole nuove dovevo scrivere alla ragazza.
Ma le parole nuove erano sempre quelle vecchie: baci,
bene, amore, ritornerò. Pensavo che se avessi scritto:
gatto per Natale, olio per le armi, turno di vedetta, Bep-
po, postazioni, tenente Moscioni, caporale Pintossi, reti-
colati, non avrebbe capito niente.

Tourn, il piemontese, era il più allegro di tutti anche se
aveva un po' di paura. L'avevano mandato al nostro bat-
taglione per punizione perché era rientrato in ritardo dal-
la licenza. In principio non si era trovato bene con noi ma
poi sì, e molto. Quando rientrava nella tana, dopo il suo
turno di vedetta, gridava: - Madamin c'al porta Ôna buta!
Bodei, che era bresciano come tutti gli altri, rispondeva:
- Bianco o negher?
- Basta c'al sia! - riprendeva Tourn e poi cantava nel
suo dialetto: - All'ombretta di un cespuglio...
Un giorno gli chiesi: - Tourn, hai ricevuto posta da
casa? - Sì, - disse lui, - l'ho già fumata tutta.
Tourn, infatti, raccoglieva tutte le cicche, ne levava il
tabacco e con le lettere che riceveva da casa "per via ae-
rea" faceva cartine. Lui così fumava sempre e faceva in
modo che da casa gli scrivessero sempre "per via aerea"
per aver carta sottile.
Giuanin invece, ogni volta che gli capitavo a tiro, mi
chiamava in disparte, mi strizzava l'occhio e sottovoce
mi chiedeva: - Sergentmagiù, ghe rivarem a baita?
Perché lui era certo che io sapessi come sarebbe an-
data a finire la guerra, chi sarebbe restato vivo, chi mor-
to e quando. Così io rispondevo con sicurezza: - Sì,
Giuanin, ghe rivarem a baita -. Secondo lui dovevo an-
che sapere se avrebbe sposato la sua ragazza. Qualche
volta gli dicevo che doveva stare attento agli imboscati.
Si appollaiava nella sua nicchia vicino alla stufa e con
gli occhi mi ripeteva: - Sergentmagiù, ghe rivarem a bai-
ta? - Pareva che fra noi due vi fosse un segreto.
Un bel tipo era anche Meschini. Era lui che faceva la
polenta la sera. Mescolava con energia: le maniche della
camicia rimboccate fino al gomito, una goccia di sudore
per ogni pelo di barba. Si vedevano i muscoli delle
braccia e del viso irrigidirsi, si piantava a gambe larghe.
Così mescolava la polenta Meschini. Pareva Vulcano
che batteva sull'incudine. Raccontava che quando era
in Albania la tormenta faceva bianco il pelo dei muli
neri e il fango cambiava in neri i muli bianchi. Quelli
che avevano pochi mesi di naia lo stavano ad ascoltare
increduli. Era un ex conducente e odorava ancora di
mulo: la sua barba era pelo di mulo, la sua forza era di
mulo, la guerra la faceva come un mulo, la polenta che
mescolava era mangime di mulo. Aveva il colore della
terra e noi eravamo come lui.
Anche il tenente Moscioni che comandava il caposal-
do era come noi. Riposava lavorando come i muli, scava-
va camminamenti con noi durante il giorno e veniva con
noi di notte a portare reticolati davanti alla trincea, a fa-
re postazioni, a prendere pali tra le macerie delle case e
mangiava polenta come mangime di muli.
Ma lui aveva una cosa che noi non avevamo: nello zai-
no nascondeva pacchetti di sigarette Popolari e Milit
che fumava di nascosto nella sua tana; a noi invece pas-
savano Macedonia ed era come fumare foglie di patata.
Moreschi, il caporalmaggiore dei mortai da 45, voleva
cambiare Macedonia contro Milit ma il tenente non ci
stava nemmeno a due contro una. Però, a dire il vero,
Moreschi qualche Milit se la fumava sempre.

La notte di capodanno vi furono i fuochi artificiali.
Diavolo se era freddo! Cassiopea e le Pleiadi brillavano
più che mai sopra le nostre teste, il fiume era gelato
completamente e ogni mezz'ora bisognava dare il cam-
bio alle vedette.
Alla sera ero andato con il tenente sino alla postazio-
ne del sergente Garrone. L’ si giocavano alle carte i soldi
della deca. Fuori la vedetta stava vicino alla mitragliatri-
ce. La pesante sporgeva la canna verso un campo di gra-
none indurito dal gelo: pareva una capra tanto sembrava
magra, la pesante, e sotto la pancia aveva un elmetto di
brace viva.
La vedetta si grattava; i muli avevano l'erpete e lui la
scabbia. Ritornando verso il caposaldo pareva proprio
di andare verso casa nostra. Il tenente volle tirare un col-
po di pistola per vedere se le vedette stavano all'erta. La
pistola fece: clic. Io allora provai a tirare un colpo di
moschetto e il moschetto fece: clic. Mi disse infine di
gettare una bomba a mano e la bomba a mano non fece
nemmeno clic, spar’ nella neve senza fare alcun rumore.
Diavolo se era freddo.
Dopo, verso mezzanotte, venne la sagra. D'un tratto
pallottole traccianti mandavano a pezzi il cielo, pallotto-
le di mitragliatrice passavano sopra il nostro caposaldo
miagolando e davanti le nostre trincee scoppiavano i
152: subito dopo i 75/13 e i mortai da 81 di Baroni lace-
ravano l'aria e i pesci nel fiume. Tremava la terra, e sab-
bia e neve colavano giù dai camminamenti. Nemmeno
nel Bresciano nel giorno della sagra di san Faustino
s'udiva un baccano simile. Cassiopea non si vedeva più e
i gatti chissà dov'erano andati. Le pallottole battevano
sui reticolati mandando scintille. Improvvisamente tutto
ritornò calmo, proprio come dopo la sagra tutto diventa
silenzioso e nelle strade deserte rimangono i pezzi di
carta che avvolgevano le caramelle e i fiocchi delle trom-
bette. Solo ogni tanto si sentiva qualche fucilata solitaria
e qualche breve raffica di mitra come le ultime risate di
un ubriaco vagabondo in cerca di osteria. Tornarono a
brillare le stelle sopra le nostre teste e i gatti a mettere il
muso fuori dalle macerie delle case. Gli alpini rientrava-
no nelle tane. Sul Don, nei buchi delle esplosioni, l'ac-
qua riprendeva a gelare. Ero assieme al tenente e guar-
davamo le cose nell'oscurità e ascoltavamo il silenzio.
Sentimmo che Chizzarri veniva in cerca di noi. - Signor
tenente, vi vogliono al telefono, - disse. Rimasi solo e
guardavo i reticolati a metà sepolti nella neve, le erbe
secche sulla riva del fiume immobile e duro, e sull'altra
riva indovinavo nel buio le postazioni dei russi. Sentii
una nostra vedetta tossire e un passo lungo e felpato co-
me quello del lupo: il tenente ritornava. - Cos'era? -
dissi. é morto Sarpi, - rispose. Guardai nuovamente il
buio e ascoltai di nuovo il silenzio. Il tenente si curvò
nella trincea, accese due sigarette e ne passò una a me.
Mi sentivo allo stomaco come un calcio di fucile e la go-
la chiusa come se avessi da vomitare qualcosa e non po-
tessi. Tenente Sarpi. Attorno a me non c'era nulla, nem-
meno le cose, nemmeno Cassiopea, nemmeno il freddo.
Solo quel dolore allo stomaco. - é stata una pattuglia, -
disse il tenente; - entrò nel suo caposaldo dalle spalle e
penetrò nella trincea. Uscendo di corsa dal suo ricovero
alla curva di un camminamento si prese una raffica in
petto. Hanno portato via anche un conducente della no-
stra compagnia che stava spalando la neve dai cammina-
menti. Andiamo a dormire ora. Buon anno, Rigoni -. Ci
stringemmo la mano.
Come tutte le mattine, quando venne l'alba, andai a
dormire; come sempre mi sdraiai sulla paglia che una
volta era stata il tetto di un'isba, con le scarpe, le giber-
ne, il passamontagna; mi tirai sopra il pastrano con il pe-
lo e guardando i pali del bunker mi addormentai. Come
al solito, verso le dieci, Giuanin mi svegliò per spartire il
rancio. Era speciale quel giorno: patate in umido, carne,
formaggio, vino, e, come sempre, nel percorso dalle cu-
cine al caposaldo s'era gelato. Vedendo il rancio specia-
le mi ricordai che era capodanno e che nella notte era
morto il tenente Sarpi. Uscii fuori dalla tana. Il sole mi
fece vedere tutto bianco, poi andando piano per i cam-
minamenti mi portai nella postazione più avanzata sotto
i reticolati. Da l’ guardai le peste del battaglione russo
che aveva attraversato il fiume a cento metri da noi. Tut-
to era silenzio. Il sole batteva sulla neve, il tenente Sarpi
era morto nella notte con una raffica al petto. Ora matu-
rano gli aranci nel suo giardino, ma lui è morto nel cam-
minamento buio. La sua vecchia riceverà una lettera con
gli auguri. Stamattina i suoi alpini lo porteranno giù con
la barella verso gli imboscati e lo poseranno nel cimite-
ro, lui siciliano, assieme a bresciani e bergamaschi. Era-
vate contento, signor tenente, dei mitraglieri; anche se
bestemmiavano quando ordinavate di pulire le armi
mentre a voi non piaceva sentir bestemmiare. La sera ve-
nivate nella nostra tana: prima dicevamo il rosario, poi
cantavamo, poi bestemmiavamo. Allora tenente Sarpi ri-
devate, poi dicevate parolacce in siciliano. Ora a cento
metri da qui vi sono sulla neve le tracce della pattuglia.
Parlava sovente del mio paese, mi guardava fisso con
quegli occhi piccoli e neri. Giuanin chiedeva al tenente
Sarpi: - Quando rivarem a baita sciur tenente? - Nel
quarantotto, Giuanin, nel quarantotto -. Giuanin striz-
zava l'occhio, ritirava mesto la testa fra le spalle e si al-
lontanava borbottando. Il tenente rideva, lo chiamava e
gli dava una Popolare. Questa notte il pattuglione russo
è passato di là e lui era già morto, con la neve che gli en-
trava nella bocca e il sangue che gli usciva sempre più
piano finché si gelò sulla neve.
Nella sua nicchia vicino alla stufa Giuanin mangerà il
rancio e penserà: "Ghe rivarem a baita?"
Camminavo solo per i camminamenti. Mi fermai ac-
canto a una vedetta e non dissi niente; guardai da una
feritoia la neve sul fiume; non si vedevano più le peste
della pattuglia, ma io le avevo e le ho ancora dentro, co-
me piccole ombre sulla neve di luce ghiacciata.
Andai verso la squadra del Baffo sull'estrema destra.
Era il posto più tranquillo e sicuro del caposaldo dove
il villaggio si diradava tra orti e cespugli. Da quella par-
te, si preparava una postazione per la pesante e il tenen-
te Moscioni e io avevamo passato parecchie ore lavo-
rando di notte a disporre i sacchetti di terra. In una
casetta quasi intatta, una sera, trovammo un'ancora, or-
digno strano per noi alpini, e quella piccola isba a un
unico ambiente divenne per noi l'isba del pescatore.
Camminavo pensando al pescatore dell'isba: ove sarà
adesso? Lo immaginavo vecchio, grande, con la barba
bianca come lo zio Jeroska dei Cosacchidel Tolstoj. Da
quanto tempo avevo letto quel libro? Ero ragazzo al
mio paese. E il tenente Sarpi è morto, stanotte. -
Cos'hai sergentmagiù? - Che bel sole oggi, vero? -
Buon anno, sergentmagiù. - Buon anno, Marangoni. -
Da che parte è l'Italia, sergentmagiù? - Laggiù, vedi?
Laggiù laggiù laggiù. La terra è rotonda, Marangoni, e
noi siamo fra le stelle. Tutti.
Marangoni mi guardava, capiva tutto e taceva. E ora
anche Marangoni è morto, un alpino come tanti. Un
ragazzo era, anzi un bambino. Rideva sempre, e quan-
do riceveva posta mi mostrava la lettera agitandola in
alto: - é la morosa, - diceva. E ora anche lui è morto.
Una mattina, smontato all'alba, era salito sull'orlo della
trincea a prendere la neve per fare il caffè e vi fu un so-
lo colpo di fucile. Piombò giù nella trincea con un foro
in una tempia. Mor’ poco dopo nella sua tana fra i
compagni e non mi sentii il cuore di andarlo a vedere.
Tante volte si era usciti all'alba, anch'io parecchie vol-
te, e nessuno sparava. Anche i russi uscivano e noi non
sparavamo mai. Perché ci fu quel colpo quella matti-
na? E perché mor’ così Marangoni? Forse durante la
notte, pensavo, i russi avranno avuto il cambio e questi
saranno nuovi. - Bisogna stare attenti e uscire con l'el-
metto, - dissi per le tane. Avrei avuto voglia di appo-
starmi con il fucile e aspettare i russi come si aspetta la
lepre. Ma non feci nulla.

La tana della squadra del Baffo era la più in disordine
e puzzolente del caposaldo. Appena entrato non distinsi
nulla. V'era una nebbia pesante, gravida di mille odori,
sentii brusii di parole e le grida di due alpini che litiga-
vano per avere la pentola dove far bollire i pidocchi. -
Buon giorno a tutti e buon anno! gridai dall'uscio. E
con me entrò un soffio di aria fredda e bianca. Qualcu-
no mi rispose, qualcuno mi tese la mano, qualche altro
brontolò fra i denti. Un po' alla volta incominciai a di-
stinguere le figure che si muovevano. Misi d'accordo i
due che litigavano per la pentola. Parlando nel loro dia-
letto raccontai della pattuglia e della morte del tenente
Sarpi. Sapevo che il Baffo mi ascoltava anche se fingeva
di dormire. Non mi vedeva volentieri nella sua tana.
Parlava male di me ai suoi uomini; alcuni gli credevano,
altri no. Mi spiaceva molto che succedesse questo nel
nostro caposaldo dove tutti andavamo d'accordo e ci
aiutavamo. Non mi sopportava perché lo chiamavo di
notte per far dare il cambio alle vedette e perché gli or-
dinavo di tener pulite le armi e ordinata la tana. Si la-
mentava quando la posta non arrivava, quando il rancio
era poco, quando era freddo, quando c'era fumo, quan-
do c'era la dissenteria, sempre. Se poi gli arrivava la po-
sta non era contento, e se la stufa non faceva fumo non
era contento, se il rancio era sufficiente non era conten-
to, se i pidocchi lo lasciavano tranquillo non era conten-
to, se era caldo non era contento, e gli uomini della sua
squadra facevano metà lavoro di quelli di Pintossi. Per
fare una postazione impiegavano giornate e giornate, e
bisognava star loro dietro ad incitarli di continuo e lavo-
rare di più per dar loro l'esempio. Per fare il collega-
mento col Morbegno avevano paura di attraversare la
zona deserta. Gli uomini di Pintossi, invece, avevano
fatto persino il tubo della stufa con scatolette vuote in-
castrate l'una nell'altra. Il Baffo era così perché stanco
di naia. Aveva più di trent'anni e forse otto di servizio
militare: era stato in Africa, poi sorteggiato per la Spa-
gna, poi in Albania e infine qui. Era venuto nella nostra
compagnia con i complementi dopo il primo settembre.
Ed era stanco di naia, non ne poteva più.
Io parlavo nel loro dialetto, forte che mi sentisse anche
il Baffo. Chiedevo dei figli a chi li aveva, che strada biso-
gnava prendere per arrivare al loro paese, promettevo
che da borghese sarei andato a trovarli. Parlavo delle
sbornie che avremmo fatte, delle cantate e del vino nuo-
vo. Dicevo a uno: - Guarda che ti esce una cordata di pi-
docchi dal collo -. Ridevano allora e un altro diceva a
me: - Sergentmagiù, ti esce una pattuglia dalla manica,
hanno la falce e il martello sulla schiena, guardali quei
sovietici! - Ridevo io, allora, e ridevano tutti. Il Baffo fin-
geva di dormire. Prima di uscire andando verso di lui lo
chiamai e gli tesi la mano. - Buon anno: vedrai che a bai-
ta ci arriveremo a fare la sbornia. - Non finisce mai, non
finisce mai, - egli mi rispose. Così passavamo le giornate:
nella tana a scrivere o a pensare guardando i pali di soste-
gno, oppure a buttar pidocchi sulla piastra arroventata
della stufa: diventavano allora tutti bianchi e poi scop-
piavano. Di notte si era fuori ad ascoltare il silenzio e a
guardare le stelle, a preparar postazioni, a piantare reti-
colati, a passare da una vedetta all'altra. Molte notti le
abbiamo passate a tagliar cespugli e canne davanti alle
postazioni di Pintossi. Com'era strano tagliar cespugli e
piante con accette e baionette, di là dai reticolati, nelle
notti fredde sulla neve! Si capiva che i russi stavano zitti
ad ascoltare cosa facevamo. Riunivamo in un gran muc-
chio davanti a noi tutte le piante tagliate. Ne risultava un
bel groviglio che sarebbe stato difficile da attraversare
più dei reticolati. E più rumoroso.
Quando nevicava, bisognava stare molto attenti e
guardinghi per il pericolo dei colpi di mano. Una notte
mentre da solo giravo con il camice bianco sopra il pa-
strano, come un fantasma, mi accorsi di una pattuglia
russa che tentava di aggirare il caposaldo. Non vedevo i
russi ma sentivo la loro presenza a pochi passi da me.
Stavo zitto e immobile. E loro stavano zitti e immobili.
Sentivo che guardavano nel buio come facevo io, le ar-
mi pronte. Avevo paura e quasi tremavo. Se mi avessero
preso e portato via? Cercavo di dominarmi ma le vene
della gola mi battevano forte. Avevo veramente paura.
Infine mi decisi: gridai, buttai le bombe che avevo in
mano, e saltai nel camminamento. Per fortuna una
bomba scoppiò. Sentii i russi che correvano e al baglio-
re vidi che si ritiravano nei cespugli più vicini. Di là
aprirono il fuoco con un'arma automatica. Nel frattem-
po erano giunti alcuni uomini di Pintossi. Dall'orlo del-
la trincea incominciammo a sparare anche noi. Uno
corse a prendere il mitragliatore. Si sparava e poi ci
spostavamo di qualche metro. I russi della pattuglia ri-
spondevano al nostro fuoco ma lentamente si allontana-
vano. Si fermarono poi alquanto lontani e spararono in-
sistentemente con una pesante. Ma alla fine era freddo,
loro ritornarono alle loro tane e noi tornammo alle no-
stre. Se avessero potuto prendere uno di noi forse sa-
rebbero andati in licenza al loro paese. Alla mattina,
con il sole, uscii a osservare le tracce che avevano lascia-
to. In verità erano più lontane di quanto avessi suppo-
sto la notte, e fumando una sigaretta guardavo le loro
postazioni al di là del fiume. Ogni tanto vedevo uno di
loro che si alzava a prendere la neve dall'orlo della trin-
cea. Faranno il tè, pensavo. Mi venne il desiderio di
berne una tazzina. E li guardavo così come si guarda da
un sentiero un contadino che sparge letame nel campo.
Qualche tempo dopo appresi che per il fatto di quella
notte mi avevano proposto per una medaglia. Per che
cosa l'avessi meritata non lo so proprio.

Ai primi di gennaio capitarono al nostro caposaldo,
assieme alla corvè del rancio, tre soldati di fanteria. Era-
no meridionali della divisione Vicenza che i comandi su-
periori, chissà perché, avevano sciolta mandando gli uo-
mini fra le compagnie alpine. Il tenente li assegnò alla
squadra del Baffo.
La sera andai a trovarli. Due non volevano uscire di
vedetta: non si fidavano, mi dicevano nel loro dialetto,
e uno piangeva. Li feci accompagnare al posto di vedet-
ta da due alpini e per convincerli che non c'era pericolo
camminai in piedi fuori della trincea e scesi fischiettan-
do fino ai rottami sicuro che i russi non avrebbero spa-
rato. Pensavo di averli convinti, ma non vollero restare
soli sicché dovetti appaiarli con un alpino. Il terzo, in-
vece, era in gamba. Da borghese faceva il saltimbanco
in un circo equestre, conosceva mille giochetti e nella
tana teneva allegri tutti con quello che sapeva fare e con
delle uscite che facevano ridere anche il Baffo. Gli alpi-
ni gli volevano un bene dell'anima. Battendosi sui denti
con due pezzi di legno componeva persino delle taran-
telle. Imparò subito a suonare in quella maniera la mar-
cia degli alpini.
Quando raccontai la cosa a Moreschi mi rispose: Poshi-
bel Ôna cavra de het quintai! - Perché Moreschi non cre-
deva mai a niente e quando uno diceva che la sua ragazza
era la più bella di tutte, o che teneva nello zaino un pac-
chetto di sigarette da cinquanta, o che a casa aveva in ser-
bo una damigiana di vino per quando sarebbe ritornato,
usciva fuori improvvisamente a dire: - Possibile una capra
di sette quintali? - ogni tanto raccontava la storia di quel
tale che alla stazione di Brescia aveva fermato l'Orient-Ex-
press. Era in mezzo al binario e giocava alla morra con al-
tri compagni e quando sent’ spingere alle spalle, si girò
seccato gridando: - Chi è qui che urta? - Ed era l'Orient-
Express che veniva da Milano. - Ma, - soggiungeva Mo-
reschi, - era un caporalmaggiore della pesante, con le
spalle larghe così -. Poi guardava le reclute e ripeteva: -
Poshibel Ôna cavra de het quintai? - Schiudeva quindi le
labbra e tra i baffi neri e la folta barba nera mostrava una
fila di denti bianchi; i suoi occhi sotto le sopracciglia nere
avevano un riso ingenuo e buono. Meschini, guardando
anche lui le reclute e smettendo di mestolare la polenta,
concludeva: - Non era caporalmaggiore dei mitraglieri,
ma dei mortai -. E le reclute ridevano.
Verso il dieci di gennaio incominciarono ad arrivare,
assieme al rancio, delle notizie poco buone. Tourn e Bo-
dei, che erano andati alle cucine, ci dissero di aver sentito
dai conducenti che eravamo accerchiati da diversi giorni.
Ogni giorno arrivava qualche novità a mezzo radio-scar-
pa; gli alpini incominciavano a diventare nervosi. Mi
chiedevano quale era la direzione che bisognava prende-
re per arrivare in Italia e quanti chilometri c'erano. Giua-
nin mi domandava sempre più spesso: - Sergentmagiù
ghe rivarem a baita? Anch'io sentivo che qualcosa non
andava. I russi al di là del fiume avevano avuto il cambio
e di notte lavoravano a tagliare cespugli e piante per apri-
re il campo di tiro alle loro armi. Quando ero solo, guar-
davo laggiù, a sud, dove il fiume girava e vedevo dei ba-
gliori come lampi estivi. Ma erano tenui e pareva che
venissero di là dalle stelle. Qualche volta, quando tutto
taceva e v'erano soltanto le cose, sentivo il rumore lonta-
no come di ruote che rotolassero su un acciottolato co-
perto d'acqua. Era un rumore che prendeva tutta la not-
te e la riempiva. Ma non dicevo nulla alle vedette, forse
lo avevano già notato anche loro. I russi erano diventati
più attivi, giravo con il moschetto senza sicura sotto il
braccio e con una bomba della marca migliore in mano.
La posta arrivava sempre e il rancio anche.
Una sera che ero nella tana del tenente a fumare una
sigaretta ed eravamo soli, - Rigoni, - mi disse, - ho avu-
to disposizioni in caso di ripiegamento -. Non risposi
nulla. Capivo che ormai era finita, veramente finita, ma
non volevo ammetterlo. Sentivo il mio solito dolore allo
stomaco. Capivo che cosa eravamo noi e che cosa voles-
sero i russi. Tornando nella mia tana dissi forte: - Qua-
lunque cosa succeda, ricordatevi, e mettetevelo bene in
testa, che dobbiamo restare sempre uniti.

Il tenente voleva che si provassero tutte le armi auto-
matiche e la mia tana era diventata un'officina. Moreschi,
che da borghese faceva l'armaiolo in una fabbrica della
Valtrompia, puliva, oliava, smontava e persino stempra-
va e ritemprava i molloni per renderli più adatti alla tem-
peratura, limava e batteva. Quando un'arma era pronta
la si portava in un camminamento verso la squadra del
Baffo. Io sparavo e Moreschi e il tenente ascoltavano ed
osservavano come funzionasse. Non tutte le volte More-
schi era contento, scrollava la testa e stringeva le labbra.
Riportava allora l'arma nella tana e ricominciava da capo.
Quando erano pronte mi raccomandava di dire ai capi-
squadra di tenerle bene avvolte in una coperta per il
freddo e in un telo da tenda per la sabbia sottile che fil-
trava nelle tane e penetrava dovunque. Così dopo tanto
lavorare e raccomandare, i quattro mitragliatori, la pe-
sante e i quattro mortai da 45 erano in perfetta efficienza.
Una di quelle ultime sere, una pattuglia russa di pochi
uomini era sfilata sotto i nostri reticolati e, passando
inosservata sotto la scarpata, giunse al posto di vedetta
dove, per fortuna, si trovava Lombardi. Questi gettò del-
le bombe a mano e la terza scoppiò, tirò qualche fucilata
e i russi, vistisi scoperti, ritornarono indietro. Appena
udii la bomba e le fucilate corsi da lui. Come se mi par-
lasse di vacche disse: é stata qui una pattuglia russa: uno
trascinava una specie di carriola e lasciava dietro di sé un
filo. Saranno stati qui a due metri -. Io stavo zitto e non
volevo crederci e dopo un po' passai dalle altre vedette.
La mattina dopo, quando venne il sole, vidi le tracce sin
dove mi aveva indicato Lombardi e mi vergognai di non
avergli creduto. Era così tranquillo e impassibile!
Qualcosa non andava proprio: si viveva tutti come in un
incubo e il tenente riposava poco: era sempre in giro da
una postazione all'altra, di giorno e di notte. Quando una
sera ci parve di sentire dei rumori sotto la nostra scarpata
stette steso sulla neve con due bombe pronte, finché quasi
si assiderò. E non c'era nulla: forse una lepre o un gatto.

Un alpino della mia vecchia squadra, A..., non ne pote-
va più; era da poco ritornato dall'ospedale, aveva la scab-
bia e voleva a tutti i costi fare il cuciniere. Un mattino, ero
entrato nella tana e mi ero appena sdraiato sulla paglia,
egli fece girare lentamente la sicura del mio moschetto,
che avevo appeso ad un chiodo su un palo di sostegno e,
mentre parlava con i suoi compagni, fece partire il colpo:
in direzione della canna teneva il piede. Però aveva calco-
lato male e si forò soltanto la sporgenza della suola. Non
dissi nulla, solo lo guardai e gli feci capire che avevo intui-
to cosa intendesse fare. Il giorno dopo, mentre era solo e
stava uscendo per andare nella postazione a fare il suo tur-
no di vedetta, così raccontò, part’ un colpo dal suo fucile
che gli passò da parte a parte un piede. Il tenente lo fece
trasportare all'ospedale, nessuno immaginò la verità. Due
giorni dopo, durante l'attacco dei russi, parlai di questo al
tenente. - Vedete, - gli dissi, - non poteva più restare con
noi; aveva troppa paura -. Ora quest'alpino vivrà tranquil-
lamente al suo paese e si prenderà la pensione.

Il caporale Pintossi era forse il migliore di tutti noi:
che bravo cacciatore! E che passione! Sembrava piccolo
perché era largo di spalle e aveva un po' di pancia. Sorri-
deva sempre ed aveva due occhi piccoli ed acuti. Tra-
sandato nel vestire, portava il fucile con la disinvoltura e
la familiarità del cacciatore. Calmo e flemmatico, non lo
vidi mai irritato e non lo sentii mai bestemmiare. Ed era
sempre presente, pacifico con il suo inseparabile fucile,
nel momento del bisogno. E che bravo tiratore! Non da-
va quasi mai ordini ai suoi uomini ma faceva, e gli alpini
della sua squadra facevano nel suo esempio. Con lui mi
trovavo sovente a parlare di caccia. - Ai contorni, - di-
ceva, - è il più bel tiro e la più bella caccia. Quando ri-
torneremo in Italia ci andremo assieme. A casa ho un
bracco che è un fenomeno -. Faceva schioccare le dita: -
Dik si chiama. Che bella bestia -. Ecco, allora diventava
triste, quando parlava del suo cane.
L'altro caporale della squadra era Gennaro. Chissà di
che paese era. Meridionale certamente. Maestro o ragio-
niere o qualcosa di simile, frequentò un corso ufficiali.
Ma non lo avevano fatto idoneo e così faceva il caporale.
Parlava poco, era timido con gli alpini, e questi, se qual-
che volta lo canzonavano, provavano per lui rispetto ed
affetto. Non aveva certamente un cuor di leone ma la sua
personalità, senza farsi notare, si comunicava a chiunque
gli vivesse vicino. Nel suo gruppo non succedevano mai
storie, per la spartizione del rancio o per il turno di ve-
detta o per quello di lavoro. Il suo mitragliatore funzio-
nava sempre. Quando c'erano allarmi o pattuglie russe
che molestavano, era tra i primi che uscivano dalla tana
per correre nel posto minacciato. Eppure, ne sono certo,
dentro di sé tremava come una foglia di betulla.

Venne infine una mattina che i russi, prima dell'alba,
incominciarono a sparare con i mortai e l'artiglieria sul
caposaldo di Sarpi, poi spararono a Cenci, allungarono
il tiro verso le cucine e poi su al comando di compagnia
dietro il nostro caposaldo. Pensavo che addosso a noi
non potevano sparare perché eravamo troppo vicini a
loro. Gli alpini, nella tana, si guardavano muti, seduti at-
torno alle stufe, l'elmetto calcato sulle orecchie, il fucile
tra le ginocchia, le tasche e la cacciatora piene di bombe
a mano sotto il camice bianco. Tentavo di scherzare ma
il sorriso si spegneva presto tra le barbe lunghe e spor-
che. Nessuno pensava: "se muoio"; ma tutti sentivano
un'angoscia che opprimeva e tutti pensavamo: "quanti
chilometri ci saranno per arrivare a casa?"
Le nostre artiglierie incominciarono a rispondere al
fuoco dei russi e non ci sentivamo più soli. I proiettili
passavano sopra le nostre teste e pareva che alzando una
mano si potessero toccare. Andavano a scoppiare sul fiu-
me davanti a noi, sulle postazioni dei russi e nel bosco di
roveri. Nei nostri ricoveri filtrava giù la sabbia fra i pali e
dall'orlo delle trincee franava la neve. Un paio di colpi
arrivarono corti sui nostri reticolati e vicino alle nostre
tane. Lasciai fuori soltanto due vedette nelle postazioni
coperte e il tenente mandò ad avvisare di allungare il ti-
ro. Appena giorno l'artiglieria smise di sparare e i primi
scaglioni di russi incominciarono a passare il fiume. Mi
aspettavo un attacco davanti a noi, invece forzarono a si-
nistra, più in giù del caposaldo di Cenci. Forse, penetrati
di là, avrebbero voluto entrare nella valletta che ci divi-
deva, e inoltrarsi poi verso le cucine e i comandi.
Laggiù, ove attraversavano, il fiume era più largo; nel
mezzo c'era un'isoletta coperta di vegetazione e la riva
dalla nostra parte era paludosa, tutta a insenature, e co-
perta da alte erbe secche e da cespugli. Non vi era nessu-
na traccia di lavoro umano. I russi uscirono improvvisa-
mente dal bosco di querce e trovandosi in mezzo a quel
biancore si saranno stupiti battendo le palpebre. Non gri-
darono, spararono delle brevi raffiche correndo curvi ver-
so l'isolotto nel mezzo del fiume. Qualcuno tirava una
slitta. Era una mattina limpida alla luce nuova del sole e
guardavo i russi che correvano curvi sul fiume gelato. I
mitragliatori di Cenci e le pesanti, in postazione da quelle
parti, incominciarono a sparare. Qualcuno nel mezzo del
fiume cadeva sulla neve. Raggiunsero l'isolotto, si ferma-
rono un poco a prendere fiato e ripresero a correre verso
la nostra riva. Dei feriti ritornavano lentamente verso il
bosco da dove erano usciti. Gli altri raggiunsero la nostra
riva e si buttarono fra i cespugli e le insenature. Si defila-
rono così dal tiro dei mitragliatori di Cenci che avevano
sparato fino allora ma non dalle nostre armi. Stavo con il
tenente ad osservare i gruppetti immobili tra i cespugli. Il
tenente mandò a prendere la pesante che era dalle parti
del Baffo. Postammo l'arma sotto i reticolati. - Saranno
ottocento metri, - disse il tenente. Puntai e sparai qualche
caricatore. Ma il tiro non era efficace perché l'arma sulla
neve era instabile; ogni tanto s'inceppava e in quel budel-
lo stretto non era agevole lavorarci attorno. Pure le pallot-
tole laggiù arrivarono perché vedemmo i russi nasconder-
si tra i cespugli. Il tenente era serio, quasi triste.
Passava il tempo e i russi non riprendevano l'azione,
ogni tanto qualcuno usciva e correva per pochi metri e
tornava poi a nascondersi. Improvvisamente incomincia-
rono a cadere laggiù delle bombe di mortaio. Scoppiava-
no così precise che parevano messe l’ con le mani. Erano
i mortai da 81 di Baroni, e Baroni non sciupava né bom-
be né vino. Così fin’ il primo attacco russo. Non fu un
vero e proprio attacco; forse i russi credevano che fossi-
mo molto più giù di morale e pensavano che, sapendoci
accerchiati, avremmo abbandonato i caposaldi al primo
accenno di attacco. Quel senso di apprensione e di ten-
sione che era in noi non ci aveva ancora lasciato. Era co-
me se un gran peso ci gravasse sulle spalle. Lo leggevo
anche negli occhi degli alpini e vedevo la loro incertezza
e il dubbio di essere abbandonati nella steppa: non senti-
vamo più i comandi, i collegamenti, i magazzini, le retro-
vie, ma soltanto l'immensa distanza che ci separava da
casa, e la sola realtà, in quel deserto di neve, erano i russi
che stavano l’ davanti a noi, pronti ad attaccarci.
"Sergentmagiù ghe rivarem a baita?" Quelle parole
erano dentro di me, facevano parte della mia responsa-
bilità e cercavo di rincorarmi parlando di ragazze e di
sbornie. Tra noi v'erano ancora di quelli che scrivevano
a casa: "Sto bene, non preoccupatevi per me, sono il vo-
stro..." ma mi guardavano con occhi mesti e indicando
l'ovest mi chiedevano: - Da che parte dovremmo andare
in caso di...? Che cosa prenderemmo con noi? - Pure
nessuno aveva detto loro come stessero le cose, e nessu-
no immaginava, ne sono sicuro, quello che ci avrebbe
aspettato. Ma sentivamo quello che sente un animale
quando fiuta l'agguato.
Alla sera il tenente mi chiamò. - Abbiamo avuto l'ordi-
ne di ripiegare -. Così mi disse, ripiegare. - Siamo circon-
dati: i carri armati russi sono arrivati al comando di corpo
d'armata -. Il tenente mi porse la borsa del tabacco, ma
non ero capace di arrotolarmi una sigaretta e me la fece lui.
Verso sera arrivò il rancio e il pane; come sempre era
tutto gelato.
I russi ripresero a sparare con l'artiglieria e i mortai.
Incominciava ad essere buio e tra poco sarebbe sorta la
luna. Nelle nostre case, in quel momento, erano attorno
alla tavola.
Rimanevo poco ora nella tana; ero sempre nelle trincee
sulla scarpata del fiume con le bombe e il moschetto.
Pensavo a tante cose, rivivevo infinite cose e mi è caro il
ricordo di quelle ore. C'era la guerra, proprio la guerra
più vera dove ero io, ma io non vivevo la guerra, vivevo
intensamente cose che sognavo, che ricordavo e che era-
no più vere della guerra. Il fiume era gelato, le stelle erano
fredde, la neve era vetro che si rompeva sotto le scarpe, la
morte fredda e verde aspettava sul fiume, ma io avevo
dentro di me un calore che scioglieva tutte queste cose.
Con il tenente notai davanti a noi rumori e movimen-
ti insoliti. Facemmo postar fuori il mitragliatore e portar
la pesante fra le macerie di una casa un po' arretrata, per
aver maggior campo di tiro. Gli alpini, silenziosi, stava-
no nella trincea. Ora avrebbero attaccato proprio noi.
Avrebbero funzionato le armi con quel freddo? Di là si
sentiva rumore di motori. Poi ci fu un silenzio strano,
quel silenzio che precede qualcosa di grave. Solo le cose
e l'ansia del momento c'erano.
Si sent’ la voce di uno che incitava e uscirono all'as-
salto. Salivano sulla scarpata del fiume, si sedevano sulla
neve e poi scivolavano sulla riva. Le nostre armi apriro-
no il fuoco. Tirai un sospiro di sollievo: funzionavano. I
mortai da 45 di Moreschi sparavano davanti ai nostri re-
ticolati e le bombette scoppiavano con rumore strano e
ridicolo. Quando sentii passare sopra le nostre teste le
bombe dei mortai da 81 del sergente Baroni tirai un al-
tro sospiro di sollievo. Sentivo che Baroni guardava giù
verso di noi dando i dati di tiro con calma ai suoi uomini
e mi pareva che dicesse: "Sta' tranquillo, sono qui an-
ch'io". E Baroni non sciupava nemmeno parole.
I russi correvano, si gettavano a terra, si rialzavano e
riprendevano a correre verso di noi. Molti non si alzava-
no più; i feriti chiamavano ed urlavano. Gli altri gridava-
no: Urrà! Urrà! e venivano avanti. Ma non riuscivano ad
arrivare sotto i nostri reticolati. Mi sentii sicuro, allora;
avrei potuto ancora vivere nella mia tana al caldo e leg-
gere lettere azzurre. Non pensavo ai carri armati che già
erano arrivati al comando di corpo d'armata, né quanti
chilometri c'erano per arrivare a casa. Mi sentivo tran-
quillo e sparavo con il moschetto dall'orlo della trincea
mirando calmo a quelli che si avvicinavano di più. E al-
lora incominciai a cantare in piemontese "All'ombretta
di un cespuglio - bella pastora che dormiva". Chizzarri,
l'attendente del tenente che mi stava a fianco, mi guardò
sorpreso smettendo di sparare; poi ricominciò e s'un’ a
cantare con me. Al chiarore della luna indovinai i visi
degli alpini che si spianavano e sorridevano. Vedevo che
sparavano calmi, e l'alpino dalla barba secca e rada cam-
biava, bestemmiando, la canna arroventata del fucile mi-
tragliatore e riprendeva con foga a sparare. I russi si
convinsero subito che da noi era impossibile passare e si
spostarono più a sinistra riuscendo ad infiltrarsi nella
valletta tra noi e Cenci. Si nascondevano tra i cespugli e
le ombre, era difficile scorgerli. L’ vi doveva essere un
campo minato ma nessuna mina scoppiò. Baroni spostò
il tiro. Qualche alpino ritornò nella tana a prendere car-
tucce e bombe a mano. Ma avevamo ormai esaurite le
munizioni. Durante l'attacco, quando i russi erano giun-
ti sotto i nostri reticolati, avevo gettato quasi una cassa
di bombe a mano. Ma poche scoppiavano; sprofondava-
no nella neve senza rumore. Allora pensai che forse sa-
rebbero scoppiate levando tutte e due le sicurezze prima
di lanciarle e feci così sebbene fosse pericoloso.
Ritornò il silenzio. Tra noi e Cenci si sentiva qualche
breve raffica di mitra.
Sul fiume gelato vi erano dei feriti che si trascinavano
gemendo. Sentivamo uno che rantolava e chiamava: -
Mama! Mama!
Dalla voce sembrava un ragazzo. Si moveva un poco
sulla neve e piangeva. - Proprio come uno di noi, - disse
un alpino: - chiama mamma.
La luna correva fra le nubi; non c'erano più le cose,
non c'erano più gli uomini, ma solo il lamento degli uomi-
ni. - Mama! Mama! - chiamava il ragazzo sul fiume e si
trascinava lentamente, sempre più lentamente, sulla neve.
Ma i russi ricominciano a uscire dal bosco di roveri.
Salgono sulla scarpata e ridiscendono giù sul fiume. Son
più guardinghi di prima; non gridano, sembrano timidi.
Riprendiamo a sparare. Solo che questa volta non ven-
gono per ammazzarci: vogliono solo raccogliere i feriti
rimasti sul fiume. Non sparo più, allora. Grido: - Non
sparate! Raccolgono i feriti; non sparate!
Si stupirono i russi a non sentire più le pallottole che
li cercavano: si fermarono increduli, si alzarono in piedi,
si guardarono attorno. Gridai: - Non sparate! - Raccol-
sero in fretta i loro compagni e li caricarono sulle slitte.
Correvano curvi, ogni tanto si alzavano e guardavano
verso di noi. Li portarono sino alla scarpata e li trascina-
rono su nelle loro trincee. Sul fiume gelato la neve era
tutta calpestata. Portarono via anche i morti, tranne
quelli ch'erano sotto i nostri reticolati.
Ora tutto era finalmente finito. Finito? Chizzarri ven-
ne di corsa verso di me. - Vieni, vieni presto dal mio te-
nente, - diceva. - Sta male, ti vuole, vieni -. Correva nel-
la trincea davanti a me e lo sentivo singhiozzare. -
Cos'è? Ferito? - gridavo. - No, corri, - diceva Chizzar-
ri. Entrammo nella tana della squadra di Pintossi e il te-
nente Moscioni stava disteso su un pagliericcio. Al chia-
rore del lume ad olio lo vedevo pallido e rigido;
stringeva i denti. Indossava il camice bianco sopra la di-
visa. Mi inginocchiai al suo fianco, gli presi una mano e
strinsi forte. Apr’ gli occhi: - Sto male, Rigoni, - disse.
Parlava piano, in un soffio. Gli feci bere un po' di co-
gnac che aveva Chizzarri. Nella tana tre alpini silenziosi
guardavano stringendo tra le mani la canna del fucile. -
Non sono capace di rimettermi in piedi, - riprese. -
Prendi il comando del caposaldo, sta' attento che quan-
do la luna va sotto le nubi i russi passano il fiume. Non
farmi portar via, lasciami qui. Ho ancora la pistola? - e
cercava la fondina. Ero chino sopra di lui e non ero ca-
pace di parlare.
- Sta' attento: sei tu, Rigoni? I russi passano il fiume.
In caso di ripiegamento lasciami qui. Ho ancora la pisto-
la. Avrai ordini dal capitano; non andartene prima -. Era
rigido e continuavo a stringergli la mano senza parlare.
Ma poi riuscii a dirgli qualcosa. Mi alzai in piedi. - Pren-
dete la barella e portatelo via, - dissi rivolgendomi agli al-
pini. Non voleva il tenente e faceva cenno di no con la te-
sta. - Ho ancora la pistola, - diceva piano. Gli alpini non
sapevano a chi obbedire. - Comando io, ora, qui: andate
per piacere -. E poi a Chizzarri: - Dàgli tutto il cognac
che c'è, accompagnalo e lasciagli le cose più necessarie, e
ritornate subito -. Più nessuno parlò. Le ombre si allun-
garono sulle pareti della tana. Chizzarri, in un angolo, fru-
gava in uno zaino e singhiozzava. Il lume ad olio rendeva
la tana più raccolta; sui pali di sostegno erano inchiodate
cartoline con fidanzati, fiori e paesi fra le montagne.
Dietro una vecchia busta che avevo in tasca scrissi
dell'accaduto al capitano e mandai un alpino al coman-
do di compagnia: - Digli anche che abbiamo bisogno
urgente di munizioni. - Vai, Rigoni, - mi sussurrò il te-
nente, - i russi passano il fiume.
Ritornai fuori. Appoggiata alla trincea c'era la barella
ancora macchiata del sangue di Marangoni.
Si sparse la voce per il caposaldo che il tenente era an-
dato via. Venivano da me i capisquadra a chiedere: -
Che facciamo ora? - Quello che avete fatto sino adesso,
- rispondevo. - State tranquilli, verrà qualche altro uffi-
ciale -. Non mi passò nemmeno per la testa di dire:
"Non s'allontani nessuno", tanto ero sicuro che nessuno
se ne sarebbe andato senza un ordine. Minelli mi disse
che Lombardi era morto di schianto nella trincea con
una pallottola nella fronte mentre sparava in piedi con il
mitragliatore imbracciato. Ordinai di farlo portare fino
alle cucine, poi avrebbe pensato il cappellano. Moreschi
mi fece presente che non aveva più munizioni per i mor-
tai. Il Baffo era tranquillo, da laggiù non vedevano nem-
meno i russi venire all'attacco; non spararono nemmeno
un colpo. Feci portare il suo mitragliatore nel settore
della squadra di Pintossi che era il punto più esposto e
che doveva essere perciò il più munito. La pesante non
funzionava tanto bene e il Rosso, capo-arma, si era preso
un calcio dal tenente perché non la curava. Ordinai di
smontarla, pulirla, sparare qualche raffica ogni tanto e
tenerle sotto un elmetto di brace. Ma anche la pesante
era ormai senza munizioni.
- Che cosa aveva il tenente? - mi chiedevano i capi-
squadra. - é stato preso dal freddo, - rispondevo, - dal
sonno e dalla fatica -. Da tanti giorni dormiva poco e
non riposava, era impossibile che potesse resistere a lun-
go. - Vada a dormire, - gli dicevo. - Riposi; vede? è tut-
to tranquillo ora -. Ma non voleva. Ora le armi, ora le
postazioni, ora gli uomini, ora la pattuglia russa. Non
voleva. é caduto sfinito come un mulo. - Era come esse-
re di ghiaccio, - mi disse poi in Italia, - non sentivo più
le gambe, le braccia, il corpo, non sentivo più niente. Mi
pareva di essere solo testa e poco anche di questa. Era
terribile.

Il capitano mi mandò giù un biglietto. Scriveva che
sarebbe venuto un altro ufficiale a prendere il comando
del caposaldo e che mi avrebbe mandato le munizioni.
Ricominciammo a sparare. I russi volevano passare il
fiume a tutti i costi. Spararono addosso a noi anche con
i mortai e me ne accorsi quando sentii sopra il mio capo
uno schianto, qualcosa battermi sull'elmetto e sabbia e
neve e fumo entrarmi negli occhi. Subito non mi resi
conto che cosa fosse accaduto ma poi sentii chiamare
aiuto vicino a me. Un alpino della squadra di Pintossi
aveva il braccio spezzato e la parte inferiore penzolava
giù come se non facesse più parte del suo corpo. Con
uno spago che avevo in tasca legai stretto sopra la ferita
per arrestare il sangue che usciva a fiotto. - Il mio brac-
cio! Il mio braccio! - diceva e urlando si teneva con la
mano sana il braccio penzolante. - Sei fortunato, gli di-
cevo mentre legavo, - è una cosa da poco e tra quindici
giorni sarai a casa. - Sì? - chiedeva lui, - andrò a casa? -
Sì, potevamo restare morti tutti e due. Ora vai giù alle
cucine, non posso farti accompagnare; vai giù solo, c'è
bisogno di gente qui. Fa' presto; dammi le tue cartucce,
- e gli vuotai le giberne. Si allontanò lagnandosi per il
camminamento: - Il mio braccio! il mio braccio! - e cer-
cava di correre nel buio.
Allora mi resi conto che una bomba era scoppiata tra
noi due sopra le nostre teste. Il fucile dell'alpino era rot-
to l’ a terra. Avevo le mani rosse di sangue e il camiciot-
to sporco di terra e sangue.
Dopo un poco ritornò il silenzio. Ma non ero tran-
quillo perché un certo numero di russi erano riusciti ad
infiltrarsi tra noi e Cenci. Ed erano pericolosi; potevano
aggirarci e penetrare nel caposaldo dalle spalle. Con un
mitragliatore e qualche uomo mi portai più indietro e a
sinistra verso Cenci. E provai paura e apprensione quan-
do vidi che, da quella parte, i reticolati avevano dei var-
chi. Ma invece di venire da noi i russi cercavano di pene-
trare in profondità e sentimmo che sparavano verso il
fosso anticarro all'imboccatura della valletta che portava
alle retrovie. Questa volta, pensavo, vanno a svegliare gli
imboscati. Ma gli imboscati rimasero tranquilli ancora
un altro giorno perché la squadra esploratori della no-
stra compagnia, al comando del tenente Buogo, andò in-
contro ai russi.
Erano in gamba gli esploratori, tutti dello stesso pae-
se, Collio Valtrompia, e tutti parenti fra di loro, o per lo
meno uno faceva all'amore con la sorella dell'altro. Ave-
vano una parlata tutta particolare e gridavano sempre. A
quel modo scesero incontro ai russi. E allora, nella notte
fredda, dopo una raffica di mitra russo sentimmo Buogo
che chiamava: - Cenci! Cenci! Tenente Cenci! - E Cen-
ci, dal suo caposaldo, gridare: - Buogo! Di', Buogo! co-
me si chiama la tua fidanzata? - E ripeteva: - Come si
chiama la tua fidanzata?
Buogo disse un nome. Mi misi a ridere assieme agli al-
pini che erano con me. Il nome di una donna, di una fi-
danzata, il nome italiano di una ragazza gridato così nel-
la notte mentre sparavano i mitra russi e i moschetti
italiani! - Di', Buogo, come si chiama la tua fidanzata?
Buogo! Buogo! come si chiama? - E gli alpini ridevano.
Diavolo! Chissà che bella ragazza era, e morbida, ed ele-
gante. Altro non poteva essere la fidanzata di un tenen-
te, e così pareva anche dal nome. Immaginavo i due te-
nenti a farsi le confidenze nella tana guardando le
fotografie. Ma un nome gridato così nella notte! Avevo
capito perché Cenci voleva sapere il nome della ragazza.
E tutti quelli che avevano sentito ridevano. Anche i russi
di certo dovevano averlo capito. Diavolo! Piantiamo qui
tutto, ci sono tante belle ragazze e vino buono, no, Baro-
ni? Loro hanno le Katiusce e le Maruske e la vodka e
campi di girasole; e noi le Marie e le Terese, vino e bo-
schi d'abeti. Ridevo, ma gli angoli della bocca mi faceva-
no male e impugnavo il mitragliatore.
Sparavano laggiù tra i cespugli e sentivo chiaramente
le voci degli esploratori gridare che il tenente Buogo era
stato ferito ad una gamba e che lo portavano via.
Gridavano nel loro gergo: - Sono qui! Venite! Ci so-
no anche donne -. Parevano una compagnia di cento ed
erano forse tredici. Gettavano bombe a mano e poi urla-
vano: - Li abbiamo presi, vi sono due donne, venite! -
Bestemmiavano e battevano i cespugli fra noi e Cenci.
D'un tratto mi accorsi che incominciava l'alba. Una
lepre mi passò davanti correndo e andò a nascondersi
tra l'erbe secche della riva. Un portaordini venne ad av-
visarmi che il plotone arditi del Morbegno sarebbe ve-
nuto in nostro aiuto per eliminare quei russi che ancora
erano rimasti fra noi e Cenci. Mi raccontò che i nostri
esploratori avevano preso poco prima due donne russe
che erano venute all'assalto in pantaloni e mitra. Poco
dopo sentii gli arditi del battaglione Morbegno. Che lin-
gere questi contrabbandieri comaschi! Si chiamavano
tra loro, facevano chiasso, sparavano, bestemmiavano.
Quasi come i nostri esploratori. - L'è qua! l'è qua! - gri-
davano e gettavano bombe a mano. Incominciò a venir
su il sole dietro il bosco di roveri. Tante mattine l'avevo
visto sorgere e allora le nostre tane e le loro fumavano
tranquille come i camini di un villaggio tra le alpi o tra la
steppa; e tutto era tranquillo e la neve sul fiume intatta,
senza macchie di sangue o tracce di uomini.
Sentivo gli occhi che non volevano stare aperti. Da
qualche giorno non mi lavavo e avevo una crosta sul vi-
so. Le mani, sporche di sangue e terra, odoravano di fu-
mo e desideravo una mattina come le altre per poter la-
varmi il viso e andare a dormire nella tana. Erano due
notti e due giorni che non dormivo: e ora non c'erano
munizioni, gli alpini erano stanchi, la posta non arriva-
va, il tenente non c'era. Avevo sonno, fame, e restavano
tante cose da fare. Ma avevo sigarette.
Mandai un portaordini dal capitano a dire che avevo
bisogno assoluto di munizioni per tutte le armi, e bom-
be a mano, tante. Feci raccogliere le cartucce inesplose
che saltavano via dai mitragliatori quando s'inceppava-
no per spararle con i fucili.
Gli alpini stanchi, si buttavano sulla paglia delle tane
e russavano con il fucile in mano e le bombe nelle ta-
sche; dormendo qualcuno saltava in piedi gridando e su-
bito ripiombava giù a russare. Lasciai fuori solo tre ve-
dette, ma non potevo dormire. Arrivarono le munizioni.
Le portarono a spalla i conducenti e appena messe giù le
casse si allontanarono in fretta.
Stavo con una vedetta a guardare i cadaveri dei russi
che erano rimasti sul fiume e osservando così, nel sole
del mattino, mi accorsi di due russi che stavano nascosti
poco lontano da noi dietro un rialzo del terreno sulla ri-
va del fiume. Dopo un po' che li osservavo si mossero;
uno sorse in piedi e di corsa tentò di passare di là. Mirai.
Mi pareva di vederlo davanti alla canna del moschetto e
tirai. Lo vidi cadere di schianto sulla neve. L'altro suo
compagno, che si era alzato in piedi per seguirlo, tornò a
nascondersi. Osservavo con un binocolo il russo caduto
sul fiume.
Lo vedevo immobile. Ma perché non aveva aspettato
la notte per passare di là? Anche la vedetta osservava.
D'un tratto esclamò: - Si muove! - E lo vidi scattare co-
me un babau e correre verso l'altra riva - Me l'ha fatta, -
dissi forte, e risi. Ma la vedetta prese il mitragliatore del-
la postazione e mezzo ritto sulla trincea sparò. Vidi il
russo cadere nuovamente, ma non come prima. Si con-
torceva e si trascinò per qualche metro, infine si fermò
con un braccio teso verso la sponda ormai vicina. L'al-
tro suo compagno che era rimasto dalla nostra parte ri-
tentò il passaggio ma una raffica di mitragliatore lo co-
strinse a nascondersi nuovamente. Pensavo: "Aspetterà
la notte, ora; gli converrebbe". Avrei voluto gridarglielo.
Vi era un bel sole: tutto era chiaro e trasparente, solo
nel cuore degli uomini era buio. Buio come una notte di
tempesta su un oceano di pece. Allora sentii un gran
boato e tremare la terra sotto i piedi. La neve franava
dalla trincea, aratri di fuoco solcavano il cielo sopra di
noi e una colonna alta di fumo saliva dall'altra riva e
oscurava il sole: vicino alla terra era gialla e più su nera.
Negli occhi della vedetta vidi il mio terrore, mi agitavo
nello spazio di pochi metri dentro la trincea. Ma la mia
paura non sapeva dove andare né cosa fare. Mi guarda-
vo attorno e non ero capace di ragionare. La vedetta era
il mio specchio. Poi sentii e vidi gli scoppi levarsi dietro
il caposaldo di Cenci; tanti, uno vicino all'altro e nel me-
desimo istante. Questa, riuscii a pensare, è la Katiuscia a
settantadue colpi. Diavolo che accidente d'ordigno!
Sparò altre due volte e ogni volta trattenevo il fiato. Fi-
nalmente la nostra artiglieria incominciò a rispondere.
Poi ritornò il silenzio.
Aspettavo il nuovo ufficiale che sarebbe venuto a
prendere il comando del caposaldo. Avrei voluto dormi-
re un po', almeno un'ora. Intanto passava il tempo. Po-
tevano essere le nove, mezzogiorno, le due, non sapevo;
il quindici o il sedici o il diciassette di gennaio.
Udii la voce di uno che incitava parlando forte in russo.
Capii qualche parola: patria, Russia, Stalin, lavoratori.
Mandai subito una vedetta per le tane a far uscire gli uo-
mini con tutte le armi. Uscivano in fretta imprecando; con
gli occhi pieni di sonno, socchiusi alla luce del sole. Odo-
ravano di fumo. Dissi: - Non sparate se prima non vi do
l'ordine; tenetevi pronti -. Era ritornato il silenzio; di là la
voce s'era taciuta; di qua tutti erano pronti con le armi
puntate. Erano cessati i brontolii, le bestemmie, i passi af-
frettati, i rumori degli otturatori. I russi sorsero in piedi
sull'orlo del bosco, vennero sulla scarpata e tutto era anco-
ra tranquillo. Non un colpo di fucile, non un grido. Erano
stupiti di quel silenzio. Forse ci credevano già partiti? Si
sedettero sulla neve e scivolarono sulla riva del fiume. Ma
quando i primi furono ai piedi della scarpata: - Spara! -
gridai all'alpino che vicino a me imbracciava il mitragliato-
re. Una breve raffica, poi improvvisamente tutte le armi
spararono: i quattro mitragliatori, la pesante, i trenta fucili,
i quattro mortai di Moreschi, i due di Baroni. Tutte le pal-
lottole battevano dove la scarpata si raccordava al fiume e
appena i russi mettevano i piedi sulla riva, dopo la scivola-
ta con i1 sedere, vi rimanevano cuciti contro. Quelli che
erano rimasti sull'orlo del bosco e in piedi sulla scarpata
rimanevano indecisi e infine ritornavano al riparo nelle lo-
ro trincee. Le armi smisero di sparare, ma sulla riva del
Don i gemiti e le implorazioni d'aiuto continuavano. I più
tenaci tentavano risalire la riva per ritornare al sicuro e
qualcuno vi riusciva. Si sentì nuovamente la voce di prima.
Che diceva? Forse di vendicare i compagni caduti sulla
neve o forse dei villaggi distrutti. Riapparvero con più de-
cisione. Ricominciammo a sparare. Non si fermarono que-
sta volta, né ritornarono indietro. Molti ne caddero sotto
la scarpata, molti. Gli altri venivano avanti gridando: -
Urrà! Urrà! - ma pochi riuscivano ad avvicinarsi ai nostri
reticolati. Sparavo con il moschetto a quelli che mi sem-
bravano più impetuosi e che correvano davanti a tutti. Vi
erano di quelli che fingevano di essere morti: restavano
immobili sul fiume e poi quando non erano più osservati
sorgevano in piedi e riprendevano a correre verso di noi.
Uno si serv’ di questa astuzia per tre o quattro volte fin-
ché, giunto sotto la nostra trincea, fu veramente colpito.
Cadde con la testa e le spalle sprofondate nella neve. Una
gamba in aria continuava a fare il movimento dell'arrotino
sempre più lentamente sino a fermarsi.
Doveva essere terribile passare il fiume, camminare
così sulla neve alla luce del sole, senza il minimo riparo
tra pallottole e bombe come tempesta. Solamente i russi
potevano osare questo; ma non era possibile arrivare si-
no a noi. Smisero e ritornò la quiete. Sul fiume la neve
era più rossa e calpestata di prima e più numerosi erano
quelli rimasti sulla neve con le scarpe al sole. Ritornai
nella tana. Stavo attorno alla stufa e guardavo il fuoco
tenendo il moschetto fra le ginocchia. Gli alpini parlava-
no dell'attacco che avevano appena finito di respingere.
- Che hai l’, sergentmagiù? - mi chiese Pintossi. E in-
dicò sul mio moschetto il punto dove era attaccata la
baionetta ripieghevole. Vidi incastrata una pallottola di
mitragliatrice. - L'hai scampata bella, - mi disse Pintossi.
Ricordai allora che durante l'attacco avevo sentito un
colpo secco mentre, inginocchiato sulla trincea, osserva-
vo e tenevo il moschetto davanti alla fronte. Gli alpini at-
torno al fuoco si passavano il moschetto ed osservavano:
- L'hai scampata bella, quando sarai a casa dovrai mette-
re un quadretto alla Madonna. - Anche due ne puoi met-
tere. - Se non è la tua ora non parti. - Già è destino...
Levai la pallottola e me la misi nel taschino della
giubba dicendo: - Quando sarò a casa ne farò un anello
per la morosa.
Finalmente venne il tenente Cenci. Fui contento di ve-
derlo e come si avvicinò gli chiesi: - Come si chiama la tua
fidanzata? - Rise e poi guardandomi e vedendomi sporco
di sangue disse: - Ma Rigoni, sei ferito? - No, - dissi, -
non è mio -. Poi riprese: - Poteva anche essere un russo
che mi chiamava stanotte e per questo chiesi a Buogo co-
me si chiamasse la sua fidanzata. Un russo non poteva sa-
pere il nome della ragazza di Buogo. é stato ferito a una
gamba da una pallottola che gli ha spezzato l'osso. Hai si-
garette, Rigoni? - E me ne porse una. Girammo un po'
per le trincee ma poi entrammo nella tana della squadra di
Pintossi. - Non è rimasto nessun russo di qua, Rigoni, -
disse Cenci (ma io sapevo che ce n'era ancora uno), - ed
abbiamo preso anche due donne. Erano sui quarant'anni e
portavano i pantaloni e il parabellum. I conducenti, pur
brontolando, le hanno caricate sulle slitte e hanno offerto
loro sigarette. Andate a cucinare, borbottavano, e non alla
guerra. Al mio caposaldo è venuto il tenente Pendoli. Cer-
ca di riposare e di dormire ora: ne hai bisogno.
Mi buttai sul tavolato: ma non ero capace di addor-
mentarmi. Le bombe nella cacciatora mi premevano sul-
le reni, le giberne piene di caricatori mi pesavano sullo
stomaco. Ma nemmeno in un letto di piuma sarei riusci-
to a dormire. In una tasca interna della giubba, entro
una borsa fatta con un pezzo di tela, tenevo le mie cose
più care; erano lettere e sentivo quelle parole entro di
me. Ove sarà ora? Forse in un'aula a leggere poesie in
latino o nella sua stanza, e guardando tra vecchi libri e
cose morte avrà trovato una stella alpina. Ma sono scioc-
co a pensare queste cose. Perché non viene il sonno?
Perché non dormo? Cenci mi guardava sorridendo. -
Perché non dormi? - disse. - Come si chiama la tua fi-
danzata? - Per fortuna venne Tourn a dirmi che era ar-
rivato il rancio e mi recai nella tana di Moreschi a pren-
dere la mia razione. L’ vi era una confusione insolita:
coperte in disordine, sporco per terra, la paglia sparsa
assieme a calze e fazzoletti e mutande. Parlavano sotto-
voce. Giuanin non mi disse niente. Mi guardò e nei suoi
occhi c’erano tutte le cose che voleva chiedermi. Tourn
non rideva più e i suoi baffi neri sempre ben curati era-
no sporchi di muco. Meschini era indaffarato intorno al-
lo zaino. Tutti gli altri facevano qualcosa. Due erano
fuori nelle postazioni dei mortai. Solo Giuanin non face-
va nulla, stava nella nicchia vicino alla stufa fredda. -
Meschini, - domandai, - perché non fai la polenta? Ho
fame; è meglio farla ancora una volta.
Mangiai la mia razione di rancio, ma senza alcun gu-
sto. Arrivò qualche colpo di mortaio attorno alla nostra
tana e uno sopra. Ma il nostro bunker era solido e ben
fatto: filtrò soltanto un po' di terra e si ruppero i vetri.
Il rumore del cucchiaio nelle gavette era più strano
dei colpi di mortaio.
Prima di uscir fuori dissi: - Ricordatevi che dobbia-
mo restare sempre uniti.
Ritornai dal tenente Cenci e assieme ci avviammo verso
una postazione. Eravamo soli. - Stasera dobbiamo ripiega-
re -. Così disse. - Sono venuto qui apposta per dirtelo.
Stasera dobbiamo ripiegare. Prendi, fuma. Io ritornerò al
mio caposaldo; forse verrà qui il tenente Pendoli, forse do-
vrai arrangiarti da solo. Le squadre lasceranno il caposal-
do una alla volta. La prima si fermerà a metà strada con le
armi pronte fra te e me, e aspetterà la seconda per riparti-
re. Così di seguito fino all'ultimo uomo. L'appuntamento
è alle cucine per le ore... - e disse un numero che non ri-
cordo. - Ci sarà tutta la compagnia che ti aspetterà. Pensa
tu a stabilire il turno per le squadre -. Non risposi nulla e
solo quando fu terminata la sigaretta dissi: - Va bene.
Ritornai nella mia tana a preparare lo zaino; mi cambiai
con biancheria pulita e lasciai sulla paglia quella sporca e
impidocchiata. Cercai di mettermi addosso quanta più ro-
ba potevo senza averne i movimenti impacciati. Mi rima-
sero due paia di calze e una maglia che cacciai nello zaino
assieme al pacchetto di medicazione, ai viveri di riserva, a
una scatola di grasso anticongelante e a una coperta da
campo. Completai lo zaino con munizioni, in maggior par-
te bombe a mano. Aiutato da Tourn provai a mettermelo
sulla schiena, ma forse era ancora troppo pesante. Bruciai,
poi, tutte le lettere e le cartoline che avevo, tranne un pic-
colo fascio. I libri li lasciai nella tana. "Saranno curiosi i
russi di sapere che cosa c'è scritto", pensavo. Ma che male
nel compiere queste cose. Dissi forte: - Vestitevi più che
potete ma senza restar stretti. Mettete nello zaino le cose
che credete più necessarie e più munizioni che potete.
Bombe a mano tante e del tipo più buono: le O.T.O. o le
Breda. Le S.R.C.M. buttatele sotto la neve. Nessuno pensi
di andarsene per conto proprio. Dobbiamo restare sem-
pre uniti. Ricordatevi questo, sempre uniti.
- Quando dobbiamo muoverci? - mi chiedevano. -
Stasera, forse -. E chiamai Moreschi da parte e gli dissi:
- Non preoccuparti molto dei mortai, prendili con te,
ma non con tante munizioni. Bombe a mano e cartucce.
Tutto andrà bene.
- Allora sergentmagiù, - disse forte Meschini, - è me-
glio fare la polenta ancora una volta. - é meglio farla an-
cora una volta, - risposi.
Uscii fuori a ripetere nelle altre tane quello che avevo
detto nella mia. Gli alpini chiedevano mille cose e gli oc-
chi domandavano più che le parole. Attorno a me era un
gran punto interrogativo.
Prima di sera il tenente Cenci se ne tornò al suo capo-
saldo. - Credo non verrà nessuno, - mi disse. - Vecio,
sta' in gamba, non farti sorprendere e buona fortuna.
Arrivederci.
Sentivo tutta la responsabilità che mi gravava addos-
so. Se un rumore o una cosa qualsiasi avesse fatto notare
che noi stavamo per abbandonare il caposaldo, chi sa-
rebbe ritornato a baita? Gli alpini mi guardavano con gli
occhi stanchi e pieni di sonno aspettando una mia paro-
la. Cercavo di star sereno e pensavo a quello che avrei
dovuto fare nel caso che fosse andata male. Quando
venne la notte mandai a chiamare tutti i capisquadra:
Minelli, Moreschi, il Baffo, il Rosso della pesante e Pin-
tossi. Chiesi: - Come va? Avete tutto pronto? - Novità
N.N., - risposero, - tutto pronto. - La prima a partire, -
ordinai, - sarà la squadra di Moreschi. Oltre alle muni-
zioni individuali dovete portare le munizioni per le armi
della squadra. Fate caricare gli uomini il più possibile; le
munizioni che rimarranno nascondetele nella neve. Bi-
sogna caricarsi come muli; non sappiamo quello che ci
aspetterà. In caso le lasceremo poi lungo la strada quan-
do non ne potremo più. Appena Moreschi raggiungerà
la casa diroccata che c'è fra noi e Cenci, aspetterà con le
armi pronte che sia giunta la seconda squadra. Allora ri-
partirà. La seconda aspetterà la terza e così via. Nell'at-
tesa dovete stare con le armi pronte e in silenzio. La se-
conda a partire sarà quella del Baffo; poi la pesante; poi
Minelli; per ultima quella di Pintossi. Io verrò con quel-
la di Pintossi -. Feci ripetere a tutti quello che avrebbe-
ro dovuto fare. E ripresi: - Se sentite sparare non preoc-
cupatevi; la squadra che è in movimento raggiunga le
cucine; lì ci sarà tutta la compagnia ad aspettare. Il ca-
posquadra dovrà essere l'ultimo a partire. Tenetevi sem-
pre gli uomini vicini e assicuratevi del funzionamento
delle armi. Non lasciate i cucchiai nelle gavette, fanno
rumore e bisognerà fare tutto nel massimo silenzio. Tut-
to andrà bene, tenetevi pronti, vi manderò io ad avvisare
quando dovrete andarvene. Andate e arrivederci.
Per fortuna la notte era buia. La più nera di tutte. La
luna stava dietro le nubi ed era molto freddo. Il silenzio
era pesante come la notte. Lontano, al di là delle nubi,
dietro di noi, si vedevano i bagliori della battaglia e ne
veniva un rumore come di ruote sull'acciottolato.
Stavo fuori della trincea con un mitragliatore imbrac-
ciato e scrutavo il buio verso le postazioni dei russi. An-
che da loro era silenzio: pareva non esistessero più. "Se
attaccassero adesso?" pensavo. E fremevo.
Un alpino che avevo messo all’imbocco del cammina-
mento che portava alla valletta venne a dirmi: - é passa-
ta la squadra di Moreschi, tutto bene. - Vai ad avvisare
il Baffo, - dissi. Scrutavo il buio stringendo il mitraglia-
tore e tremavo. - Sergentmagiù, è passato il Baffo, tutto
bene. - Vai ad avvisare la pesante. - é passata la pesan-
te, tutto bene. - Parla piano, vai ad avvisare Minelli -.
Era silenzio. Sentii Minelli che partiva, i passi che si al-
lontanavano nei camminamenti, qualche bestemmia
sottovoce. - Sergentmagiù, è passato anche Minelli -.
Guardavo davanti il fiume nero. Non tremavo più. -
Preparatevi anche voi -. Sentivo il rumore degli uomini
di Pintossi che si preparavano: parole mormorate sotto-
voce in un soffio, rumore di zaini che venivano caricati
in spalla. - Sergentmagiù, possiamo andare? -Vai, Pin-
tossi, vai e non far baccano. - E tu non vieni? - Vai,
Pintossi, io verrò -. Mi si avvicinò l'alpino dalla barba
secca e rada. - Non vieni? - disse. - Vai -. Ero solo.
Dalla trincea sentivo i passi degli alpini che si allontana-
vano. Erano vuote le tane. Sulla paglia che una volta era
il tetto di un'isba giacevano calze sporche, pacchetti
vuoti di sigarette, cucchiai, lettere gualcite: sui pali di
sostegno erano inchiodate cartoline con fiori, fidanzati,
paesi di montagna e bambini. Ed erano vuote le tane,
vuote, vuote di tutto e io ero come le tane. Ero solo sul-
la trincea e guardavo nella notte buia. Non pensavo a
nulla. Stringevo forte il mitragliatore. Premetti il grillet-
to, sparai tutto un caricatore; ne sparai un altro e pian-
gevo mentre sparavo. Saltai nella trincea, entrai nella ta-
na di Pintossi a prendere lo zaino. Vi erano delle bombe
a mano e le gettai nella stufa. Levai ad altre bombe le
due sicurezze e le posai piano sul fondo della trincea.
Mi incamminai verso la valletta. Incominciava a nevica-
re. Piangevo senza sapere che piangevo e nella notte ne-
ra sentivo solo i miei passi nel camminamento buio.
Nella mia tana, inchiodato ad un palo, rimaneva il pre-
sepio in rilievo che mi aveva mandato la ragazza per il
giorno di Natale.

PARTE SECONDA

La sacca

Prima di arrivare al fosso anticarro raggiunsi la squa-
dra di Pintossi. Camminavano curvi, silenziosi. Ogni
tanto qualcuno imprecava ma era uno sfogo per la di-
sperazione che gravava dentro. Dove si andrà ora? Si ac-
corgeranno i russi che abbiamo abbandonato il caposal-
do? E ci inseguiranno subito? Resteremo prigionieri?
Mi fermavo ad ascoltare e guardavo indietro. Era tutto
nero, era tutto silenzio.
Al fosso anticarro alcuni alpini della centotredici armi
d'accompagnamento mettevano le mine. - Presto, - ci
dissero, - siete gli ultimi. Dobbiamo distruggere la pas-
serella.
Quando passai la passerella e fui di là mi pareva di es-
sere in un altro mondo. Capivo che non sarei più ritor-
nato in quel villaggio sul Don; che stavo per staccarmi
dalla Russia e dalla terra di "quel villaggio". Ora sarà ri-
costruito, i girasoli saranno ritornati a fiorire negli orti
attorno alle isbe e il vecchio con la barba bianca come lo
zio Jeroska, avrà ripreso a pescare nel suo fiume. Noi,
scavando i camminamenti, trovavamo tra la neve e la
terra patate e verze; ora avranno tutto livellato e vangan-
do a primavera avranno trovato i bossoli vuoti delle ar-
mi italiane. I ragazzi giocheranno con quei bossoli, e io
vorrei dir loro: "Vedete, anch'io fui qui, dormivo là sot-
to di giorno e di notte andavo per i vostri orti che non
c'erano più. Avete trovato l'àncora?"
Ad un certo punto dovevo incontrare la compagnia
che mi aspettava; la trovai più avanti; alle cucine. Quan-
do il capitano sent’ che arrivavo, venne verso di me im-
precando e calpestando con ira la neve. Mi mise l'orolo-
gio sotto il naso dicendomi: - Guarda, cretino, abbiamo
più di un'ora di ritardo. Siamo gli ultimi. Non potevi
sbrigati prima? - Tentai di dire qualcosa per spiegarmi,
ma mi impose di tacere. - Vai col tuo plotone, - disse.
Ritrovai il mio plotone mitraglieri. Eravamo contenti
di ritrovarci, ma non c'eravamo tutti. Il tenente Sarpi
non era più con noi; qualche altro, ferito, era all'ospeda-
le. Antonelli mi si avvicinò: - é finita questa volta, - dis-
se, - è finita -. Ci incamminammo per la strada che ave-
vamo percorso quando ai primi di dicembre eravamo
venuti a dare il cambio al Valcismon della Julia. Un pez-
zo da 75/13 sparò qualche colpo. Si andava con la testa
bassa, uno dietro l'altro, muti come ombre. Era freddo,
molto freddo, ma, sotto il peso dello zaino pieno di mu-
nizioni, si sudava. Ogni tanto qualcuno cadeva sulla ne-
ve e si rialzava a fatica. Si levò il vento. Dapprima quasi
insensibile, poi forte sino a diventare tormenta. Veniva
libero, immenso, dalla steppa senza limiti. Nel buio
freddo trovava noi, povere piccole cose sperdute nella
guerra, ci scuoteva, ci faceva barcollare. Bisognava tene-
re forte la coperta che ci riparava la testa e le spalle. Ma
la neve entrava da sotto e pungeva il viso, il collo, i polsi
come aghi di pino. Si camminava uno dietro l'altro con
la testa bassa. Sotto la coperta e sotto il camice bianco si
sudava ma bastava fermarsi un attimo per tremare dal
freddo. Ed era molto freddo. Lo zaino pieno di muni-
zioni a ogni passo aumentava di peso; pareva, da un mo-
mento all'altro, di dover schiantare come un abete gio-
vane carico di neve. Ora mi butto sulla neve e non mi
alzo più, è finita. Ancora cento passi e poi butto via le
munizioni. Ma non finisce mai questa notte e questa tor-
menta? Ma si camminava. Un passo dietro l'altro, un
passo dietro l'altro, un passo dietro l'altro. Pareva di do-
ver sprofondare con la faccia dentro la neve e soffocare
con due coltelli piantati sotto le ascelle. Ma quando fini-
sce? Alpi, Albania, Russia. Quanti chilometri? Quanta
neve? Quanto sonno? Quanta sete? é stato sempre così?
Sarà sempre così? Chiudevo gli occhi ma camminavo.
Un passo. Ancora un passo. Il capitano in testa alla com-
pagnia perse il collegamento con gli altri reparti. Erava-
mo fuori dalla strada giusta. Ogni tanto accendeva la pi-
la sotto la coperta e consultava la bussola. Qualche
alpino si staccava lentamente dalla squadra, si sedeva
sulla neve e alleggeriva lo zaino. Non potevo dire nulla,
tranne che: - Nascondetele sotto la neve, tenetevi le
bombe a mano -. Antonelli portava l'arma della pesan-
te, non bestemmiava più, non perché non volesse ma
perché non poteva. Nel buio posai casualmente i piedi
su cose oscure e solide: cassette portabombe per mor-
taio da 45. Erano della squadra di Moreschi, lo cercai e
gli dissi: - Con la tua squadra devi aiutare le altre del
plotone a portare le pesanti e le munizioni per le pesan-
ti. Abbandona anche i mortai, - aggiunsi più piano, - e
le altre casse; cerca di fare in modo che non s'accorga il
capitano -. In testa si fermarono, ci fermammo tutti.
Nessuno parlava, sembravamo una colonna di ombre.
Mi buttai sulla neve con la coperta sulla testa; aprii lo
zaino e seppellii nella neve due pacchi di cartucce per
mitragliatore. Si riprese a camminare, dopo un po' mi
feci dare da Antonelli la pesante e passai a lui le due
canne di ricambio che avevo portato fino allora. Anto-
nelli apr’ la bocca, sospirò forte e bestemmiò tutto quel-
lo che poteva bestemmiare. Sembrava, tanto era divenu-
to leggero, che il vento lo dovesse portar via. E a me di
sprofondare. - Sotto, - dissi, - dobbiamo restare uniti -.
Dove abbiamo camminato quella notte? Su una cometa
o sull'oceano? Niente finiva più.
Abbandonato sulla neve, a ridosso d'una scarpata al
lato della pista, stava un portaordini del comando di
compagnia. Si era lasciato andare sulla neve e ci guarda-
va passare. Non ci disse nulla. Era desolato, e noi come
lui. Molto tempo dopo, in Italia (e c'era il sole, il lago,
alberi verdi, vino, ragazze che passeggiavano), venne il
padre di questo alpino a chiedere notizie di suo figlio a
noi pochi che eravamo rimasti. Nessuno sapeva dire
niente o non voleva dire niente. Ci guardava duramente:
- Ditemi qualche cosa, anche se è morto, tutto quello
che potete ricordarvi, qualsiasi cosa -. Parlava a scatti,
gesticolando, e per essere il padre di un alpino era vesti-
to bene. - é dura la verità, - dissi io allora, - ma giacchè
lo volete vi dirò quello che so.
Mi ascoltò senza parlare, senza chiedermi nulla. - Ec-
co, - finii, - è così -. Mi prese sotto il braccio e mi portò
in un'osteria. - Un litro e due bicchieri. Un altro litro.
Guardò il ritratto di Mussolini appeso alla parete e
strinse i denti e i pugni. Non parlò e non pianse... Poi mi
tese la mano e ritornò al suo paese.
Non finiva mai quella notte. Dovevamo arrivare in un
paese delle retrovie dove c'erano magazzini e comandi.
Ma noi non sapevamo nessun nome di paese delle retro-
vie. I telefonisti, gli scritturali e gli altri imboscati sape-
vano tutti i nomi. Noi non sapevamo nemmeno il nome
del paese dove era il nostro caposaldo; ed è per questo
che qui trovate soltanto nomi di alpini e di cose. Sapeva-
mo solo che il fiume davanti al nostro caposaldo era il
Don e che per arrivare a casa c'erano tanti e tanti chilo-
metri e potevano essere mille o diecimila. E, quando era
sereno, dove l'est e dove l'ovest. Di più niente.
Dovevamo arrivare in uno di questi paesi dove, ci di-
cevano gli ufficiali, avremmo potuto riposare e mangia-
re. Ma dove era? In un altro mondo? Finalmente lonta-
no, si vide una luce tenue; s'ingrandiva sempre più fino
a diventare rossigna ed illuminare il cielo. Ma questa lu-
ce rossa era nel cielo o sulla terra? Poi avvicinandosi si
poté distinguere che era un villaggio che bruciava. Ma la
tormenta non smetteva e c'erano sempre i coltelli pian-
tati sotto le ascelle e si era schiacciati dal peso dello zai-
no e delle armi. E altre luci rosse si videro in quel buio.
La neve pungeva gli occhi ma si camminava. Arrivammo
in un paese, intravvedemmo le isbe scure nella tormenta
e sentimmo abbaiare i cani; si sentiva che sotto la neve
c'era una strada. Ma non potevamo fermarci, bisognava
camminare ancora. Altra gente camminava l’ attorno.
Forse russi. Ma è meglio morire. Uno mi si avvicina, mi
tira per la coperta, mi guarda fisso: - Che reparto siete?
- mi chiede. - 55 del Vestone, 6° Alpini, - rispondo -
Conosci il sergente maggiore Rigoni Mario? - dice l'om-
bra. - Sì, - rispondo. - é vivo? - chiede - Sì, - dico, - è
vivo. Ma chi sei? - Sono un suo cugino, - dice. - Ma
dov'è? - Sono io Rigoni, - dico, - ma tu chi sei? -
Adriano -. E mi prende per le spalle e mi chiama per
nome e mi scuote. - Come va parente? - dice Adriano.
Ma io non riesco a dirgli niente. Adriano avvicina i suoi
occhi al mio viso e ripete: - Come va parente? - Male, -
dico, - va male. Ho sonno, ho fame, non ne posso più.
Ho tutto quello che si può avere di peggio -. Adriano,
me lo raccontò poi al paese, si stup’ quella notte a sentir-
mi parlare così. - Io, - diceva al paese, - quando lo in-
contravo lo vedevo sempre sereno e allegro. Ma quella
notte. Quella notte!
Adriano levò dallo zaino una scatola di marmellata e
un pezzo di parmigiano di un paio di chili. - L'ho presa
in un magazzino questa roba, - disse, - mangia -. Con la
baionetta cercai di rompere il formaggio per staccarne
un pezzo e restituirgli l'altro. Ma dopo essermi levato i
guanti sentii un dolore impensabile straziarmi le mani e
non fui capace di tagliarlo. Le mani non seguivano il
cervello e le guardavo come cose non mie e mi venne da
piangere per queste povere mani che non volevano più
essere mie. Mi misi a sbatterle forte una contro l'altra,
sulle ginocchia, sulla neve; e non sentivo la carne e non
le ossa; erano come pezzi di corteccia d'un albero, come
suole di scarpe; finché me le sentii come se tanti aghi le
perforassero, e me le sentii a poco a poco tornare mie
queste mani che adesso scrivono. Quante cose può ri-
cordarmi il mio corpo.
Riprendemmo a camminare nella notte. - E i paesani,
Adriano? - chiesi. - Sono tutti sani, - rispose. - Ma io ora
devo ritornare al mio reparto, ci rivedremo ancora. Stai in
gamba parente. - Arrivederci, - dico, - in gamba sempre.
Sotto, sotto, dobbiamo restare uniti. Non ho il corag-
gio di parlare ai miei compagni di case di vino di prima-
vera. A che gioverebbe? A buttarsi sulla neve e dormire
e sognare queste cose e poi svanire nel nulla, nel niente,
e sperdersi, sciogliersi con la neve a primavera nell'umo-
re della terra. Era tutto buio ed in lontananza, nel cielo,
riflessi rossi dei villaggi che bruciavano. Ancora un pas-
so, ancora un altro; la neve passava la coperta e pungeva
il viso, il collo, i polsi. Il vento ci toglieva il respiro e vo-
leva strapparci la coperta. Mangiai un po' del formaggio
che mi aveva dato Adriano. Era duro a spezzarsi con i
denti, a masticarlo era come sabbia, e sentivo che assie-
me al boccone mandavo giù sangue che mi usciva dalle
gengive e dalle labbra. Il fiato mi si gelava sulla barba e
sui baffi e con la neve portata dal vento vi formava dei
ghiaccioli. Con la lingua mi tiravo quei ghiaccioli in boc-
ca e succhiavo. E venne l’alba. E la tormenta aumentò.
E il freddo aumentò. Ma ora mi domando: se non vi fos-
se stata la tormenta saremmo sfuggiti ai russi?
In quella notte il tenente Cenci era di retroguardia
con il suo plotone. A un certo punto si erano fermati in
un'isba isolata per riposare ma se due donne non li aves-
sero svegliati in tempo per riprendere in fretta il cammi-
no sarebbero stati sorpresi dai russi che già erano in vi-
sta dell'isba. E l'alba era grigia e il sole non veniva mai e
c'era solo la neve e il vento e noi nella neve e nel vento.
Nessuno voleva più portare le pesanti e le casse di muni-
zioni; e quando uno si prendeva sopra lo zaino una di
queste cose non c'era più nessuno che voleva dargli il
cambio. Cercavo di convincerli che bisognava tenerle
con noi. Le Breda della mia squadra erano le armi mi-
gliori della compagnia e sapevo che cosa significasse per
i fucilieri sentire le pesanti in caso di attacco. Bisognava
portarcele con noi a costo di qualsiasi sacrificio. Ma
quando, in quella mattina, dopo una tale notte, bisogna-
va prendere sopra lo zaino il treppiede o una cassa di
munizioni i coltelli sotto le ascelle pareva raggiungessero
il cuore e i polmoni rimanevano senz'aria. Alleggerendo
un compagno di una di queste cose, pareva che costui si
alzasse in volo: sospirava, bestemmiava e poi diceva
mentalmente un'avemaria.
Si camminava su una strada e la neve era ammucchiata
ai lati; ma quella vecchia, non quella portata dalla tor-
menta. A destra c'era una rada fila di isbe. Si camminava
a gruppetti e con lunghe code, era difficile tenere unito il
plotone. Tra uno spazio e l'altro passava libero il vento e
sibilava la tormenta. Eravamo tutti grigi e si vedeva poco.
Qui, una volta, vi dovevano essere magazzini o con-
ducenti, perché tra la neve, si vedevano dei fili di paglia.
Pensate: paglia che una volta era un campo di grano. Vi
erano anche delle casse di galletta. Come vedono le cas-
se gli alpini vi si gettano sopra, sono vuote, ma pure
qualche cosa ci deve essere nel fondo perché a spintoni
e a pugni cercano di farsi largo e di affondarvi le mani.
Quelli che sono presi sotto gridano; poi lentamente si al-
lontanano tutti. Uno rimane, gira ancora attorno alle
casse, poi le rovescia e fruga nella neve.
Il capitano in testa a tutti si ferma e guarda la bussola.
Ma dove siamo? A un lato della strada vedo una massa
oscura e immobile. Un camion? o una carretta? o un
carro armato? é una macchina rotta e abbandonata.
Un senso di apprensione m'invade e mi pare che carri
armati russi debbano uscire dalla tormenta. - Andiamo,
- dice il capitano, - state sotto, dobbiamo camminare in
fretta. Avanti -. Finalmente arriviamo in un grosso paese
dove erano comandi e magazzini. La tormenta è cessata,
però tutto è grigio: la neve, le isbe, noi, i muli, il cielo, il
fumo che esce dai camini, gli occhi dei muli e i nostri.
Tutto di uno stesso colore. E gli occhi non vogliono più
stare aperti, la gola è piena di sassi che vi ballano dentro.
Siamo senza gambe, senza braccia, senza testa, siamo so-
lo stanchezza e sonno, e gola piena di sassi.
Vediamo il maggiore comandante il battaglione usci-
re da un'isba. - Andate nelle isbe al caldo e riposatevi, -
ci dice. - Sono già diverse ore che sono qui le altre com-
pagnie. Dove siete andati? Chissà dove siete andati voi
questa notte. Entrate nelle isbe, - dice il maggiore. For-
se pensa di parlare con delle ombre perché stiamo l’ co-
me i muli che fumano dalla pelle. - Andate al caldo e ri-
posate, - dice il capitano, - tra poche ore si riparte.
Sistemate i plotoni nelle isbe, - dice agli ufficiali e a me,
- e fate pulire le armi.
Quando siamo partiti dal caposaldo, eravamo con le
squadre al completo; ora, guardando così, mi accorgo
che mancano parecchi uomini: forse spersi nella tor-
menta, forse fermatisi in qualche isba, forse entrati nelle
case appena arrivati qui. Ma nessuno s'interessa a con-
trollare chi manca. Quelli che sono rimasti si allontana-
no a gruppetti in cerca di un'isba libera dove entrare. Io
solo rimango fuori e giro da una strada all'altra senza sa-
pere dove andare. Perché non sono andato con i miei
compagni di plotone? anzi con i miei uomini? Non lo so
perché. Rimango solo, fuori sulla neve; e non so dove
andare. Infine vado a bussare a qualche porta. Ma, o mi
rispondono male o non mi aprono. La maggior parte
delle case è occupata da gente dell'auto-reparto, della
sussistenza, dei magazzini, della sanità. Voglio dormire
un po' al caldo, perché non mi lasciano entrare? Non
sono anch'io un uomo come voi? E no, non sono come
loro, io. Sono solo in mezzo alla strada e mi guardo at-
torno. Mi si avvicina un vecchio e mi indica, dietro una
fila di isbe, in un orto, un cumulo di terra. Dalla terra
sporge un comignolo, e dal comignolo esce del fumo.
Mi fa cenno di andare là e scendere giù. E un rifugio an-
tiaereo. All'altezza del terreno vi sono due piccole fine-
stre con vetri, scendo per una scaletta, scavata nel terre-
no e busso alla porta. Provo a spingere ma è chiusa
dall'interno. Qualcuno viene ad aprire, è un soldato ita-
liano. - Siamo già in tre qui, - dice, - e una famiglia rus-
sa -. E richiude la porta. Batto: - Lasciatemi entrare, -
dico, - mi fermerò poco, voglio solo dormire un po',
non mi fermerò tanto -. Ma la porta resta chiusa. Busso,
la porta torna ad aprirsi, si affaccia una donna russa e mi
fa cenno di entrare. é caldo qui dentro, è come nella
mia tana al caposaldo, o nelle stalle, con la differenza
che qui vi è questa donna russa con tre bambini e tre im-
boscati italiani. Ma ora ve n'è uno solo perché gli altri
due sono fuori. Quello che è rimasto mi guarda male. La
donna mi aiuta a levarmi il cappotto. Devo avere una
faccia proprio conciata male se mi guarda con quegli oc-
chi pieni di compassione che quasi piangono. Ma io non
so più commuovermi, ora. L'imboscato che da un ango-
lo mi guarda, come vede che sulla manica ho due strac-
cetti di gradi e sopra il taschino qualche nastrino, vuole
attaccare discorso. Porca naia! E se fossi un conducente
qualsiasi? un fuciliere? un mulo? una formica? Non ri-
spondo alle sue domande e mi levo anche l'elmetto e il
passamontagna. Mi pare di essere nudo. E svuoto le ta-
sche dalle bombe e le metto nell'elmetto e mi levo le gi-
berne che mi pesano sul ventre. Cavo da una tasca della
giubba una manciata di caffè misto a neve e nel coper-
chio della gavetta lo pesto con il manico della baionetta.
La donna ride, l'imboscato sta zitto e mi guarda. La
donna mette a bollire l'acqua e fa alzare i ragazzini che
mi guardano sdraiati su dei cuscini. Prende i cuscini e li
mette su una specie di palco, vi butta sopra anche una
coperta; la mia la mette ad asciugare vicino al fuoco. Mi
fa cenno di salire sul palco a dormire. Mi siedo con le
gambe ciondoloni e finalmente dico: - Spaziba -. La
donna mi sorride e anche i bambini. L'imboscato mi
guarda sempre zitto. Levo dallo zaino la marmellata che
mi aveva dato Adriano, non ho altro, e mangio. Voglio
offrirne anche ai bambini ma la donna non vuole: - Cu-
sciai, - mi dice, - cusciai, - mi dice sottovoce sorriden-
do. Quando l'acqua bolle mi fa il caffè e, finalmente, do-
po tanti giorni, mando dentro qualche cosa di caldo. Mi
aggiusto il posto per dormire, mi metto vicino il mo-
schetto e l'elmetto con le bombe a mano. - Stamattina
c'erano qui i carri armati russi, - mi dice l'imboscato. -
Ma tu cosa fai qui? - domando. - Che cosa aspetti? Non
vai con il tuo reparto? - Non risponde. Fuori fa freddo,
c'è la steppa, il vento, la neve, tanto vuoto attorno, i car-
ri armati russi e lui sta qui al caldo con i suoi due com-
pagni e la donna russa. - Se senti sparare, svegliami, -
dico. Su di un'asse, contro la parete di terra gialla, c'è
una vecchia sveglia e faccio cenno alla donna di svegliar-
mi quando la lancetta piccola sarà arrivata al numero
due. A quell'ora devo trovarmi con la compagnia. Sono
le undici, ora, dormirò tre ore. E mi butto giù sui cusci-
ni, vestito e con le scarpe addosso. Ma perché non sono
capace di dormire? Perché penso ai miei uomini che so-
no nelle isbe al caldo? Perché sto con le orecchie tese a
sentire se sparano? Perché non viene il sonno? Da tanti
giorni non dormo. Ritornano i due imboscati che erano
fuori e sento che parlano fra di loro; sento un bambino
che piange e sto con gli occhi aperti a guardare la parete
di terra gialla. Il caposaldo, i chilometri, i miei compa-
gni, i russi morti nel fiume, la Katiuscia, i miei paesani, il
tenente Moscioni, le bombe a mano, la donna russa, i
muli, i pidocchi, il moschetto. Ma esiste ancora l'erba
verde? Esiste il verde? E poi dormo; dormo, dormo.
Senza sognare nulla. Come una pietra sotto l'acqua.
Quando la donna russa mi sveglia è tardi, mi ha la-
sciato dormire mezz'ora di più. In fretta lego la coperta
allo zaino, rimetto in tasca le bombe a mano e in testa
l'elmetto. Quando sono pronto per uscire la donna mi
porge una tazza di latte caldo. Latte come quello che si
beve nelle malghe all'estate; o che si mangia con la po-
lenta nelle sere di gennaio. Non gallette e scatolette, non
brodo gelato, non pagnotte ghiacciate, non vino vetroso
per il freddo. Latte. E questa non è più naia in Russia,
ma vacche odorose di latte, pascoli in fiore tra boschi
d'abete, cucine calde nelle sere di gennaio quando le
donne fanno la calza e i vecchi fumano la pipa e raccon-
tano. La tazza di latte fuma nelle mie mani, il vapore sa-
le per il naso e va nel sangue. Bevo. Restituisco la tazza
vuota alla donna dicendo: - Spaziba.
Mi rivolgo, poi, ai tre imboscati: - Non venite? - Ma
dove vuoi andare? - mi risponde uno: - Siamo circon-
dati dai russi e qui siamo al caldo. - Lo vedo, - dico; - io
vado. Vi saluto e auguri -. E ritorno fuori.
Il paese era tutto un brulicare, come quando nel bo-
sco si introduce un bastone in un formicaio. Ragazzi,
donne, bambini, vecchi entravano nelle isbe con fagotti
e sacchi mezzi pieni e subito ritornavano fuori con i sac-
chi vuoti sotto il braccio. Andavano nei magazzini che
bruciavano e prendevano tutto quello che riuscivano a
salvare dalle fiamme. Slitte, muli, camion, automobili
andavano e venivano senza scopo per le strade; un grup-
po di carri armati tedeschi fece presto ad aprirsi un pas-
saggio tra quel groviglio. Un fumo giallo e acre si ferma-
va sopra il villaggio e fasciava le case. Il cielo era grigio,
le isbe grige, la neve calpestata in tutti i sensi era grigia.
Avevo ancora in bocca il sapore del latte, ma ormai ero
fuori. Ora camminavo verso casa. Sia quel che sia.
Le mani in tasca, guardavo quello che succedeva in-
torno a me; mi sentivo solo. Passando davanti a un edifi-
cio, forse le scuole, vidi pendere verso la strada due ban-
diere; una italiana e l'altra della Croce Rossa e
quest'ultima era così grande che quasi toccava terra. Di-
venni improvvisamente triste. Immaginavo il paese vuo-
to con i magazzini che finivano di bruciare, gli abitanti
chiusi nelle isbe, qualche mulo abbandonato che rosic-
chiava i torsi dei cavoli che spuntavano dalla neve. Im-
maginavo i soldati russi che arrivavano. I muli, allo sfer-
ragliare dei carri armati, muovevano appena le orecchie.
I nostri feriti guardavano dalle finestre dell'ospedale.
Tutto era grigio e le due bandiere pendevano verso la
strada deserta.
Dall'ospedale ora stavano uscendo i feriti che poteva-
no camminare e tentavano di aggrapparsi alle slitte e ai
camion di passaggio.
Non riuscivo a vedere un soldato della mia compa-
gnia o del battaglione. Forse erano già partiti tutti. Vidi
uno del Cervino che camminava così come camminavo
io. Lo chiamai e andammo assieme. Chiesi notizie di co-
noscenti. Il Cervino era il battaglione con il quale avevo
partecipato a un'azione dell'inverno precedente. - E il
sergente Chienale? - chiesi. - é morto. - E il tenente
Sacchi? - Morto -. Tanti e tanti altri erano morti. Pochi,
appena dieci, forse, erano rimasti di quel Cervino che
era più spavaldo di un battaglione di bersaglieri.
Attraversai il paese passando accanto ai magazzini che
stavano bruciando. Più tardi seppi che alpini arrivati qui
dalla linea erano entrati nei magazzini abbandonati; e i
soldati della sussistenza avevano detto: - Prendete quel
che volete -. Trovarono cioccolata, cognac, vino, mar-
mellata, formaggio. Sparavano nelle botti di cognac e
mettevano sotto la gavetta. Dopo tanto tribolare, final-
mente, bevevano e mangiavano e dormivano. Molti non
si svegliarono più: bruciati o assiderati. Altri svegliandosi
si saranno trovati davanti al viso le canne dei mitra russi.
Ma qualcuno è riuscito a raggiungerci e a raccontare.
Poco prima di uscire dal paese, tra tutta quella confu-
sione, riuscii a vedere degli uomini della mia compagnia.
Li raggiunsi. Al passaggio d'una balca, prima di entrare
nella steppa libera, v'era tutto un ammasso di camion, di
slitte, di auto. Camion erano rovesciati nel fondo della
balca e là chi bestemmiava, chi gridava, chi chiamava
aiuto per spingere o cercare di liberare la pista. Provai
piacere quando vidi i camion rovesciati che non si pote-
vano muovere e ricordai come, nell'estate precedente,
durante le interminabili marce notturne di avvicinamen-
to, ci sorpassavano le lunghe autocolonne e la polvere
color cioccolata delle piste si appiccicava al sudore di
noi che si camminava sotto lo zaino, penetrava nella gola
e ci faceva sputar giallo per delle settimane.
E quelli della sussistenza, dei magazzini e del genio
di retrovia ai lati della pista ci guardavano passare e ri-
devano. Sì! porca naia, ridevano. "Ma questa volta si
muoveranno anche loro. Diavolo se si muoveranno. Se
vogliono arrivare a baita si muoveranno!" Questo pen-
savo mentre li guardavo affaccendarsi attorno alle loro
macchine che portavano le scartoffie o i bagagli dei lo-
ro ufficiali o chissà che diavolo. Alle spalle si levavano
le fiamme e il fumo degli incendi e si udiva sempre più
vicino il rumore delle cannonate. "Disincantatevi, im-
boscati, è giunta l'ora anche per voi di lasciare le ragaz-
ze delle isbe, le macchine da scrivere e tutti gli altri ac-
cidenti che il diavolo se li pigli. Imparerete a sparare
con il fucile, venite con noi se volete; per noi, ne abbia-
mo abbastanza".
Pensavo a questo, e questo pensiero mi metteva ener-
gia e calpestavo con forza la neve fuori dalla pista. Cam-
minavo più spedito e andavo avanti. Risalimmo la balca.
Attraverso la steppa si snodava la colonna che poi spari-
va dietro una collina, lontano. Era una striscia come una
S nera sulla neve bianca. Mi sembrava impossibile che ci
fossero tanti uomini in Russia, una colonna così lunga.
Quanti caposaldi come il nostro eravamo? Una colonna
lunga che per tanti giorni doveva restarmi negli occhi e
sempre nella memoria.
Ma si avanzava lentamente, troppo lentamente, e così,
con il gruppo che mi seguiva, ritornai fuori dalla pista
per cercar di portarmi più avanti. Avevamo due Breda
con qualche migliaio di colpi e ancora i viveri di riserva.
Il peso ci faceva sprofondare nella neve ma pure si anda-
va molto più lesti della colonna. Gli spallacci dello zaino
ci segavano le ascelle. Antonelli, come sempre, bestem-
miava e Tourn ogni tanto mi guardava come a dirmi:
"La finirà, no?" C'era con noi qualcuno della squadra di
Moreschi che cercava di rimanere qualche passo indie-
tro per evitare il turno di portare l'arma. Antonelli invei-
va contro costoro con le più belle parole dei bassifondi
veronesi. Si incontrava ogni tanto qualche uomo supino
nella neve che, trasognato, ci guardava passare senza
farci alcun cenno. Un ufficiale italiano con stivali e spe-
roni, a un lato della pista, gesticolava e gridava insulsa-
mente. Era ubriaco e ciondolava. Cadeva nella neve, si
rialzava gridando chissà che cosa e poi ritornava giù.
Stava assieme a un carabiniere che cercava di sostenerlo
e di tirarlo avanti. Infine si fermarono dietro a un pa-
gliaio isolato nella steppa. Più avanti incontrai altri sol-
dati della mia compagnia, poi quattro uomini del mio
plotone tra i quali Turrini e Bosio. Si erano arrangiata
una piccola slitta e vi avevano caricato sopra la pesante e
tre casse spalleggiabili di munizioni. Un po' qua e un po'
là, lungo la colonna, ero riuscito a radunare quasi tutto
il mio plotone. Ogni qualvolta un gruppetto si univa al
mio già grosso era un piacere; ci si chiamava per nome e
si rideva scherzando sulle nostre condizioni. Quelli che
camminavano nella colonna alzavano gli occhi dalla ne-
ve, ci davano uno sguardo e ritornavano ad abbassare la
testa. - Stiamo uniti, - dicevo, - e camminiamo in fretta.
Venne la notte e arrivammo in un piccolo paese nella
steppa. Non so che giorno o che notte fosse, so che face-
va molto freddo, e avevamo anche fame. Ci trovammo
riuniti con gli altri plotoni della compagnia e con il bat-
taglione. Ormai eravamo nel nostro ambiente: si sentiva
parlar bresciano. Anche il maggiore Bracchi parlava
bresciano: - Corai s'cet, forza s'cet -. Il maggiore Brac-
chi: cappello in testa, scarpe Vibram, sigaretta in bocca,
gradi di banda sulle maniche del pastrano, il passo sicu-
ro, occhi azzurri e voce che infondevano serenità. - Co-
raggio, ragazzi, diceva in bresciano, - per Pasqua sare-
mo a casa a mangiare il capretto -. Chiamava per nome
or l'uno or l'altro di noi e sorrideva.
- Barba di Becco, - disse (così mi chiamava lui, Barba
di Becco o Vecio), - mi sembri diventato un po' magro e
trasandato. Una pastasciutta ci vorrebbe o un liter de
negher. - Naia potente se ci vorrebbe! - dissi, - anche
due. E lei non ci starebbe? - Sciur magiur, - gli disse
Bodei, - deve restare consegnato, le manca un bottone
sul pastrano e ha la penna storta. - Enculet ciavad, - gli
rispose il maggiore. Il maggiore sorrideva e scherzava
quando parlava con noi, ma poi diventava serio e gli oc-
chi si spegnevano. E io pensavo: "Pasqua è ancora lon-
tana, abbiamo appena passato Natale; e tanti chilometri
ci sono da camminare".
Era notte e molto freddo, e si era con le scarpe nella
neve in attesa di ordini. Vedevo che il capitano era stan-
co da non poterne più. Il tenente Cenci, avvolto in una
coperta come in uno scialle, fumava una sigaretta dietro
l'altra e ogni tanto bestemmiava. Quando succhiava il
fumo vedevo la braccia accendersi come un occhio di
gatto. Parlava un poco con un alpino del suo plotone e
bestemmiava in modo gentile con voce armoniosa e da
salotto. Mi si avvicinò: - Come va, Vecio? - disse. - Va
bene, - risposi, - va bene; ma fa un po' freddo -. Naia
potente se faceva freddo!
Attorno a noi c'era una gran confusione; si sentiva
parlare tedesco, ungherese, e italiano in tutti i dialetti.
Poco lontano bruciavano delle isbe e dei magazzini e la
neve attorno riverberava la luce rossastra sino ai limiti
del villaggio, dove poi incominciava la steppa. E laggiù
bruciava anche il paese che avevamo lasciato nel pome-
riggio. Ogni tanto si sentivano scoppi e rumore di moto-
ri ma pareva che di là dal chiarore rossastro degli incen-
di non vi fosse più nulla. Il mondo finiva là. Diavolo! e
noi dovevamo andare più avanti di quel buio. Ma le
scarpe erano come legno, la neve secca come sabbia e le
stelle pareva che strappassero la pelle come speroni. Nel
paese non era rimasto nessuno; non c'erano nemmeno
vacche, pecore, oche. Lontano, nel buio, si sentivano
abbaiare i cani. I nostri muli erano con noi; e con le
orecchie abbassate sognavano le mulattiere delle Alpi e
l'erba tenera. Mandavano vapore dalle narici come le
balene; avevano il pelo coperto di brina e mai erano sta-
ti così lustri. E i pidocchi anche c'erano; i nostri pidoc-
chi che se ne fregavano di tutto e stavano al caldo nei
posti più reconditi. Ecco, pensavo, se dovessi morire i
pidocchi che ho addosso che fine farebbero? Creperan-
no più tardi di me quando il sangue nelle vene sarà co-
me vetro rosso oppure resisteranno sino a primavera?
Quando, al caposaldo, mettevamo fuori le maglie con
quaranta gradi di freddo per due giorni e due notti e le
indossavamo dopo averle asciugate vicino alla stufa su-
bito i pidocchi si facevano vivi. Erano robusti e forti.
- Rigoni, vuoi una sigaretta? - dice Cenci. Fumo, al-
meno il fumo è caldo. Antonelli impreca: - Ci muovia-
mo o no? Che facciamo qui? - E bestemmia.
Ascoltando quelli che erano qui prima di noi veniamo
a sapere che i carri armati russi, arrivati fin qui, hanno
portato il terrore. Ma ora siamo in tanti: una divisione
ungherese, un corpo corazzato tedesco, la divisione Vi-
cenza, quello che è rimasto della Julia, la Cuneense e noi
della Tridentina. E poi tutti i servizi: autoreparti, sussi-
stenza, genio, sanità, ecc. Buona parte di questi ultimi
hanno già abbandonato le armi nella neve e sono con-
vinti di essere già prigionieri. Prigionieri si è, penso e di-
co, quando un soldato russo ti fa camminare dove vuole
puntandoti un fucile, ma non come ora.
- Sergentmagiù, ghe rivarem a baita? - é Giuanin che
si è avvicinato. - Ghe rivarem Sì, Giuanin, - gli dico, -
ma non pensarci ora alla baita, salta tra la neve per non
gelarti i piedi -. Finalmente il maggiore Bracchi che si
era allontanato in cerca di ordini, ritorna. Ci muoviamo
finalmente, ma torniamo indietro. - Andiamo di retro-
guardia, - dice il tenente Pendoli. - Sempre a noi tocca,
- brontoliamo. (E quelli del Tirano diranno altrettanto).
- Vestù! Avanti da questa parte, - grida Bracchi.
Si cammina nella neve alta; ogni tanto si batte la testa
sull'elmetto del compagno che sta avanti e ogni tanto bi-
sogna correre per star sotto. I magazzini e le isbe brucia-
no e qua e là si sente gridare in tedesco. Passiamo vicino
a dei grossi panzer col motore acceso (per non gelare,
penso). Camminando così nella neve do dentro col pie-
de in un barattolo e lo raccolgo. é mezzo pieno e al
chiarore di un incendio vedo che contiene roba da man-
giare. Introduco la mano senza levarmi il guanto: questa
è la manna di Mosè: marmellata e burro mescolati assie-
me. Mi lecco il guanto e i baffi; mangio camminando e
mangiano quelli che mi sono vicino.
Non so quanto abbiamo camminato; ogni passo pare-
va un chilometro e ogni attimo un'ora; non si arrivava
mai e non finiva mai. Finalmente ci fermiamo a delle
isbe isolate. Sistemo il mio plotone in un edificio in mu-
ratura: saranno state le scuole o la casa dello starosta. Vi
troviamo anche dei soldati dell'autocentro. Questi sono
come i pidocchi: s'annidano dappertutto. E c'è un fuo-
co, e c'è caldo e persino paglia sul pavimento. Ah!
com'è bello buttarsi giù e cavarsi l'elmetto e mettere lo
zaino sotto la testa stretti al caldo uno vicino all'altro.
Finalmente possiamo chiudere gli occhi e dormire.
Ma chi è che mi chiama l’ fuori? Andate al diavolo, la-
sciatemi dormire. Uno apre la porta e fa il mio nome: -
Va' dal capitano, ti vuole -. Ho dentro un fuoco che mi
brucia. Mi alzo, i miei compagni sono già addormentati e
russano. Per uscire devo pestare i loro piedi: bestemmia-
no, aprono gli occhi, si girano dall'altra parte e ritornano a
dormire. Fuori è freddo; è tutto silenzio, il portaordini
non c'è più, tante stelle ci sono invece come in un cielo di
settembre. Ma erano belle allora le notti di settembre nei
campi di grano e papaveri; tiepide e amorose come la terra
queste stelle. Ora non so se è un incubo o se uno spirito
maligno si diverte alle mie spalle. Non c'è nessuno fuori e
vado a cercare il capitano che mi vuole. Che avrà da dir-
mi? Cerco in un’isba e non lo trovo, busso alle altre. Mi ri-
spondono in tedesco: - Raus! - o in bresciano: - Inculet!
- Trovo i fucilieri della mia compagnia e mi chiedono se
voglio entrare a dormire da loro. - Cerco il capitano, - di-
co. - é qui? - No, - mi rispondono. Giro tra i cavalli degli
ungheresi e cerco i1 capitano; lo chiamo per le piste che
portano nella steppa. Nessuno mi risponde. Le stelle mi
straziano la carne, mi viene da piangere e da maledire.
Vorrei istintivamente uccidere qualcuno. Pesto con ira la
neve; agito le braccia; faccio crocchiare i denti; i sassi mi
ballano nella gola. Calmati! Non impazzire! Calma! Ritor-
na nell'isba del tuo plotone, ritorna a dormire. Chissà cosa
ti attenderà domani. Domani! Ma è già l’alba, laggiù inco-
mincia il crepuscolo. Le mattine al caposaldo quando rien-
travo nella tana calda ed era pronto il caffè; le mattine pri-
ma di venir soldato quando andavo per legna e sentivo il
canto degli urogalli, le mattine che salivo alle malghe con il
mulo grigio. E lei starà dormendo tra lenzuola di bucato,
nella sua città di mare, e dal mare entrerà nella stanza il
primo chiarore dell'alba. Ma sarebbe meglio buttarsi su
quel mucchio di neve e dormire, chissà come sarà morbi-
da. All'erta, sta' all'erta, cerca l'isba del tuo plotone. Strin-
go i denti e i pugni e do calci nella neve. Ritrovo l'isba, en-
tro e mi lascio cadere fra i corpi caldi dei miei compagni.
Ma non dormo forse nemmeno un'ora perché Cenci batte
alla porta e dice forte: - Plotone mitraglieri sveglia! Fate
presto, si parte. Rigoni sveglia! - E sento i miei compagni
che si alzano in silenzio e arrotolano le coperte e poi le be-
stemmie di Antonelli. Come desidererei dormire, dormire
ancora un poco, un poco solo; non ne posso più; o impaz-
zisco o mi sparo. Ma pure mi alzo, esco, raduno il plotone,
controllo per vedere chi manca; vado in cerca dei ritarda-
tari e facendo questo ritorno quello di sempre. Non penso
più né al sonno né al freddo. Mi assicuro se non abbiamo
lasciato nulla nell'isba, munizioni o armi. Controllo i pre-
senti, guardo se le armi sono pulite, tiro il carrello di arma-
mento e premo il bottone a vuoto. Questo mio fisico è
davvero meraviglioso: muscoli, nervi, ossa; non credevo
prima d'ora che potesse sopportare tanto. Ci avviamo ver-
so l'altra estremità del villaggio. Gli altri plotoni della
compagnia sono già partiti e noi siamo gli ultimi. Sorpas-
siamo le slitte degli ungheresi e un gruppo di artiglieria al-
pina. Nel fondo di una balca non tanto profonda ci riunia-
mo alla compagnia. Ma il capitano manca. Il maggiore
Bracchi, impaziente, cammina avanti e indietro sulla neve.
Mi chiama e mi manda a cercare il capitano e una compa-
gnia che manca. - Fai presto, - mi dice Bracchi, - dobbia-
mo andare all'assalto e cercare di aprire la sacca -. Torno a
rifare la strada. E lo trovo il capitano. Sta su una slitta; mi
chiama mentre sono ancora lontano. - Rigoni, paesano, -
dice, - ho la febbre. Volevo fermarmi in un'isba; no, non
sto bene. Dov'è la compagnia? - Capitano, - dico, - la
compagnia è laggiù, - e indico con la mano. - Vi aspetta,
mi ha mandato in cerca di voi il maggiore.
Sono con il capitano, l'attendente e il conducente del-
la slitta. Il suo aspetto non è più quello di una volta, gio-
viale e furbesco; ma con la coperta tirata sulla testa co-
me uno scialle e il passamontagna infilato sino al collo,
non sembra più il contrabbandiere di Valstagna.
- Portatemi dov'è la compagnia, - dice il capitano, -
non lasciatemi solo. Sono il vostro capitano, no? Non
vorrete mica lasciarmi solo, sono il vostro capitano! Ho
la febbre, - ripete. - Andiamo, - rispondo.
Trovo un tenente della compagnia che manca, con il
suo plotone. - La compagnia sta venendo, - mi dice. Ma
intanto abbiamo fatto tardi e al nostro posto sono anda-
ti il Verona e un battaglione del 5Á. Si sente già sparare.
Sparano forte. Si odono le raffiche secche dei mitra rus-
si, le nostre pesanti, i colpi acuti dei fucili, qualche scop-
pio di mortaio e anche di bombe a mano. Dev'essere du-
ra lassù. Sento brividi per la carne, mi pare sentire le
pallottole cucire la mia anima, ogni tanto trattengo il re-
spiro. Mi viene una grande malinconia e un gran deside-
rio di piangere. Lassù dove sparano: una fila di isbe sul
dorso di una mugila. E bisogna passare, dicono, perché
al di là c'è una strada da dove ci possono venire incontro
le motorizzate tedesche.
Ma i russi non vogliono lasciarci passare. Sparano,
sparano, sparano e io ho paura e se fossi con loro no. Mi
pare che qualcosa si stacchi da me a ogni raffica, a ogni
esplosione. Noi siamo qui pronti ad intervenire e vorrei
finirla di stare ad aspettare in questa balca fredda a ri-
dosso del villaggio e con questa angoscia. Passeranno o è
davvero finita? I miei compagni sono stanchi, ogni tanto
un uomo del mio plotone se ne va, gira per il villaggio tra
le slitte degli ungheresi. Questi sono i più passivi e i più
neutri di tutti. Hanno le slitte stracariche di lardo, salu-
mi, zucchero, tavolette di vitamine, ma niente armi e
munizioni. Gli alpini girano attorno alle slitte, sornioni,
con le mani in tasca e l'aria da fessi. Quando ritornano
tra noi tirano fuori pezzi di lardo e salami di sotto i pa-
strani. Abbiamo acceso un gran fuoco, ci stiamo attorno
a cerchio e ogni tanto ci voltiamo per scaldarci da tutte e
due le parti. Si chiacchiera e il vino è l'argomento princi-
pale. - Quando sarò a casa voglio fare un bagno in una
botte di vino, - dice Antonelli. - E io mangiare tre gavet-
te di pastasciutta, - aggiunge Bodei (si è dimenticato
oramai che a casa si mangia nel piatto), - e fumare un si-
garo lungo come un alpenstock -. Serio e convinto,
guardando il fuoco, Meschini dice: - Fare una sbornia di
grappa e liquefare con il fiato tutta la neve della Russia -.
Ma ogni tanto si sta zitti e lassù continuano a sparare. -
Sparano, - dice Antonelli, e bestemmia. - Tourn! - gri-
da, battendogli una mano sulla spalla: - e bute e meze
bute, Barbera e Grignolin! - E Tourn alza la testa, gli
occhietti da scoiattolo sotto il passamontagna si accen-
dono: - Basta ch'el sia da beive, - dice. Ma qui porca
naia non c'è niente. Un fuoco che ti affumica davanti e
neve che ti agghiaccia dietro. I tenenti Cenci e Pendoli
chiamano adunata vicino alle slitte della compagnia: c'è
qualcosa da distribuire. Sono gli ultimi viveri che ci ven-
gono dati come razione e che i cucinieri sono riusciti a
portare sin qua. Io ero convinto che non ci fosse più nul-
la. I sacchi delle pagnotte sono incrostati di neve e odo-
rano di cipolla, di carne, di conserva, di fumo di caffè;
dell'odore dei cucinieri insomma. Ci sono due pagnotte
per ciascuno, dure, gelate, e vecchie; e dalle slitte esce
anche una forma di reggiano e anche quello è gelato. Per
spaccarlo il tenente Cenci deve prendere un'accetta e
poi l'aiuto io con la baionetta a fare le razioni per i ploto-
ni. C'è anche cognac. Quando il cuciniere tira fuori i bi-
doni ne sentiamo l'odore e annusiamo l'aria come i cani
da caccia e quelli che sono lontani si fanno sotto. Capi-
squadra fuori le gavette! Quante volte ho fatto le razioni
in quattro anni di naia: una gavetta sino ai chiodi del ma-
nico otto razioni di vino, un gavettino di cognac una
squadra. Ma di cognac ora ce n'è di più e le parti le fa
Cenci. Ritiro con i capisquadra la roba per il mio ploto-
ne. Attorno al fuoco beviamo il cognac; attorno al fuoco.
Antonelli bestemmia, Tourn si liscia i baffi, Meschini
mugola. Cenci viene da noi. - In gamba, pesante, - dice
e ci dà da fumare. Naia potente!
So che vicino a noi del Vestone ci dovrebbe essere il
battaglione del genio alpino della nostra divisione ove
ho i paesani e vado in cerca di loro. Trovo il Vecio e
Renzo. Vengono dalla battaglia dove erano di collega-
mento presso il colonnello Signorini. Appena li vedo
camminare stanchi sulla neve mi ritorna alla memoria
che in settembre erano venuti a trovarmi in linea e tanto
bene era nascosta la mia tana nel campo di grano che
quasi ci cascavano dentro con la motocicletta che mon-
tavano. Strano il rumore della motocicletta nel campo di
grano. Solo quello si sentiva e io, sdraiato nella tana,
pensavo: "Chi sarà?" Ed erano loro, i miei paesani che
mi portavano un sacchetto di frumento per fare il pane.
Quel giorno avevo un bidoncino di vino: un mese di ra-
zioni arretrate. Mi sembrava di vedere il mio paese
nell'incontrarli. - Ciao Renzo, ciao Vecio. - Mario! -
Mario! - Vengono dal combattimento e sono stanchi. -
Questa volta non arriveremo a casa, Mario; ci lasceremo
la pelle. I russi non ci lasciano passare, - dice il Vecio.
Ed è triste. Chissà quanti ne avrà visti morire; chissà co-
sa sarà passato per la sua radio. Renzo, invece, è sempre
uguale. Se avesse un fiasco di vino o sentisse una quaglia
cantare nell'avena, alla sacca non ci penserebbe più. Ma
forse non ci pensa nemmeno adesso. - Su, coraggio pae-
sani, - dico, - vedrete che festa faremo quando saremo
ritornati, che pastasciutte e che sbornie! Ci sarà anche lo
Scelli con l'armonica e le ragazze e grappa -. Ma il Vecio
sorride sfinito e gli occhi gli luccicano. Chiedo a loro di
Rino. Non sanno dirmi dove sia e così vado a cercarlo.
Trovo il tenente medico del suo battaglione e mi dice
d'averlo visto un attimo prima. Mi rallegro: almeno è vi-
vo. Chiedo di lui ai suoi compagni: Era qui adesso, - mi
dicono. Lo chiamo ma non riesco a trovarlo. Incontro
Adriano e Zanardini: - Coraggio, - dico, - ce la faremo
-. Ritorno dov'è il mio plotone. Mi metto dietro un'isba
e accendo il fuoco. Non so come, mi trovo assieme a
Marco Dalle Nogare. Marco che non si risparmia mai
con nessuno, amico di tutti. Con lui mi sento meglio an-
ch'io. Nella tasca del pastrano, ho trovato un pacchetto
di verdura essiccata; facciamo sciogliere la neve nella ga-
vetta e la mettiamo a bollire. Mangiamo assieme. - Che
naia, Marco! - Ma siamo abbastanza allegri noi due; e
parliamo di quando in Albania abbiamo vuotato una
bottiglia di doppio Kummel. Dopo mangiato Marco ri-
torna con i portaordini del comando di reggimento.
Come passano lente le ore; il freddo aumenta con
l'avvicinarsi della sera. Lassù non si è deciso ancora
niente e gli spari si fanno sempre più radi, anche le raffi-
che sembrano stanche. Il cielo è tutto verde-celeste, im-
mobile come il ghiaccio, gli alpini parlano poco e sotto-
voce fra di loro. Giuanin mi si avvicina, mi guarda da
sotto la coperta che si è tirato sulla testa, non dice niente
e torna via. Vorrei chiamarlo e gridargli: "Perché non
mi chiedi se arriveremo a baita? éfreddo e si fa sera, la
neve e il cielo sono uguali. A quest'ora nel mio paese le
vacche escono dalle stalle e vanno a bere nel buco fatto
nel ghiaccio delle pozze. Dalle stalle escono il vapore e
l'odore di letame e latte; i dorsi delle vacche fumano e i
camini fumano. Il sole fa tutto rosso: la neve, le nubi, le
montagne e i volti dei bambini che giocano con le slitte
sui mucchi di neve: mi vedo anch'io tra quei bambini. E
le case sono calde e le vecchie vicino alle stufe aggiusta-
no le calze dei ragazzi. Ma anche laggiù in quell'estremo
lembo della steppa c'era un angolo di caldo. La neve era
intatta, l'orizzonte viola, e gli alberi si alzavano verso il
cielo: betulle bianche e tenere e sotto queste un grup-
petto di isbe. Pareva che non ci fosse la guerra laggiù;
erano fuori del tempo e fuori del mondo, tutto era come
mille anni fa e come forse tra mille anni ancora. L’ ag-
giustavano gli aratri e le cinghie dei cavalli; i vecchi fu-
mavano, le donne filavano la canapa. Non ci poteva es-
sere la guerra sotto quel cielo viola e quelle betulle
bianche, in quelle isbe lontane nella steppa. Pensavo:
"Voglio anch'io andare in quel caldo, e poi si scioglierà
la neve, le betulle si faranno verdi e ascolterò la terra
germogliare. Andrò nella steppa con le vacche, e alla se-
ra, fumando macorka, ascolterò cantare le quaglie nel
campo di grano. D'autunno taglierò a fette le mele e le
pere per fare gli sciroppi e aggiusterò le cinghie dei ca-
valli e gli aratri e diventerò vecchio senza che mai ci sia
stata la guerra. Dimenticherò tutto e crederò di essere
sempre stato là". Guardavo in quel caldo e si faceva
sempre più sera.
Ma poi sentii un ufficiale che chiamava adunata e sor-
risi. - Adunata Vestone. - Cinquantacinque adunata! -
Si radunarono le compagnie, i plotoni, le squadre. Si ri-
tornava a fare la retroguardia. Era sera e non capivo do-
ve si andava. Vedevo attorno a me gente che camminava
e io andavo con loro. Dopo (quanto dopo?) ci fermam-
mo vicino a delle costruzioni basse e lunghe, isolate nel-
la steppa. L’ trovammo tre o quattro carri armati tede-
schi e un gruppo di artiglieria alpina. Le costruzioni
dovevano essere state o magazzini di qualche colcos o
stalle. Dentro faceva freddo e c'era odore di muli, e per
terra paglia mista a letame. Tra le fessure si vedevano le
stelle. Non so dove andarono le altre compagnie; noi ci
fermammo. Stabilii il turno di vedetta e misi fuori le sen-
tinelle del mio plotone. In una buca accesi il fuoco con
degli sterpi e nella neve liquefatta feci bollire una pa-
gnotta gelata. In tasca avevo anche un cartoccio di sale.
Era tanto freddo, freddo; il fuoco faceva più fumo
che fiamma e gli occhi mi bruciavano per il fumo, il
freddo, il sonno. Mi sentivo triste, infinitamente solo
senza capire la causa della mia tristezza. Forse era il gran
silenzio attorno, la neve, il cielo pieno di stelle che si
perdeva con la neve. Ma pure, anche in simili condizio-
ni, il corpo faceva il suo dovere: le gambe mi portavano
in cerca di sterpi, le mani mettevano gli sterpi sul fuoco
e frugavano nelle tasche per cercare il sale da mettere
nella gavetta. Anche il cervello faceva il suo dovere per-
ché, dopo, andai a fare un giro dalle vedette (- Come va,
sergentmagiù? - Va bene, va bene; muoviti per non ge-
lare) e andai a chiamare quelli che dovevano dare il cam-
bio. Era come se io fossi due e non uno e uno di questi
due stava a guardare cosa faceva l'altro e gli diceva cosa
dovesse fare e non fare. Lo strano era che uno esisteva
come esisteva l'altro, proprio fisicamente, come uno che
l'altro potesse toccare.
Andai a dormire in un capannone. Ma i posti migliori
erano occupati e così mi allungai dietro i muli, in prossi-
mità delle loro parti posteriori. Era tutto zeppo di arti-
glieri e di alpini e bisognava camminare sopra le loro
membra. Cercavo di fare piano, di camminare leggero
ma pure qualche volta mi capitava di mettere i piedi su
un arto assiderato e allora erano urli e bestemmie. Ogni
tanto dovevo uscire per dare il cambio e accertarmi del-
le vedette. Ero appena rientrato da uno di questi con-
trolli, quando un artigliere, camminando nel buio, mi
mise gli scarponi sul viso lasciandomi i segni dei chiodi
sulla pelle. Così gridai anch'io con tutta la mia voce.

Prima dell'alba vi fu adunata ancora una volta; ordine
di abbandonare tutto tranne le armi e le munizioni. I
miei compagni mi guardano e mostrandomi un fascio di
lettere mi chiedono: - Questo lo possiamo tenere? - So-
no tristi e pensierosi; nessuno butta via le munizioni. -
Forse si va, finalmente, - dico loro, - dovremo cammi-
nare molto e bisognerà essere leggeri -. Gli ufficiali di-
cono: - Fate presto, si parte.
Camminiamo spediti. Le stelle fanno presto a sparire
e il cielo ritorna come ieri. Una compagnia del nostro
battaglione manca all'adunata e non si sa dove sia. Più
tardi venni a sapere che questa compagnia restò tutta
prigioniera. Era sola di retroguardia e quella mattina
s'era attardata sulle posizioni. Dalla steppa avanzavano
colonne di uomini in cachi e gli ufficiali dicevano: - So-
no gli ungheresi che vengono a darci il cambio -. Ma
quando li ebbero addosso si accorsero che erano russi.
Così ci rimasero. Si salvò un ufficiale, qualche alpino, e
il capitano che ci raggiunse più tardi. Era ubriaco di co-
gnac e gridava: - La mia compagnia è tutta prigioniera,
siamo tutti circondati, è inutile combattere -. Ma era
ubriaco e nessuno gli badava.
Ora tocca a noi andare su a tentare di rompere l'ac-
cerchiamento. Dicono che stanotte gli ufficiali superiori
della nostra divisione abbiano tenuto consiglio deciden-
do di tentare la sorte sino all'ultima speranza.
Diventiamo tutti fiduciosi, allegri quasi, siamo convin-
ti che questa volta ce la faremo. Con Antonelli e Tourn
canto: "Maria Giuana l'era su l'us..." Qualcuno, passan-
do, ci guarda con compassione: ci credono pazzi. Ma noi
cantiamo più allegramente. Il tenente Cenci ride.
- Avanti il Vestone, - si sente gridare. Ecco, ora toc-
cherà a noi. Passiamo in testa a tutti. Gli artiglieri apro-
no le loro giberne e ci dànno i loro caricatori e le loro
bombe a mano. Ci guardano come noi guardavamo
quelli che andavano su ieri e cercano di farci coraggio.
Rido con Antonelli e diciamo: - Sparate giusto con il
75/13, a fil di penna. - State tranquilli paesani, - ci dico-
no, - state tranquilli.
Ecco, ora si dovrebbe essere sotto il tiro. Ma perché
non sparano i russi? Di tratto in tratto si vede sulla neve
un alpino disteso: sono i nostri compagni del Verona ri-
masti ieri con le scarpe al sole. Alle prime case sentiamo
qualche raffica di arma automatica, poi più nulla. Giria-
mo a destra e ci addentriamo in un bosco di querce. Si
sprofonda nella neve con tutta la gamba; nel bosco accen-
diamo un fuoco con delle cassette vuote di munizioni.
Hanno detto di aspettare qui. Ora i russi si sono attestati a
quell'altro villaggio laggiù che è come un'appendice di
questo primo; e di là bisogna passare perché, ci ripetono,
dopo c'è una bella strada da dove ci verranno incontro le
motorizzate tedesche. Qui a comandare il mio plotone
viene un tenente di Genova. Ma comandare non sa, alme-
no in queste situazioni, e mette lo scompiglio tra i miei
uomini. Tiene sempre una mano sulla fondina della pisto-
la e con l'altra gesticola; grida: - Dovete venire con me, io
vi porterò in Italia, a chi si allontana sparo -. E intanto
non si assicura che le armi funzionino e quante munizioni
abbiamo. Noi non diamo importanza né ai suoi gesti né
alle sue parole e io vado a far due chiacchiere con i fucilie-
ri. Attorno al fuoco stanno pulendo i mitragliatori. Faccio
portar là le due Breda che sono in grado di funzionare.
- Avanti il Vestone, - si sente ancora. In testa alla com-
pagnia vediamo il capitano; non so dov'è stato finora, lo
ritroviamo davanti a noi come una volta. Intanto, da dove
siamo partiti stamattina, è salita una lunga colonna di
gente. All'orlo del bosco sono appostate delle piccole Ka-
tiusce tedesche; guardo con curiosità quelle strane armi e
penso con raccapriccio al rumore che faranno sparando.
Gli ufficiali stanno studiando la manovra. Noi della cin-
quantacinque dovremo fare un lungo giro e prendere il
villaggio quasi alle spalle. Il Valchiese e i battaglioni del 5Á
manovreranno con noi; all'ultimo momento entreranno
in azione le Katiusce e i carri armati dei tedeschi. Le auto-
carrette e i camion vengono abbandonati sulla pista che
sale quassù. Passando vicino vediamo gli autisti che ren-
dono inservibili i motori e levano la benzina per darla ai
carri armati. Sulla neve sono sparsi pacchi di marchi nuo-
vi e dalle casse sfondate escono circolari, ruolini, registri,
ecc., e sono contento di vedere la fine di queste cose.
Da una autocarretta vedo scendere il tenente Moscio-
ni. Cammina zoppicando sulla neve, è pallido, stringe i
denti e viene avanti rigido e lungo. Lo chiamo e vado
verso di lui. Mi chiede subito del suo plotone e della
compagnia: - Ecco l’ il suo plotone, signor tenente, an-
diamo -. Tante cose avrei da chiedergli e lui a me. Ma ci
guardiamo felici di esserci ritrovati.
Camminiamo nella neve alta, si avanza a fatica. Por-
tando le armi si sprofonda ed è una pena tirar su la gam-
ba dalla neve e mandarla avanti per fare il passo. Siamo
tutti stanchi e mi diventa sempre più difficile far dare il
cambio ai portatori. Il tenente X... vuole imporsi, ha
sempre la pistola in mano, ma mi accorgo che non
l'ascoltano e non hanno fiducia in lui: grida troppo.
Anch'io porto il treppiede per il mio tratto. C'è tanto
sole, ora, e si suda. Siamo allo scoperto, e così sulla neve
si è proprio un bel bersaglio. Cammino con l'animo so-
speso pensando: "Se sparassero con i mortai? Per le loro
armi automatiche siamo ancora troppo lontani". Mi ac-
corgo che non tutti gli uomini del plotone mi seguono,
anche i miei amici se ne accorgono e mi chiedono: -
Perché non vengono con noi? - Stiamo uniti, animo, ce
la faremo, - dico, - siamo del peso noi -. Antonelli in-
veisce sempre più, sprofondando sotto il peso dell'arma.
é in gamba veramente; bestemmia e impreca ma va sem-
pre avanti e l'arma della sua squadra se la porta quasi
sempre lui. Il tenente, che non vuole sentire bestemmia-
re, rimprovera Antonelli. Antonelli bestemmia più forte
e lo manda al diavolo. Come ho vivo questo ricordo!
Gli altri plotoni continuano a camminare in ordine
sparso alla nostra destra; noi dobbiamo proteggere la
sinistra della compagnia, i russi potrebbero capitare da
qui. Il capitano è in testa a tutti e ci grida di camminare
più in fretta. Sento le voci di Pendoli, di Cenci, di Mo-
scioni che incitano i loro plotoni. D'un tratto, sotto la
crosta di terra che mi copre il viso, sento d'impallidire;
ho sentito alcuni colpi di partenza. Ecco il sibilo: mor-
tai. Le bombe passano sopra di noi e vanno a scoppiare
cinquanta metri più giù dove non c'è nessuno. - Avanti,
presto, avanti, - dico. Ma come si fa? - Avanti, laggiù
c'è una balca dove ci si può defilare. Avanti presto -.
Tutti vogliono stringersi intorno a me. - Sparpagliatevi,
- grido. - A sinistra -. Ecco un rombo lungo, ossessio-
nante; lo conosco bene ma non sembra così furioso co-
me allora. Alzo la testa e come vedo che le scie delle
bombe a razzo vanno in direzione dei russi mi rallegro.
- Sono per loro! - grido, - sono i tedeschi che sparano
-. Dove cadono i colpi vediamo delle isbe che si incen-
diano e subito i mortai russi cessano di sparare su noi.
Alle prime case del villaggio si ode una nutrita sparato-
ria; l’ c'è il Valchiese, noi siamo più avanti di loro e
dobbiamo fare un lungo giro. Il tenente, intanto, conti-
nua a gridare impugnando la pistola. Vede russi dap-
pertutto, scambia per russi anche i plotoni della nostra
compagnia e vuole piazzare le armi ogni cento metri
puntandole in direzioni fantastiche. Era pazzo, credo, o
sulla via di diventarlo.
Nel frattempo, a causa della confusione creata dal te-
nente, e del tempo che si perdeva a cambiare i portatori,
i rimanenti plotoni della nostra compagnia ci avevano
distaccati di un bel po'. Il capitano ci urlava da lontano:
- Fate presto -. E se la prendeva con me. Ed era giusto
che bisognava fare presto, perché in caso di attacco noi
si restava tagliati fuori né potevamo appoggiare i fucilie-
ri con le pesanti. Accelero. Sudiamo e imprechiamo ma
giungiamo in una balca ove si può tirare il fiato. Risalia-
mo; ora siamo vicini al paese e si sta per completare la
manovra. Vedo una massa scura sulla neve e mi avvici-
no. è un alpino dell'Edolo, ha la nappina verde. Sembra
placidamente addormentato, all'ultimo momento avrà
visto i pascoli verdi della Val Camonica e sentiti i cam-
panacci delle vacche.
Nel paese, tra isba e isba, passano delle slitte veloci e
sento esplosioni di bombe a mano. - Guardate, - grido,
- scappano -. Ancora un poco, avanti. Il giro è compiu-
to, siamo arrivati alle ultime isbe del paese. Bisogna sta-
re attenti perché sparano anche da pochi metri. Ma
invece no; per non restare accerchiati, all’ultimo mo-
mento se ne sono andati e hanno fatto pochissima re-
sistenza. Sopra il paese grava una nube di fumo nero e
puzzolente, delle isbe bruciano, vicino a queste vi sono
dei cadaveri: donne, bambini, uomini. Si sentono la-
menti e pianti. Un senso di raccapriccio mi invade e
cerco di guardare altrove. Ma l’ è come una calamita e il
mio sguardo vi ritorna.
Ci fermiamo a bere vicino ad un pozzo e caliamo giù
le gavette con il lungo palo a bilanciere. Qui sostiamo
un po’.
Il colonnello Signorini ci passa accanto, sul volto one-
sto ha un sorriso di soddisfazione; la manovra è riuscita
come in piazza d'armi e ci dice: - Bravi ragazzi -. Simul-
taneamente tutti sono presi da un sollievo, da un'allegria
grande. é finita ora! Ancora pochi chilometri e saremo
fuori dalla sacca. Davanti a noi si apre una strada larga e
battuta. Il tenente del mio plotone dice: - Avete visto
cosa ci voleva? Siamo in Italia ormai. Ve l'avevo detto di
venire con me.
Ci raggiungono anche gli uomini del mio plotone che
si erano allontanati al principio dell'azione. Li rimprove-
ro; Antonelli non li guarda nemmeno. A ogni modo li
carico ora delle armi. Il maggiore Bracchi è giulivo e fie-
ro, si dà attorno per riorganizzare le compagnie del suo
Vestone: - Sotto s'cet, forza s'cet! A Pasqua saremo a
casa per mangiare il capretto.
Intanto la testa della colonna ci raggiunge, la fine si
perde nella steppa. Veniamo a sapere che dove eravamo
stamattina sono arrivati i carri russi. - Hanno fatto stra-
ge, - ci dicono. La divisione ungherese è rimasta quasi
tutta prigioniera assieme a quelli che non avevano abba-
stanza coraggio o forza per venire con noi. Ma ora tutti
corrono avanti creando confusione. In testa, però, ci
vuole della gente armata e si sente gridare: - Avanti la
Tridentina -. Bracchi grida: - Vestù! Avanti.
Il sole è basso, le nostre ombre si allungano sulla ne-
ve. Attorno vi è una distesa immensa, senza case, senza
alberi, senza il segno di un uomo, solo noi e la colonna
dietro di noi che si sperde in lontananza dove il cielo si
unisce alla steppa.
Camminiamo. Guardando in giro mi accorgo che sul-
la nostra via, un poco fuori mano, vi sono dei cavalli
sbandati. Riesco a prenderli. Sul più forte proviamo a
caricare le due Breda e le munizioni. Ma il capitano non
vuole. Dice che le armi bisogna averle sempre pronte. E
così ci tiriamo dietro i cavalli e le armi in spalla. Dopo
un po' un cavallo se lo prende il capitano e vi monta so-
pra. é molto stanco e ha la febbre. Un cavallo se lo
prende Cenci per il suo plotone. Su quello che mi resta
carico gli zaini dei portatori.
Ora non c'è più il sole e si cammina ancora. Muti, con
le teste basse, camminiamo barcolloni, cercando di met-
tere i piedi sulle peste del compagno che sta davanti.
Perché camminiamo così? Per cadere sulla neve un po'
più avanti e non alzarci più.
Alt. Il compagno davanti si è fermato e tutti ci fermia-
mo. Ci buttiamo sulla neve. Ufficiali superiori italiani e
tedeschi su un automezzo cingolato, vicino a noi, con-
sultano carte e bussole. Le ore passano, viene la notte e
non ci si muove ancora. Forse aspettano una comunica-
zione radio. Stando fermi si sente il freddo più che sem-
pre, e tutto attorno è buio: la steppa e il cielo. Erbe sec-
che e dure escono dalla neve. Fanno nel vento uno
strano rumore ch'è il solo che si senta. Nessuno di noi
parla. Sediamo sulla neve con la coperta sulle spalle uno
vicino all'altro. Siamo ghiaccio dentro e fuori, eppure
siamo ancora vivi. Levo dallo zaino la scatoletta di carne
di riserva. L'apro, ma mi sembra di masticare ghiaccio,
non ha nessun gusto e non vuole andarmi giù; riesco a
mangiarne metà e il resto lo ripongo nello zaino. Mi al-
zo, batto i piedi, mi avvicino al tenente Moscioni. Viene
anche Cenci e assieme fumiamo una sigaretta. Non ci di-
ciamo che poche parole, sembra che ci si siano gelate
anche le corde vocali. Ma restare in piedi così, fumando,
ci dà un po' di conforto. Non pensiamo a nulla, fumia-
mo e tutto è silenzio. Non si sente nemmeno Antonelli
bestemmiare.
- In piedi! In piedi! - si sente infine gridare da qual-
cuno. Si riparte. é difficile, molto difficile muovere i pri-
mi passi; le gambe dolgono, le spalle dolgono, le mem-
bra intorpidite dal freddo sembrano non obbedire.
Qualcuno torna a cadere nella neve appena s'è alzato.
Ma un po' alla volta, piano, piano, le gambe tornano a
portare avanti il corpo.
Di nuovo, dunque, si camminava; squadra per squa-
dra, plotone per plotone. Il sonno, la fame, il freddo, la
stanchezza, il peso delle armi erano niente e tutto. L'im-
portante era solo camminare. Ed era sempre notte, era
neve e solo neve, erano stelle e solo stelle. Guardando le
stelle mi accorsi che si cambiava direzione. Ma dove an-
diamo ora? E sentii che si ritornava a sprofondar nella
neve. Dalla sommità di una mugila vediamo in lontanan-
za dei lumi; si vedono anche delle case: un villaggio! An-
tonelli ritorna a bestemmiare e il tenente a rimproverar-
lo e lui a rimandarlo nei bassifondi di Verona. E Bodei
mi chiede: - Sergentmagiù, ci fermeremo là? - Sì, ci fer-
meremo, - rispondo forte. Ma che ne posso io sapere,
penso, se l’ ci fermeremo; o se ci passeremo o se ci sono
i russi? - Ci fermeremo, - dico forte per loro e per me. Il
maggiore Bracchi passa vicino a noi: - Rigoni, - mi dice,
ma in maniera da farsi sentire da tutti. - Là troveremo
un'isba calda, Rigoni.
Nel paese però potrebbero esserci i russi e così ci pre-
pariamo per l'attacco. La mia compagnia è di punta e il
capitano dà le disposizioni. A plotoni aperti scendiamo
lentamente la mugila, ogni tanto mi guardo attorno per
vedere se gli uomini mi seguono. Tre panzer tedeschi
vengono con noi. Accovacciati sopra vi sono i soldati te-
deschi vestiti di bianco. Immobili impugnano le pistole
mitragliatrici, fumano in silenzio e ci guardano. La co-
lonna si è fermata in alto a vedere che cosa succede.
Improvvisamente, dalla nostra destra, entra velocissi-
ma un'autoblinda nera. Passa davanti a noi come un
fantasma, sfiora un panzer tedesco e allora gli uomini
del panzer si accorgono che è russa. Ma come è apparsa,
così scompare, e nel cielo si vedono i segni luminosi del-
le pallottole traccianti che la inseguono invano. Tutto è
successo in un tempo così breve da rimanere stupiti e in-
creduli. Ma riprendiamo a camminare in direzione del
paese. Al suo ingresso vi sono due pagliai che bruciano e
due camion che pure bruciano. Questi sono carichi di
munizioni che scoppiano e mandano attorno fiamme,
scintille e schegge come un fuoco d'artificio. Passando
vicino sentiamo il calore e ci si vorrebbe fermare l’ a go-
dere quel caldo di paglia, di camion e di munizioni che
bruciano nella notte.
Attraversiamo un fiume gelato profondamente incas-
sato tra due rive ripide. Dall'altra parte ci fermiamo ad
aspettare i panzer tedeschi. Da un buco fatto nel ghiac-
cio, forse dalle donne per prender acqua o dai vecchi
per pescare, tiriamo su, con le gavette, acqua per bere.
Beviamo quell'acqua fredda e aspettiamo che passino i
carri armati battendo i piedi sul ghiaccio.
Ma come faranno a passare di qua i panzer? Risalia-
mo la scarpata e qualcuno entra nelle prime isbe del vil-
laggio. Ma c'è nervosismo in noi; l'autoblinda di poco
prima, i camion incendiati, un silenzio strano. Parliamo
sottovoce pensando che i russi non dovrebbero essere
lontani. Faccio postare le armi sull'orlo superiore della
scarpata. Intanto la colonna si è mossa, scendono lenta-
mente verso di noi come un delta di fiume. Vediamo le
strisce nere che si muovono sulla neve più chiara. Un
po' più a monte di noi c'è un ponte di legno e i carri ar-
mati provano a passare uno alla volta. Ma sono pesanti i
panzer e il ponte di legno è piccolo. Ce la farà a soste-
nerli? Tutta la nostra attenzione è l’ sulle assi del ponte.
Il primo passa lentamente. Il ponte traballa tutto e scric-
chiola. Ora anche gli altri tentano di passare. Due solda-
ti tedeschi sotto il ponte, uno da una parte e uno dall'al-
tra, osservano le travature e ogni tanto gridano qualcosa.
Uno alla volta i panzer passano tutti.
I primi della colonna sono già arrivati alle isbe del
paese. I camini fumano. Staranno bollendo le patate,
qualcuno dormirà già e noi siamo sempre qui con le ar-
mi piazzate. Penso che sarebbe meglio andarcene anche
noi al caldo con loro. Chi è che ci fa stare qui al freddo
con le armi piazzate? Perché lo facciamo? Il maggiore
Bracchi è andato via con un ufficiale tedesco, e i nostri
ufficiali ci hanno detto di restare qui. Finalmente qual-
cuno viene a dirci che possiamo anche noi entrare in
paese. Ma poi ci faranno ancora aspettare sulla strada
davanti a un grande edificio in mattoni rossi. Poi entria-
mo. Ci stipiamo nelle stanze. Alcuni hanno trovato an-
che della paglia, si sono sdraiati e dormono. Tardivel e
Artico, i caporalmaggiori del secondo plotone fucilieri,
hanno acceso il fuoco in un angolo della stanza e fanno
bollire galletta e scatoletta. Il locale è pieno di fumo, ma
è vasto e freddo; siamo dentro in due plotoni. Nella ta-
sca del pastrano ho ancora del caffè in chicchi e lo pesto
nell'elmetto con il manico della baionetta. Non ho nien-
te da mangiare. Nella cacciatora trovo alcune tavolette
di meta, le accendo e con l'acqua della borraccia riempi-
ta al fiume tento di farmi un po' di caffè. Ma l'acqua non
vuol saperne di bollire, il meta fa poco calore. Ho son-
no, molto sonno, sento che i miei compagni già russano
e io sono intestardito a voler fare il caffè e l'acqua non
bolle. I fuochi sono spenti e tutti dormono, dalle fine-
stre senza vetri entra il gelo della notte, gli alpini sono
uno addosso all'altro per riscaldarsi. Fucili ed elmetti
sono allineati attorno alle pareti. Qualcuno nel sonno si
lamenta e uno in un angolo, solo e triste, si osserva un
piede; poi lentamente se lo sfrega e lo fascia con un pez-
zo di coperta; si è acceso vicino un mozzicone di cande-
la, l'ha incollato al coperchio della gavetta. L'acqua non
bolle ancora e allora butto dentro il caffè pestato e bevo
tutto. Mi sdraio, i piedi sono come due pezzi di sasso
bianco ma non voglio levarmi le scarpe. Mi rannicchio,
vorrei farmi entrare le gambe nel ventre e le braccia nel
petto. Ma con questo freddo non si può dormire.
- Allarmi! Allarmi! - Sento il capitano che mi chia-
ma: - Rigoni! Scendi immediatamente con le armi. Adu-
nata, - grida e bestemmia. Io salto in piedi, non ho an-
cora dormito un minuto, e grido: - Sveglia! Sveglia, fate
presto e calma -. Succede un trambusto generale, chi si
era levate le scarpe non è più capace di rimetterle per-
ché i piedi si sono gonfiati e le scarpe sono dure come il
legno. Chi cerca il fucile e chi l'elmetto, qualche altro ha
un sonno pesantissimo e lo sveglio a scossoni.
Per le scale e i corridoi vi è una confusione peggiore.
Vi sono gli artiglieri del Valcamonica; si passa a fatica
non senza inciampare in qualcuno che non si può alzare
e si lamenta. Fuori, davanti all'edificio, ci raduniamo.
Molti uomini mancano né si capisce dove siano; mi
manca anche un'arma, ma è quella che non funziona. Il
capitano entra nell'edificio e nello stanzone trova l'arma
che manca. Quando scende se la prende con me. - Capi-
tano, - dico, - l'ho lasciata l’ io perché non funziona. é
tutta scassata e portarla è un peso inutile. Guardate in
che condizioni siamo. Abbiamo anche poche munizioni
-. Ma queste ragioni il capitano non le intende e risalgo
io stesso a prenderla.
I plotoni di Moscioni, Cenci, Pendoli sono già spariti,
inghiottiti nel buio, in direzioni diverse. Con il tenente
che fa il bravaccio andiamo con le tre pesanti verso le ul-
time isbe a sinistra del paese. Faccio star sotto gli alpini
del mio plotone e come un cane da pastore vado avanti e
indietro: - Sotto Bodei, forza Tourn, cammina Bosio;
venite avanti con le cassette di munizioni -. E così arri-
viamo nel luogo assegnatoci dal capitano. Chissà che co-
sa è successo, forse ci stanno venendo addosso i russi.
Non riesco a rendermi conto della situazione. Ogni tan-
to sentiamo degli spari alla nostra destra. Postiamo le ar-
mi, pronte per far fuoco; una all'angolo di un'isba e l'al-
tra davanti a un piccolo cocuzzolo. Faccio puntare in
due direzioni differenti, così a istinto, verso la steppa. é
notte fonda, forse le due del mattino, il cielo si copre
lentamente e la luna che sta tramontando alle nostre
spalle, tra uno squarcio e l'altro delle nubi, illumina la
steppa davanti a noi. Quando esce dico ai miei compa-
gni di mettersi nell'ombra.
Il tenente entra nell'isba più vicina. Sono povere isbe,
più povere delle solite, piccole e fredde anche a guar-
darle. Ma il tenente esce subito impugnando la pistola.
Mi grida di correre da lui. Vado ed entro con una bom-
ba in mano. Vi sono due donne e dei bambini e vuole
che li leghi. Penso che il tenente stia proprio perdendo
la ragione. Le donne e i bambini hanno capito e mi
guardano con occhi terrorizzati. Piangendo si rivolgono
a me parlando in russo. Che voce avevano le donne e i
bambini! Sembrava il dolore di tutta l'umanità e la spe-
ranza. E la rivolta contro tutto il male. Prendo per un
braccio il tenente ed usciamo. Il tenente, sempre impu-
gnando la pistola, entra in un’altra isba. Lo seguo.
Qui trovo dei soldati sbandati della divisione Vicenza.
Stanno rannicchiati sotto il tavolo, disarmati, semiasside-
rati, e pieni di paura. Su un letto di ferro c'è un vecchio.
Il tenente mi grida: - é un partigiano, ammazzalo! - Il
povero vecchio mi guarda sospirando e tremando tutto
da far ballare il letto. - Legalo, se non vuoi ammazzarlo,
- mi grida ancora il tenente. Antonelli è entrato nell'isba
e ha visto tutto. Il tenente mi indica in un angolo un pez-
zo di corda. é proprio pazzo. Mi chino lentamente a
prendere la corda; Antonelli leva le coperte al vecchio e
mi avvicino. Il vecchio! Il vecchio è un povero paralitico
e getto via la corda e dico al tenente: - Che partigiano, e
partigiano. é un paralitico! - Il tenente esce dall'isba, si
vede che ha ancora un briciolo di ragione. Sotto il tavolo
vi sono sempre quei poveri diavoli della Vicenza pieni di
paura e io li invito a venire con noi. - Non m'affido; non
m’affido, - dicono. E rimangono. Esco con Antonelli e
lasciamo in pace quella povera gente.
Sotto, dove è appostata un'arma, proprio sotto terra
sento dei bisbigli. C'è una botola. é uno di quei buchi in
cui i russi ripongono le provviste per l'inverno: una spe-
cie di cantina vicino all'isba. Tiro su la botola. Vediamo
giù un lume acceso e donne e bambini stretti l’ sotto.
Salgono la scaletta ed escono fuori uno alla volta con le
mani alzate. Mi viene da sorridere ma i bambini piango-
no. Ma quanti sono? Non finiscono mai. Antonelli ride
e dice: - C'è un formicaio là sotto -. Mando tutta quella
gente nelle isbe e ci vanno contenti e di corsa. Fortuna
per loro che il tenente non si è accorto di niente. Dopo
un po' un ragazzino ci porta delle patate calde bollite.
Due bombe di artiglieria passano sibilando sopra di
noi e scoppiano all'altra estremità del paese. Mi accorgo
che due colonne nella steppa stanno venendo verso di
noi. Russi o nostri sbandati? Sono ancora lontani ed è
notte. Ogni tanto la luna esce ad illuminare la steppa ma
ora s'è fatto quasi completamente buio. Il tenente è ri-
tornato. Si è accorto anche lui della gente che sta venen-
do verso di noi. Forse è ritornato per questo. - Sparate!
- dice. - Sparate! Avanti, sparate. - No, - dico io, - non
sparate; state calmi, non fate rumore.
Le armi erano piazzate, il tenente diceva: - Sparate,
sparate vi dico -. E io: - No. Bisogna aspettare che siano
più vicini, abbiamo poche munizioni e poi potrebbero
anche essere italiani o tedeschi -.
I pochi uomini che mi sono rimasti dei cinquanta del
plotone hanno ancora fiducia in me, e non sparano. - é
matto il tenente, - dice Antonelli. - é matto, - dice qual-
cun altro. - Perché sparare? non c'è nessuna necessità.
Sparano per il paese. Che succede ora? Pallottole
sperdute passano miagolando fra gli orti e le isbe; ma il
nostro angolo è tranquillo.
Ramazzini, un portaordini in gamba di Collio Valtrom-
pia, viene di corsa e mi dice trafelato: - Presto Rigoni, fa'
presto, bisogna che tu ti riunisca con la compagnia.
Come ombre smontiamo le armi e ce le carichiamo in
spalla con le munizioni e, in fila, senza dire una parola, ri-
torniamo presso l'edificio in mattoni. Non troviamo nes-
suno dei nostri. La compagnia è partita senza aspettarci.
Il paese è tutto in trambusto. Slitte che si incrociano,
ufficiali che gridano, gente che va in ogni direzione. Infi-
ne la colonna si forma. Camminiamo in fretta ai lati del-
la pista per portarci avanti e raggiungere la compagnia.
Ma è più faticoso perché dobbiamo batterci la strada
nella neve fresca. Bombe scoppiano davanti e dietro a
noi, qualche volta colpiscono in pieno la colonna. Ma è
tutto così apatico e freddo. Si bada ai colpi di artiglieria
come ai morsi dei pidocchi.
Viene l'alba livida e grigia, incomincia a nevicare.
Guardo indietro, siamo rimasti in pochi, forse dieci; ma
le armi le abbiamo sempre con noi, manca qualche cas-
setta di munizioni. Nemmeno il tenente c'è, chissà dove
sarà rimasto. Camminiamo ancora ai lati della colonna
fiancheggiando un bosco di abeti; siamo tutti bianchi di
neve come gli abeti. Un tedesco, aviatore dalla divisa,
cammina lentamente davanti a noi, ha i piedi fasciati di
stracci, lo sorpassiamo. Sorpassiamo qualche slitta di te-
deschi e ungheresi.
Ora si sono fermati tutti perché in testa alla colonna
sparano. Noi continuiamo a camminare. Troviamo gli
artiglieri alpini, qui siamo tra i nostri, avanti ancora. Fi-
nalmente raggiungiamo la nostra compagnia. Il capitano
ci vede arrivare e non dice niente. Stiamo fermi; in testa
c'è il Valchiese. Si sentono sparare le nostre pesanti e il
gruppo Bergamo mette in batteria i pezzi. Bisogna con-
quistare un altro paese per passare. Ma sparano poco. Si
riprende a camminare lentamente e così, ora, ci sembra
di riposare. Veniamo raggiunti anche da qualche altro
alpino del nostro plotone. Qua e là sulla neve si vedono
dei bossoli vuoti, macchie nere di scoppi, solchi di cin-
goli dei panzer.
Il paese è rivolto a levante, dietro una mugila. Scende
verso il fondo di una balca ed è circondato da alberi da
frutto. Si sentono abbaiare i cani nell'aria chiusa dalla
neve. Il maggiore passa tra noi e dice: - Qui riposeremo;
andate nelle isbe, mangiate e dormite; forse si ripartirà
domattina -. A noi non sembra vero poter riposare tutta
una notte. Al caldo tutta la notte!
Scelgo una bella isba verso il centro del paese. Entria-
mo e mettiamo vicino al fuoco le armi incrostate di neve
e ghiaccio. Andiamo in un'altra isba a prendere tre galli-
ne (penso che non è giusto prenderle dove siamo ospita-
ti, altri poi verranno a prenderle qui). Siccome il paese è
in pendenza e noi siamo in un punto dominante vedia-
mo dall'alto l'affaccendarsi della gente che sta arrivan-
do. Alpini della mia compagnia inseguono un maiale
che corre a zig zag sulla neve come un pipistrello; gli
sparano anche col fucile.
Infine lo prendono e lo finiscono. Corrono, gridano e
ridono; pare un giorno di sagra per loro.
Rientriamo nell'isba a spennare le galline tra le grida
di gioia della padrona di casa. Mettiamo l'acqua a bolli-
re; chi porta paglia per il giaciglio, e chi legna.
Infine ci sediamo sulle panche attorno al fuoco. é
bello vedere il fuoco; stiamo bene, siamo contenti e non
pensiamo a nulla. Ma nemmeno qui si può stare tran-
quilli. é entrato il capitano. - Rigoni, che cosa fai qui? -
mi dice, e si è rotto l'incanto. Guarda le galline, il fuoco,
la paglia, la legna. - Che cosa fate qui? - ripete. Entrano
anche attendenti, furieri e portaordini. - Rigoni, vai con
gli uomini e le armi laggiù in quell'isba -. E il capitano
me la indica, attraverso la porta aperta e la neve che ca-
de, giù in fondo alla balca. - Devi andare laggiù e piaz-
zare le armi in quella direzione, - e me la segna con la
mano. Dice: - Vi può essere un attacco da un momento
all'altro; di partigiani o di soldati. Piazzate le armi e da-
tevi il turno per riposare e riscaldarvi -. Si tiene per sé
l'isba calda con il focolare e la paglia e non ci lascia
prendere nemmeno le galline. Antonelli bestemmia e
anche gli altri imprecano ma come sempre mi seguono.
Questo è peggio che andare all'attacco. Scendiamo ver-
so il fondo del paese. L'isba è vuota e fredda. Postiamo
le armi e cerchiamo di sistemarci alla meno peggio. Ac-
cendiamo il fuoco. Ma nevica e le armi s'incrostano su-
bito di ghiaccio. Così finirà che non potranno sparare e
una la porto dentro, e l'altra la piazzo nel vano tra la
porta interna e la porta esterna dell'isba, con la canna ri-
volta verso la steppa.
Poi il capitano ci manda giù due galline, e le cucinia-
mo nelle gavette. Ci lasceranno tranquilli, adesso. Mi
fermo sulla porta a guardar nevicare e sento rumore di
motori nell'aria. Sono aeroplani. Volano bassi ma nella
neve non si distingue se sono nostri o russi. Il rumore
giunge ovattato. Vedo bene però che se ne staccano del-
le cose oscure e poi che si aprono dei paracadute. Corro
ad avvertire il capitano. Penso che siano dei paracaduti-
sti russi. Sono in molti e scendono lentamente sulla mu-
gila di fronte a noi, al di là dei frutteti. Il capitano guar-
da e non sa cosa dire. Subito, però, veniamo a sapere
che non si tratta di paracadutisti russi ma di munizioni,
medicinali, benzina lanciati dai tedeschi.
Ritorno al mio plotone, le due galline sono cotte e le
dividiamo in quindici. Ma nemmeno adesso possiamo
stare in pace: si è fermata qui davanti una slitta carica di
feriti del gruppo Bergamo. Un capitano mi chiede ospi-
talità. - Le altre isbe sono tutte occupate, - dice, - la-
sciateci entrare. Siamo feriti -. Intanto è giunta un'altra
slitta di feriti e così lasciamo a loro il posto e il brodo
delle galline.
Proviamo a sistemarci in una piccola stalla l’ vicino,
ma è aperta ai quattro venti. Il capitano ci manda a dire
che poco lontano da noi, a protezione del paese, si è ap-
postato un altro plotone di un'altra compagnia e che noi
possiamo ritirarci. Ma dove possiamo andare ora a passa-
re la notte? é già quasi buio. Bussiamo a delle isbe: sono
tutte occupate. Finalmente riusciamo a trovare i nostri
fucilieri. Ci dànno ospitalità. Ma non ci stiamo tutti: sul
tavolo, sotto il tavolo, sulle panche, sotto le panche, so-
pra il forno, per terra. Mi devo accontentare di restare in
piedi vicino al forno. Ma fuori c'è la tormenta ora, e qui
fa caldo. Anche troppo caldo L'isba è satura di vapore,
di fumo, di odori. Tardivel mi chiede se ho mangiato.
Hanno ammazzato una pecora, e mi dà fegato cucinato
con la cipolla nel grasso della pecora. é incredibile quan-
to sia buono il fegato e che buon compagno sia Tardivel
che ha fatto tre anni di Africa e otto di naia alpina.
Cenci, che è con il suo plotone in un'isba di fronte a
questa, mi manda a dire che se qui siamo troppo stretti
qualcuno può andare da lui. Andiamo in quattro.
Mi allungo sotto il tavolo, distendo le gambe e mi
sembra che in nessun altro posto del mondo si possa
star bene come qui. Il lume a olio si affievolisce sempre
più; Cenci parla sottovoce con un alpino, si sente fru-
sciar la paglia, il fuoco nel forno e il russare calmo dei
primi addormentati. E io penso a una luna grande che
illumina il lago, a una strada tutta fiancheggiata da giar-
dini odorosi, a una voce calda, a un riso tintinnante e al
rumore delle onde sulla riva. é meglio che allora, fuori
c'è la tormenta e mi addormento.
Battono. Battono alla porta. Non in modo brusco, in
maniera civile, da città; ma insistentemente. Qualcuno si
sveglia e brontola. Il tenente Cenci dice: - Chi sarà? -
Battono e si sente la tormenta. Mi alzo al buio e vado ad
aprire. Un soldato italiano, a testa scoperta e senza pa-
strano, mi guarda tranquillamente. Calmo mi dice: -
Buona sera, ingegnere. é in casa suo padre? - Lo guar-
do fisso. - Buona sera, - dico. - Volete entrare? - E lui:
- é in casa suo padre, ingegnere? - Sì, - dico; - ma dor-
me. Che volete? - Sono venuto per gli articoli, - rispon-
de, - raccomando a lei la pubblicazione. Ma ritornerò
più tardi quando suo padre sarà alzato. Arrivederci. Ri-
tornerò più tardi -. E così si allontana tranquillamente a
capo chino, le mani dietro la schiena, e sparisce nella
tormenta e nella notte. Quando rientro Cenci dice: -
Chi era? - Uno che cercava mio padre, aveva degli arti-
coli da pubblicare, ritornerò più tardi, ingegnere, buona
sera -. Cenci mi guarda in silenzio e mi osserva finché io
ritorno a sdraiarmi sotto la tavola.
Ci svegliamo di soprassalto: una pallottola è entrata
schiantando i vetri della finestra piantandosi nella pare-
te di fronte sopra la mia testa. - Allarmi! Allarmi! - si
sente gridare. - I partigiani! - Usciamo con precauzio-
ne. Ombre corrono di qua e di là; le pallottole passano
per l'aria come vespe. Mi metto sotto una siepe vicino
all'isba e aspetto di vedere cosa succede. Da breve di-
stanza una vampata nella mia direzione. Sento la pallot-
tola passarmi sopra. Balzo da un lato, sparo in direzione
della vampata e faccio un salto. Silenzio. Poi sento par-
lare: sono italiani. Per fortuna non ho colpito nessuno.
Li chiamo, mi rispondono e vanno via. Non si capisce
cosa stia succedendo, sto li fermo e solo. Dall'altra par-
te della balca scendono persone gridando: - Taliani
non sparare. Deutschen Soldaten! Non sparare. Cama-
rad! - Sono tedeschi ch'erano stati presi per partigiani.
Ma può anche darsi che ci siano stati realmente dei par-
tigiani. Rientriamo nelle isbe, dormiamo ancora un'ora
e viene l'alba.

Da quell'alba non ricordo più in che ordine i fatti si
siano susseguiti. Ricordo solo i singoli episodi, il viso dei
miei compagni, il freddo che faceva. Certe cose chiare e
limpide. Altre come un incubo. Cadenzate dalla voce di
Bracchi che ci rincuorava: - Forza s'cet! - O che ci dava
gli ordini: - Avanti il Vestone! Avanti il gruppo Berga-
mo! Avanti il Morbegno!
é mattina, la colonna si divide in due. Il Vestone è di
punta nella colonna di sinistra. In testa la mia compa-
gnia. C'è un bel sole e non fa freddo. Da una pista vedia-
mo venire verso di noi degli automezzi, a una certa di-
stanza si fermano. Gli ufficiali guardano con i binocoli:
sono russi. Arrivano subito dei cannoni anticarro tede-
schi, in fretta li mettono in posizione e sparano qualche
colpo. Gli automezzi spariscono nella steppa come sono
venuti. Poco dopo, forse mezz'ora, nell'affiorare
all'estremità di una mugila, siamo accolti da una nutrita
sparatoria di armi automatiche. Stando laggiù in quel
paese i russi vedranno spuntare solo le nostre teste e
sparano. Le pallottole passano alte. Ritorniamo indietro
di qualche decina di metri e aspettiamo. Arrivano le al-
tre compagnie del Valchiese e l'automezzo cingolato te-
desco con su gli ufficiali superiori. Ora bisognerà con-
quistare questo paese per poter passare.
Risaliamo la mugila e scendiamo per l'altro versante
verso il paese. Alla nostra destra il Valchiese. Alla sini-
stra le altre compagnie del Vestone.
I russi riprendono a sparare. Tourn, che cammina
qualche passo dietro a me, viene ferito a una mano. Mi
grida: - Sono ferito! - E agitando la mano che cola san-
gue sulla neve, ritorna indietro. Grido di sparpagliarci.
Sparano forte i russi. Ci stendiamo sulla neve così allo
scoperto e poi riprendiamo a scendere. Dietro a un pa-
gliaio, un po' più a destra di noi, si è fermato il capitano
con gli esploratori. Li raggiungo con quelli che mi se-
guono. Sparano tremendamente forte in direzione del
pagliaio e quando riusciamo a raggiungerlo tiriamo un
sospiro di sollievo. Riparati là dietro proviamo il funzio-
namento della pesante. Smontiamo, puliamo, facciamo
azionare energicamente la massa battente col carrello di
armamento e controlliamo la valvola di recupero gas. Le
pallottole continuano a passare ai lati del pagliaio e un
portaordini, Ramazzini, che viene mandato da Moscioni
con un biglietto del capitano, si accascia gemendo su se
stesso appena è allo scoperto. Due suoi compagni di
squadra e compaesani escono a prenderlo. Lo riportano
al sicuro sempre fra le pallottole che sibilano. é stato
colpito all'addome e ora geme sulla neve vicino a noi.
Sentiamo dei colpi di partenza e poi vediamo gli
scoppi tra le isbe del paese: sono i nostri 75/13 e non ci
sembra più d'essere soli. Ora la pesante funziona e mi
porto con Antonelli davanti al pagliaio. C'è una specie
di bassa trincea di neve, mettiamo l'arma in postazione e
ritorniamo dietro il pagliaio a prendere le munizioni.
Tutto il paese è l’ davanti a noi, ora. Siamo l'arma, Anto-
nelli e io. Gli altri sono dietro il pagliaio, o più su, im-
mobili nella neve. Spariamo a delle slitte che passano ve-
loci tra uno steccato e l'altro e a un gruppo di soldati
russi che stanno entrando in un'isba. Vediamo la loro
sorpresa. Ma ora ci hanno visto e sparano anche loro. I
nostri compagni riprendono ad avanzare. Quelli del
Valchiese, lassù a destra, sono alla nostra altezza, cam-
minano a fatica nella neve alta e i russi sparano. Sentia-
mo le raffiche. Alpini si trascinano lentamente indietro e
altri si sostengono a vicenda. Mi porto con l'arma più
avanti e più a sinistra per dominare meglio il paese. Ri-
prendiamo a sparare. L'arma non inceppa un colpo, tut-
to sembra regolare. Io introduco caricatori e osservo il
tiro, Antonelli spara. Da dietro il pagliaio il capitano gri-
da: - Spara! Spara! Spara! - Ma finiamo le munizioni e
grido: - Portateci munizioni -. Bodei, Giuanin e Mene-
golo camminano curvi verso di noi con tre cassette da
trecento colpi. Dietro il pagliaio è arrivata una cassa
grande, da basto, che avevano i conducenti della cin-
quantaquattro. Camminano curvi perché i russi sparano
sul serio e vado loro incontro per aiutarli.
Il tenente Cenci osserva con il binocolo il paese e da
una trentina di metri mi grida: - Rigoni attento! Vi sono
dei russi che passano a gruppi sotto quel ponte in prin-
cipio del paese. Io vedo quando partono. Tu puoi ve-
derli appena sbucano di sotto al ponte. Ti avviserò delle
partenze e tu allora tienti pronto a sparare. Eccoli che
partono -. Io vedo che i russi escono correndo di sotto il
ponte, li vedo per pochi metri, e poi saltano in un fosso.
Puntiamo l'arma in quel passaggio obbligato, saranno
duecento metri da noi. Cenci grida: - Pronto Rigoni! - e
Antonelli che ha gli occhi fissi laggiù spara. Cenci grida:
- Pronto! - Antonelli spara e io introduco caricatori. I
russi corrono. Ma sparano anche su di noi. Proprio su
Antonelli e me. E le pallottole passano vicinissime. Due
colpiscono l'arma: a una gamba del treppiede e sotto lo
zoccolo dell'alzo: e pallottole entrano nella neve solle-
vando piccoli spruzzi davanti, di fianco e dietro a noi.
Antonelli bestemmia: la nostra pesante si è inceppata.
Mi alzo in piedi e apro il coperchio dell'arma. Una cosa
da poco. Antonelli bestemmia e mi dice: - Abbassati che
ti ammazzano -. Riprendiamo a sparare e mi posto da-
vanti una sull'altra le cassette di munizioni. "Qualcosa
ripareranno", penso.
Una ventina di metri dietro a noi c'è il tenente scom-
parso. Quello che avrebbe dovuto comandare il mio
plotone. Sento che si lamenta e chiama. é ferito a una
gamba. Gli grido che si ritiri da l’. Ma non si muove. Al-
lora lo vengono a prendere due soldati della nostra com-
pagnia, e io non l'ho più rivisto. So che la gamba ferita
gli andò in cancrena e che mor’ su una slitta, sicché ora
mi sembra che fosse un buon diavolo anche lui.
I plotoni fucilieri che si sono distesi sulla neve un po'
dietro a noi si alzano e inastano la baionetta. Quelli del
Valchiese scendono e anche gli altri che sono più in là. Il
nostro capitano è tra i primi e grida ordini imbracciando
un parabellum russo. Andiamo anche noi ma l'arma è
arroventata e così Antonelli che vuole prenderla per la
canna, si scotta le mani. Ora ci raggiungono anche gli al-
tri compagni di plotone. I russi non aspettano di venire
alle corte e se ne vanno. Piazziamo ancora la pesante e
spariamo a quelli che ritardano. Siamo alle prime isbe e
qualcuno lancia delle bombe a mano. Intanto scendono
sferragliando i carri armati tedeschi. Ho trovato per ter-
ra un disco rosso, di quelli che usano le autocolonne per
le segnalazioni, e con questo mi metto a sbracciare in di-
rezione dei panzer segnando via libera. I tedeschi passa-
no ridendo. Appena entrano nel paese, quelli che sono
sui carri saltano agilmente a terra, e io osservo il modo
che hanno di occupare le isbe. Dànno un calcio alla por-
ta, balzano da un lato, spianano la pistola mitragliatrice
e poi pian piano guardano dentro. Dove vedono mucchi
di paglia sparano dentro qualche colpo. E scrutano con
le pile negli angoli bui e nei sotterranei.
Mi metto a girare da solo il paese. I borghesi sono
quasi tutti scomparsi. I soldati nostri che entrano nelle
isbe non fanno come i tedeschi. Aprono le porte e var-
cano le soglie senza sospetto. Mi imbatto in una pattu-
glia del genio alpino. Rimango meravigliato a vederli in
quel luogo e chiedo loro di Rino. - é qui con noi, - mi
dicono, - o almeno lo era sino a un momento fa -. E
mentre parlo con loro vedo Rino attraversare di corsa la
strada. Anche lui mi vede; ci chiamiamo e siamo uno
nelle braccia dell'altro. Ha l'elmetto calcato in testa,
stringe nella mano il moschetto e con l'altra mano mi af-
ferra il collo. Rino! Tutta la mia giovinezza mi vedo da-
vanti, il mio paese, i miei cari. Siamo stati a scuola insie-
me. Lo ricordo com'era da ragazzo e mi vien voglia di
chiedergli perché sia cresciuto. Ma non so dirgli nulla.
Vedo il suo ardore, il suo desiderio di rendersi utile, di
fare qualcosa per chi non sa fare o anche per chi non
vuol fare, poi mi accade di trovarmi nuovamente solo.
Non so come sia stato, ed entro in un'isba per tornare
subito fuori. Un cavaliere tedesco passa a galoppo per il
paese gridando: - Ruski panzer! Ruski panzer! - Il ru-
more dei motori gli è dietro. Sento anche lo sferragliare
dei cingoli. Impallidisco, vorrei farmi piccolo in modo
da potermi cacciare in un buco da topo. Mi metto die-
tro a uno steccato e attraverso le fessure vedo i carri ar-
mati che passano a meno di un metro di distanza. Trat-
tengo il fiato. Su ogni carro vi sono dei soldati russi con
armi automatiche in pugno. é la prima volta che ne ve-
do in combattimento così da vicino. Sono giovani e non
hanno la faccia cattiva, ma solo seria e pallida, e com-
punta, guardinga. Indossano pantaloni e giubboni im-
bottiti. In testa hanno il solito berrettone a punta con la
stella rossa. Avrei dovuto sparare? I carri erano tre, pas-
sarono l'uno dopo l'altro rasente allo steccato, spararo-
no qualche raffica così a caso e scomparvero. Io mi pre-
cipitai verso un'isba. Dentro c'erano tre ragazze. Erano
giovani e mi sorridevano tentando così di indurmi a non
cercare quello per cui ero entrato. Trovai del latte e ne
bevetti un poco; e, in un cassetto, tre scatole di marmel-
lata, alcune gallette, del burro. Tutta roba italiana presa
forse in qualche magazzino militare abbandonato. Le
tre ragazze, ora, quasi piangevano e mi si facevano at-
torno con preghiere. Mi sforzai di spiegar loro che quel-
la era roba italiana e non russa, e che quindi potevo
prendermela, e che avevo fame e che i miei compagni
avevano fame. Ma le ragazze quasi piangevano, mi guar-
davano supplichevoli, e così lasciai loro una scatola di
marmellata e un pacchetto di burro. Uscii con il resto
della roba rosicchiando una galletta. Le tre ragazze
guardavano per terra e dicevano: - Spaziba.
Fuori feci in tempo a vedere le ultime cannonate che
si scambiavano i carri russi e tedeschi. Mentre ero
nell'isba non avevo sentito niente. Le ragazze mi aveva-
no fatto dimenticare la guerra per un attimo. Seppi più
tardi che il cavaliere passato poc'anzi gridando aveva av-
visato i carri tedeschi che si erano appostati fuori dal
paese. E i carri russi, ora, bruciavano tutti, e sulla neve si
vedevano i segni del breve combattimento: solchi di im-
provvise virate, di giri viziosi, di fermate brusche, e
chiazze nere di olio e d'altro. Un carro era stato colpito
nei cingoli e i cingoli segnavano la neve come due strisce
nere tracciate su un foglio bianco: tristi come moncheri-
ni di una cosa già viva. Cadaveri bruciavano vicino ai
carri. Dei soldati russi che scesero da un carro caddero
subito sulla neve. Un tedesco si avvicinò cauto, striscian-
do quasi, e da pochi centimetri sparò nella nuca ai russi.
Gli altri tedeschi, da poco più lontano, facevano foto-
grafie e ridevano, agitavano le braccia e parlavano, mo-
strando sulla neve i segni del combattimento. Ma da un
carro russo che bruciava part’ una raffica di arma auto-
matica in direzione dei tedeschi e questi si sparpagliaro-
no subito come uno stormo di uccelli. Due salirono sul
loro carro e tirarono un colpo di cannone al carro russo
e questo, colpito nella riserva delle munizioni, saltò in
aria come si vede qualche volta al cinematografo. Io assi-
stevo all'accaduto da non molto lontano, e tutti i russi
che avevo visto passare di dietro a un semplice steccato,
ora erano l’, morti, nella neve.
Gli alpini del mio e degli altri plotoni si erano radu-
nati nelle vicinanze e io vado da loro. Distribuisco quel
po' di roba che avevo trovato nell'isba e per me spalmo
su una galletta un po' di burro e marmellata. Il capitano
ha visto; mi chiama e mi rimprovera davanti a tutti, per-
ché, dice, questo non è il momento di mangiare o di
pensare a mangiare e mi fa mettere via ogni cosa. Forse
ha la febbre il capitano; non rispondo e mi ritiro in di-
sparte. Poi il capitano mi chiama e mi dice: - Dài qual-
cosa anche a me da mangiare.
Lasciamo il paese. Incontro Rino un'altra volta. - Ho
bevuto un secchio di latte, - mi dice, e sorride.
Attraversiamo una palude gelata. Vi sono erbe alte e
dure che potrebbero nascondere qualche sorpresa e
procediamo cauti. La mia compagnia è in testa; le pattu-
glie di Cenci e Pendoli braccano il terreno davanti a noi,
subito dopo vengo io; dietro vi sono le altre compagnie
del Vestone, gli altri due battaglioni del sesto, le batterie
del secondo da montagna, gli altri battaglioni del quin-
to, e poi l'interminabile fila degli sbandati. Italiani, un-
gheresi, tedeschi. Feriti, congelati, affamati, disarmati.
Sulla sommità di una mugila è apparso un carro russo
e spara qualche colpo sulla colonna, ma un 75/13 della
diciannove è pronto a rispondere e il carro russo scom-
pare. Il maggiore Bracchi, il nostro capitano, un ufficiale
tedesco, un maggiore di artiglieria sono dietro a noi e di
tanto in tanto ci gridano degli ordini. Ci avviciniamo a
un gruppo di costruzioni, magazzini per il grano forse.
Da uno di questi vediamo uscire gente che agita le brac-
cia, grida verso di noi e ci viene incontro. - Sono dei no-
stri, sono dei nostri! - gridiamo. Pensiamo a mille cose
ma la più forte è: sono italiani, soldati italiani che ci ven-
gono incontro dall'altra parte. "Siamo fuori dalla sac-
ca", pensiamo. Diventiamo tutti allegri. Viene il deside-
rio di fare capriole sulla neve. Antonelli grida e canta.
Camminiamo più lesti e leggeri verso di loro, sembra di
volare e di non arrivare mai. Ma l'illusione dura solo po-
chi minuti. Quando siamo vicini ci accorgiamo che sono
senza armi. Vorrebbero abbracciarci. Sono qualche cen-
tinaio. Nella confusione, apprendiamo, in poche parole,
che sono stati prigionieri dei russi, che dalle fessure del-
le baracche dov'erano custoditi hanno visto il combatti-
mento volgere in nostro favore, e che le sentinelle russe
sono scappate al nostro avvicinarsi. Noi vorremmo sa-
per dell'altro, ma Bracchi taglia corto e li manda in coda
alla colonna.
Cala la sera e camminiamo sempre nella steppa. Ve-
diamo dei soldati italiani stesi rigidi nella neve uno di
fianco all'altro. Dal colore delle fiamme e dal numero
noto che sono del genio alpino della divisione Cuneen-
se. La pista è dura, lucida di ghiaccio levigato dal vento.
Porto in spalla l'arma della Breda 37, e scivolo, e cado.
Mi rialzo, cammino e di nuovo cado. Quante volte così?
La compagnia ha serrato le file e si cammina in fretta. Il
maggiore Bracchi mi cammina al fianco, mi guarda e ta-
ce. é notte: si cammina e ancora cado. Poi rimango in-
dietro e Bracchi mi dice: - Forza, ci arriveremo -. Ma
quanto è lontano ancora? Ora è qui anche il nostro ge-
nerale. Ci sorpassa su un automezzo tedesco. Si ferma e
ci guarda: - Bravi ragazzi, bravi ragazzi, - ci dice. Ci
guardava passare uno per uno dall'automezzo. Dopo ci
raggiunge ancora, cammina un poco con noi e dice for-
te: - Ancora poche ore e poi saremo fuori, a pochi chilo-
metri c'è un caposaldo tedesco.
Un mio compagno, finalmente, mi dà il cambio a por-
tare l'arma. Si cambia direzione. Gli ufficiali si sono fatti
seri; tra loro dicono che una colonna di russi si è infiltra-
ta fra noi e il caposaldo tedesco. Quando ci fermiamo a
pernottare in un villaggio è notte. Non ne possiamo più,
siamo disperati di fatica, di freddo, di fame, di sonno.
Le scarpe le abbiamo di vetro sulla neve. Ci sentiamo
nelle tasche le lettere che non possiamo spedire. "Avan-
ti s'cet, forza s'cet". Polenta e latte in una cucina al cal-
do. "Ghe rivarem a baita?" Avanti, forza. E si cade per
terra. Ma ora c'è un villaggio a cui siamo arrivati.
I panzer tedeschi si fermano alle prime isbe, noi an-
diamo alle ultime. Le isbe sono vuote e il villaggio è de-
serto. Le porte sono chiuse a chiave. Dobbiamo scardi-
narle per entrare. Il forno dell'isba dove siamo entrati è
ancora caldo, ma non c'è nessuno. é un'isba pulita e tie-
pida; davanti alle icone arde ancora il lumino e vi sono
tende alle finestre e drappi e fotografie alle pareti.
Chi porta legna e chi paglia. Nella stalla vicina vi sono
due pecore e un maiale. Le pecore le diamo agli altri
plotoni e noi ci ammazziamo il maiale.
A comandare il mio plotone mandano un ufficiale che
ha la fama di iettatore. Entra nell'isba, si pianta in mezzo
con le mani in tasca e comanda. Vuole che la paglia sia
ben sparpagliata, le coperte tese e allineate, il pavimento
pulito, e che il maiale venga cucinato così e così. Ha due
occhi cattivi e duri, ed è alto e rigido. Comanda. Ma i
miei compagni hanno più buon senso di lui, non rispon-
dono nulla, non dicono nulla, e continuano a fare come
hanno sempre fatto da quando mi trovo con loro. "Do-
mattina, penso, - vado dal capitano e, se non basta, dal
maggiore e dal colonnello. Non voglio questo ufficiale
nel mio plotone. Sono più che sufficiente io. Se no mi
mandino uno come Moscioni o Cenci".
Vengo a sapere che in un'isba vicina c'è Rino e vado a
chiamarlo. Ho voglia di averlo con me, stanotte. Poi ar-
rostisco sulla brace un pezzo di maiale e seduti sulla pa-
glia mangiamo assieme. Infine ci sdraiamo, coprendoci
con le coperte e i pastrani. Il tepore di un corpo riscalda
l'altro, l'alito di uno riscalda il viso dell'altro, ogni tanto
socchiudiamo gli occhi e ci guardiamo. Quanti ricordi
fanno groppo alla gola. Vorrei parlare di casa nostra, dei
nostri cari, delle nostre ragazze, dei nostri monti; degli
amici. Ti ricordi, Rino, quella volta che l'insegnante di
francese ci disse: - Una mela guasta può far marcire una
mela sana, ma una mela sana non può sanare una mela
guasta? - E la mela guasta ero io e la sana tu. Ricordi,
Rino? E prendevo sempre quattro e tre. Tante cose vor-
rei dirti e non sono capace di augurarti la buona notte. I
nostri compagni già dormono e noi ancora no. Fuori c'è
la steppa desolata e le stelle che splendono di sopra a
quest'isba sono le stesse che splendono di sopra alle no-
stre case. Ci addormentiamo.
Al mattino vado dal capitano a chiarire la situazione
del mio plotone. Il capitano ne parla al maggiore. L'uffi-
ciale nuovo viene mandato via e non lo vedrò più. Sarà
andato a far l'eroe fra gli sbandati. Così, da ora, rimarrò
solo a comandare il plotone. Quei venti uomini che sono
rimasti sono contenti e io pure. Antonelli più di tutti.

Il sole nel cielo limpido ci riscalda le membra indo-
lenzite e si continua a camminare. Che giorno è oggi? E
dove siamo? Non esistono né date né nomi. Solo noi che
si cammina.
Passando per un villaggio vediamo dei cadaveri da-
vanti agli usci delle isbe. Sono donne e ragazzi. Forse
sorpresi così nel sonno perché sono in camicia. Le gam-
be e le braccia nude sono più bianche della neve, sem-
brano gigli su un altare. Una donna è nuda sulla neve,
più bianca della neve e vicino la neve è rossa. Non vo-
glio guardare, ma loro ci sono anche se io non guardo.
Una giovane è con le braccia aperte, e ha sul viso un lino
bianco. Ma perché questo? Chi è stato? E si continua a
camminare.

Passiamo per una valletta stretta e deserta. Cammino
con angoscia, vorrei che se ne fosse già fuori; mi sembra
di soffocare. Guardo da tutte le parti con apprensione.
Ascolto e trattengo il fiato. Vorrei correre. Mi aspetto di
veder comparire da un momento all'altro le torrette dei
carri armati e di sentire le raffiche delle mitragliatrici.
Ma passiamo.
Ho fame. Quando ho mangiato l'ultima volta? Non
ricordo. La colonna passa tra due villaggi distanti tra lo-
ro pochi chilometri. L’ ci sarà certamente qualcosa da
mangiare. Dalla colonna si staccano dei gruppetti che
vanno verso i villaggi in cerca di cibo. Gli ufficiali grida-
no, dicono che potrebbero esservi dei partigiani o delle
pattuglie russe. Soldati del mio plotone vanno anch'essi
in cerca di cibo. Durante una breve sosta ci fermiamo a
bere ad un pozzo e poi vado in un'isba che mi sembra la
più vicina. Ma è una delle più vistose ed è già stata visi-
tata da molti. Non vi trovo che un pugno di fettine di
mele essiccate che i russi usano per fare i decotti.

Si cammina e viene ancora notte. é freddo: più fred-
do di sempre, forse quaranta gradi. Il fiato si gela sulla
barba e sui baffi; con la coperta tirata sulla testa si cam-
mina in silenzio. Ci si ferma, non c'è niente. Non alberi,
non case, neve e stelle e noi. Mi butto sulla neve; e sem-
bra che non ci sia neanche la neve. Chiudo gli occhi sul
niente. Forse sarà così la morte, o forse dormo. Sono in
una nuvola bianca. Ma chi mi chiama? Chi mi dà questi
scossoni? Lasciatemi stare. - Rigoni. Rigoni. Rigoni! In
piedi. La colonna è partita. Svegliati, Rigoni -. é il te-
nente Moscioni che mi chiama quasi con angoscia e
aprendo gli occhi lo vedo curvo su di me. Mi dà un paio
di scossoni e vedo bene il suo viso ora, e i due occhi scu-
ri che mi fissano, la barba dura e lucente di brina, la co-
perta sopra la testa. - Rigoni, prendi, - dice. E mi dà
due piccole pastiglie. - Inghiotti, fatti forza, avanti -. Mi
alzo, cammino con lui e a poco a poco raggiungiamo la
compagnia e capisco tutto... Ma quanti che si sono but-
tati sulla neve non si alzeranno più? Cenci e Moscioni
mi fanno salire su un cavallo. Ma è peggio che cammina-
re; temo di congelarmi, ridiscendo e cammino. Cenci mi
dà una sigaretta e fumiamo. - Di' Rigoni, che desidere-
resti adesso? - Sorrido, sorridono anche loro. La sanno
la risposta perché altre volte l'ho detta camminando nel-
la notte. Entrare in una casa, in una casa come le nostre,
spogliarmi nudo, senza scarpe, senza giberne, senza co-
perte sulla testa; fare un bagno e poi mettermi una cami-
cia di lino, bere una tazza di caffè-latte e poi buttarmi in
un letto, ma un letto vero con materassi e lenzuola, e
grande il letto e la stanza tiepida con un fuoco vivo e
dormire, dormire e dormire ancora. Svegliarmi, poi, e
sentire il suono delle campane e trovare una tavola im-
bandita: vino, pastasciutta, frutta: uva, ciliege, fichi, e
poi tornare a dormire e sentire una bella musica -. Cen-
ci ride, Antonelli ride e anche i miei compagni ridono. -
Eppure lo voglio fare, se ci ritorno, - dice Cenci, - e poi,
- aggiunge, - un mese di mare alla spiaggia, sulla sabbia
tutto nudo, solo con il sole che brucia -. Intanto cammi-
niamo e Cenci vede il mare verde e io un letto vero. Ma
Moscioni è serio, è il più consapevole tra noi, ha i piedi
nella neve e vede steppa, alpini, muli, neve. Laggiù si ve-
de un lume. Non è il mare verde, non è il letto vero, è
solo un villaggio.
Ma quel lume è come quello della favola. Anzi è più
lontano. Non ci si arriva mai. Il villaggio è piccolo e non
c'è posto per tutti; siamo tra i primi, ma le isbe sono già
tutte occupate. Dovremo forse passare il resto della not-
te all'aperto. Il capitano, Cenci, Moscioni e una metà
della già ridotta compagnia vanno in cerca di alloggio.
Io rimango con il resto degli uomini e il mio plotone.
Il mattino dopo il capitano mi disse che aveva manda-
to un portaordini: da loro c'era posto per tutti. Ma io
non vidi arrivare nessun portaordini, quella notte.
Parte dei miei compagni si sistemarono attorno a un
pagliaio coprendosi poi di paglia. Altri andarono non so
dove, e io rimasi solo con Bodei davanti a un fuoco.
D'un tratto si sent’ belare e Bodei si alzò, andò a pren-
dere la pecora che aveva belato e l'uccise vicino al fuo-
co. Io l'aiutai a scuoiarla e sul fuoco vivo mettemmo ad
arrostire una coscia della pecora per ciascuno. La carne
calda e sanguinolenta era incredibilmente buona. E do-
po le cosce, abbrustolimmo il cuore, il fegato, i rognoni
infilati alla bacchetta del fucile. Attorno al fuoco si ab-
brustoliva la carne della pecora e l'odore del fumo era
grasso e buono. Mangiammo le braciole, e passavano le
ore, poi il collo e le gambe anteriori. Vennero da noi,
forse attratti dall'odore, due fanti italiani e un tedesco;
finirono di mangiare la pecora; anzi spolparono le ossa
che Bodei e io avevamo lasciato. Erano senza armi e al
posto delle scarpe avevano stracci e paglia legati attorno
ai piedi con filo di ferro. Facemmo loro un po' di posto
vicino al fuoco, e se ne stettero l’ silenziosi. Non si alza-
vano nemmeno per andare in cerca di legna e Bodei
brontolava; nemmeno il fumo scansavano con la testa.
Io avevo un gran sonno. Mi addormentai ma inco-
minciava l'alba, e di l’ a poco mi svegliarono i rumori
che sempre precedevano la partenza della colonna. Ra-
duno i miei compagni di plotone. Si va, ma la colonna,
invece di proseguire, ritorna sulla pista di ieri. Che suc-
cede? Vediamo giù a destra un paese abbastanza grosso.
Dicono che vi sono i russi e che bisogna conquistarlo
per lasciare la strada aperta agli altri dei nostri che se-
guiranno. - Avanti il Vestone! - gridano in testa, e ci
fanno passare. Ora son pronti a farci passare. Ci viene
comunicato da che parte attaccare e andiamo ancora
una volta. Il plotone di Cenci e Moscioni a destra, io al
centro e un po' arretrato con la pesante, poi le altre
compagnie del battaglione, infine i tedeschi. Da un fos-
so vengono fuori dei soldati russi con le mani alzate e i
nostri li disarmano. Si sente qualche sparo qua e là, ma
fiacco. Il maggiore Bracchi ci segue e ogni tanto ci grida
degli ordini. Vediamo altri soldati russi che se ne vanno.
Non sembra una vera battaglia. La pesante non spara
nemmeno un colpo. Noi siamo più in alto e vediamo
tutto. Raggiungiamo le prime isbe e aggiriamo il paese.
Troviamo un branco di oche che strepitano. Ne acciuf-
fiamo alcune; e tiriamo loro il collo e ce le portiamo in
spalla tenendole per la testa. é stata per le oche la batta-
glia. Dal centro del paese, dove c'è la chiesa, gridano
adunata. é già finito tutto.
Andando in direzione della chiesa vediamo dei ca-
mion abbandonati di marca americana, vi sono anche
dei cannoni piazzati con le munizioni accanto. Strano
che i russi abbiano tanta artiglieria in un piccolo paese.
Ma perché non hanno sparato? Era un caposaldo ben
munito. Stanotte la colonna è passata sull'orlo della
mugila che sovrasta il paese. é stato là che io mi sono
addormentato sulla neve. Non ci hanno sentiti. Erava-
mo veramente ombre. E mi ricordai di aver visto qual-
che chiarore nelle vicinanze. E che mi ero detto: "Per-
ché non andiamo l’?" Pensando a queste cose vedo ora
un'isba con la porta aperta ed entro. Non mi accorgo
che entrando ho scavalcato un morto, un russo, messo
di traverso sulla soglia. Nell’isba mi guardo attorno per
cercare qualcosa da mangiare. C'è già qualcun altro che
mi ha preceduto; vedo cassetti aperti, biancheria, mer-
letti sparsi sul pavimento e cassapanche aperte. Frugo
in un cassetto, ma poi in un angolo vedo delle donne e
dei ragazzi che piangono. Piangono singhiozzando for-
te con la testa fra le mani e le spalle che sussultano. Al-
lora mi accorgo dell'uomo morto sulla porta e vedo che
l’ vicino il pavimento è tutto rosso di sangue. Non so di-
re quello che ho provato; vergogna o disprezzo per me,
dolore per loro o per me. Mi precipitai fuori come se
fossi il colpevole.
Vi è di nuovo adunata. Stavolta è davanti alla chiesa.
Si vedono abbandonati dei camion italiani carichi di sac-
chi di patate secche tagliate a fette e mi riempio le tasche
di queste. Sulla neve vi sono pure due botti di vino. Una
è sfondata con dentro il vino gelato tutto a scaglie rosse.
Mi riempio la gavetta di scaglie rosse e me ne metto qual-
cuna in bocca. Un ufficiale dice: - State attenti, potrebbe
essere avvelenato -. Ma non era affatto avvelenato.
I tedeschi si prendono tutti i prigionieri russi che ab-
biamo fatto, si allontanano e poi sentiamo numerose raf-
fiche e qualche colpo. Nevica.
Si riprende a camminare. I reparti si confondono fra
loro. Si alza un forte vento freddo. Siamo tutti bianchi.
Il vento sibila tra l'erba secca, la neve punge il viso. Ci
attacchiamo uno all'altro. I muli degli artiglieri sprofon-
dano sino alla pancia, ragliano e non vogliono andare
avanti. Bestemmie, richiami, urli nella tormenta.

Un'altra notte in un altro villaggio. Non sono isbe
quelle laggiù vicino a quegli alberi? Cammino solo in
quella direzione; sprofondo nella neve sino al petto e
avanzo come se nuotassi sognando un'isba. Raggiungo il
punto dove credevo che fossero le isbe e non trovo che
ombre. Ombre di che cosa? Torno indietro. Ma poi di
nuovo ho l'impressione di vedere delle isbe. E vado da
quella parte fino alla riva di un fiume. Anche qui però
non c'è niente, ci sono solo tre betulle cariche di ghiac-
cioli che tendono i rami irsuti di ghiaccio al cielo carico
di stelle. Piango in riva al fiume gelato. Dove sono i miei
compagni? Avrò la forza di ritornare da loro? Li ritrovo
in un edificio di mattoni. Il paese non era che a poche
centinaia di metri e io avevo camminato nella direzione
opposta. Fa freddo e quel po' di fuoco che abbiamo ac-
ceso manda più fumo che altro. La stanza è occupata in
gran parte da un mucchio di grano. Ci sdraiamo sul gra-
no, tutti sporchi di neve e con le coperte gelate. Sono in-
numerevoli giorni che non mi tolgo le scarpe e ora me le
tolgo per farne sciogliere il ghiaccio e asciugarle. Subito
i piedi mi si gonfiano. Le calze non le levo per la paura
di vedermi i piedi bluastri con la pelle che si stacca. Mi
addormento. Un bagliore improvviso e scoppi di bombe
a mano ci svegliano di soprassalto. "Ci siamo", penso.
Non sono capace di mettermi le scarpe che trovo dure
come legno. Afferro il moschetto e prendo le bombe a
mano. Chi urla, chi piange, uno rompe i vetri della fine-
stra e salta giù scalzo nella neve della strada. Striscio via
sul mucchio del grano ad appostarmi dietro la finestra.
C'è un grande incendio, il paese ne è tutto illuminato.
Vedo gente correre tra le fiamme, altri che ne escono e
si buttano fra la neve. Entra da noi il tenente Pendoli: -
Non è un attacco, - grida; - non sono i partigiani -. I
fuochi accesi dai soldati per scaldarsi hanno provocato
l'incendio della chiesa e le munizioni che erano nella
chiesa stanno scoppiando. La spiegazione riporta la cal-
ma e ritorniamo a sdraiarci sul grano.
Attraverso la finestra senza più vetri entra un terribile
freddo e si vede la neve tutta rossa come inzuppata di
sangue.

Che giorno sarà oggi? Vedo che c'è un bel sole e che
il cielo è rosa. Sembra una di quelle giornate di marzo
che preannunziano la primavera. Giornate piene di spe-
ranza. Ci fermiamo, c'è una breve sosta. Con Tourn,
Antonelli e Chizzarri canto in piemontese: "All'ombra
di un cespuglio, bella pastora che dormiva". Cantiamo
tranquillamente e con convinzione, e non siamo pazzi.

Cammina, cammina, ogni passo che facciamo è uno
di meno che dovremo fare per arrivare a baita. Attraver-
siamo un villaggio più grande dei soliti e con qualche ca-
sa in muratura. Si vede che ormai usciamo dalle steppe.
Ci stiamo addentrando nell'Ucraina.
Ogni tanto un soldato corre in una casa e ne torna
fuori con un favo di miele biondo. Un soldato del mio
plotone ha portato a Cenci un secchio pieno di latte e
miele. Cenci beve avidamente. Si direbbe che la bevan-
da, appena penetrata nello stomaco si tramuti subito in
sangue. Ne bevo anch'io. La strada è fiancheggiata di
isbe, per chilometri. Ma la maggior parte delle isbe so-
no chiuse, in quelle aperte non si trova niente. In lon-
tananza risuonano spari. Possono essere partigiani, e
affretto il passo lungo la colonna per raggiungere la
mia compagnia. Mentre passo vengo insultato e un uf-
ficiale di artiglieria dice: - Sempre così questi sbandati.
Sempre i primi ad arraffare e sempre gli ultimi dove c'è
da combattere -. Egli mi dà una spinta. - Sono del Ve-
stone, - io gli dico, - sto cercando il mio plotone. Mi
chiamo Rigoni. - Rigoni tu? - dice l'ufficiale e ride. é
un sottotenente del gruppo Vicenza che mi ha cono-
sciuto in Albania.
La colonna si è fermata. Il maggiore Bracchi e altri uf-
ficiali che sono in testa vengono investiti da una raffica
di mitra. Un ufficiale di artiglieria è ferito a un piede.
Bracchi mi grida di portare avanti la pesante. Da un cor-
tile spariamo ai russi che passano di corsa davanti a noi.
Di fianco alla mia pesante è piazzata una vecchia Fiat
azionata dagli artiglieri. Sparano bene anche loro. Nel
cortile vi sono molti ufficiali superiori che ci osservano.
Mi sembra di essere agli esami di caporale e divento ros-
so quando l'arma, sprofondando nella neve, mi sposta il
tiro e spara troppo corto.
I russi scendono in una balca e si dileguano. Nell'isba
vicina è sdraiato sul tavolo il tenente ferito. Lo trovo che
scherza con gli altri ufficiali. Vi è anche il generale. Una
donna russa porta caffè a tutti e ne dà una tazzina anche
a me. Pure la raffica di mitra dev'essere partita da questa
stessa casa.
Il grosso della colonna si ferma nel villaggio e noi del
Vestone con una batteria alpina, proseguiamo verso un
altro villaggio situato a destra sopra una mugila. Vi arri-
viamo che è notte. Vi entriamo con precauzione, a squa-
dre distanziate, e prendiamo posto nelle isbe. Siamo co-
modi, un plotone per isba; e il mio, da cinquanta
uomini, è ridotto a meno di venti. Troviamo patate, mie-
le, galline, ci prepariamo la cena spensieratamente.
Avremo una buona serata, a quel che sembra, e potremo
anche fare una buona dormita.
Rino è in un'isba vicino alla mia, con altri paesani,
Renzo, Adriano, Guzzo. Il loro reparto è stato aggregato
al mio battaglione in sostituzione di una compagnia ri-
masta prigioniera. Tornando dalla visita che faccio loro
trovo la cena quasi finita e la paglia già stesa per il ripo-
so. Un giovane russo dai lineamenti del viso delicati e
nobili si dà attorno per aiutarci; porta dentro legna da
ardere, porta fuori tavole e panche per far posto, prepa-
ra ciotole e cucchiai. Cammina sciancato e curvo, con le
mani che quasi toccano terra e ride continuamente.
Mentre l'osservo mi si avvicina Giuanin a dirmi sottovo-
ce: - Sergentmagiù, qui fuori c'è la paglia piena di armi
-. Esco a vedere. é proprio vero. Sotto un pagliaio vici-
no all’isba trovo fucili automatici e bombe. Quando
rientriamo il giovane sciancato è scomparso. I miei com-
pagni dicono che dev'essere un partigiano in gamba.

Viene il 26 gennaio 1943, questo giorno di cui si è già
tanto parlato. é l'aurora. Il sole che sta sorgendo dal
basso orizzonte ci manda i suoi primi raggi. Il biancore
della neve e il sole abbagliano gli occhi. Abbiamo con
noi dei panzer tedeschi.
Una slitta fugge veloce in lontananza, da un carro te-
desco partono alcuni colpi e la slitta salta in aria. Ci fer-
miamo più avanti ad aspettare il grosso della colonna.
Affacciandoci ad una dorsale vediamo giù un grosso vil-
laggio che sembra una città: Nikolajewka. Ci dicono che
al di là c'è la ferrovia con un treno pronto per noi. Sare-
mo fuori dalla sacca se raggiungiamo la ferrovia. Guar-
diamo giù e sentiamo che questa volta è veramente così.
Intanto il grosso della colonna si avvicina a noi. Nel cie-
lo appaiono tre enormi aeroplani, anzi quattro, e si ab-
bassano a mitragliare i nostri compagni. Vediamo le
fiammelle che escono da tutte le armi di bordo e la co-
lonna che si sbanda e si sparpaglia. Gli aeroplani risal-
gono la colonna e poi s'allontanano e ritornano ancora a
mitragliare e vanno in giù verso la coda che come una li-
nea nera si perde nella steppa.
Dicono, e continuano a dire, che a Nikolajewka vi sia-
no state tre divisioni di russi. Ma, a giudicare da come le
cose si svolsero, io credo di no. Il Vestone, il Valchiese,
l'Edolo, il Tirano devono andare all'attacco. La nostra
artiglieria s'è piazzata. Il colonnello e il generale consul-
tano le carte e quindi chiamano a rapporto i comandanti
di battaglione. Noi del Vestone dobbiamo attaccare a
destra. Il luogo di ritrovo è la piazza davanti alla chiesa.
Preparazione di artiglieria non se ne può fare perché vi
sono poche munizioni. I bravi artiglieri sono desolati.
Ritrovo Rino. Lo saluto come se si fosse sulla piazza
del nostro paese. - A stasera, - gli dico. Saluto gli altri
paesani: - In gamba ragazzi, - dico loro. - E conservate
sempre la calma.
Con Cenci e Moscioni fumo l'ultima sigaretta. Il capi-
tano ci osserva uno per uno. Infine ci muoviamo. Il mio
plotone è l'ultimo a destra. Il capitano è tra il mio e il
plotone di Cenci. Poi vengono gli altri. Come usciamo
allo scoperto siamo subito accolti da colpi anticarro e da
colpi di mortaio.
I miei uomini esitano, si tengono indietro, vi è già
qualche ferito e grido: - Avanti, avanti, venite avanti -.
Anch'io esito un poco, ma ormai ci siamo dentro e sarà
quel che sarà. Il capitano grida: - Avanti, avanti! - I
miei compagni cominciano a seguirmi, e Antonelli e
qualche altro mi sorpassano. Ho con me la pesante, ma
non abbiamo munizioni.
Dovrebbe portarne giù la squadra di Moreschi. Ma
Moreschi ha un po' paura e i suoi uomini sono come lui.
Lo chiamo: - Venite giù; venite avanti, ormai è tutto lo
stesso -. I colpi arrivano attorno a noi sprofondando nel-
la neve. Si continua ad avanzare. Il capitano impugna un
mitra russo e indicando il paese grida: - Avanti! avanti!
In questo momento penso con accoramento a Rino, e
guardo dove sta scendendo il suo reparto. Ora sparano
anche con le mitragliatrici; le pallottole si infilano mia-
golando nella neve accompagnandoci passo per passo.
Qualcuno tra noi è colpito e si abbatte gemendo nella
neve. Ma non si può nemmeno fermarsi a vedere chi è.
Grido di sparpagliarci. Ma è inutile perché quando il
pericolo è maggiore viene naturale il contrario. Il capita-
no mi grida di portarmi più a destra e in alto. C'è una
leggera depressione da superare. Così formiamo un ber-
saglio nitidissimo, con il sole in faccia e d'infilata alle mi-
tragliatrici. Vedo Cenci accasciarsi sulla neve e sento che
dice forte: - Mi hanno ferito a tutte e due le gambe -.
Due alpini del suo plotone lo riportano indietro. Do-
vranno risalire allo scoperto fin dove è la colonna. Chis-
sà se arriveranno vivi. Ma aveva la pelle dura Cenci, e
l'ho ritrovato sei mesi dopo in Italia.
Il caporalmaggiore Artico prende subito il comando
del plotone e davanti a tutti grida: - Secondo e terzo plo-
tone avanti! - Un'arma automatica mi ha preso di mira,
spara raffiche brevi e precise: "Ecco, - penso trattenen-
do il fiato, - adesso muoio". E trattengo il fiato: adesso
muoio. Mi allungo in un piccolo avvallamento nella neve
e le pallottole battono l’ attorno sollevando spruzzi. La
saliva mi si impasta in bocca. Non so che cosa penso o
che cosa faccio, guardo gli spruzzi di neve a un palmo
dalla mia testa. Antonelli e qualche altro mi sorpassano a
dieci metri, allora mi alzo e vado ancora avanti.
Guardando a sinistra vedo il reparto del genio muo-
vere all'assalto di un cannone anticarro che sparava su
di noi. Dopo un lancio di bombe a mano e una breve
mischia il cannone è preso. Quei genieri hanno lo slan-
cio dei primi combattimenti. Sarà perché non ne hanno
avuti prima. Io invece mi sento tanto vecchio di guerra
al loro confronto.
Ci avviciniamo alla scarpata della ferrovia dietro a cui
sono trincerati i russi. Col mio plotone stringo verso il
centro. Trovo il sergente Minelli del plotone di Moscio-
ni; perde sangue da varie ferite leggere alla testa e alle
braccia; ma ha le gambe fracassate da un colpo anticar-
ro. Si lamenta e piange: - El me s'cet, - dice, - el me
s'cet-. Gli faccio coraggio come posso. - Non sei grave,
- gli dico. - Animo Minelli, dietro vi sono i portaferiti, ti
verranno a prendere -. So che mentisco, chissà dove
diavolo saranno i portaferiti. Forse lassù a vedere come
andrà. Ma Minelli mi crede. Mi saluta, mi sorride anche
tra le lacrime. Io vorrei fermarmi con lui ma non posso, i
miei uomini mi aspettano alla scarpata e Antonelli mi
chiama. Minelli riprende a dire: - Il mio bambino, il mio
bambino -. E piange.
Spariamo dall'orlo della scarpata; Moscioni ha im-
bracciato il mitragliatore e spara; spariamo anche con la
pesante a dei russi che si ritirano. Ora, qui dietro, pos-
siamo un po' tirare il fiato; ma siamo in pochi. Guardan-
do per dove siamo scesi si vedono tante macchie nere
sulla neve. Ma so anche che nella mia compagnia ve ne
sono che si son finti morti per non venire all'assalto. Ora
bisogna uscire dal nostro riparo. Inastiamo la baionetta.
Il capitano controlla il funzionamento del suo mitra rus-
so, soffia nella canna e poi mi guarda: - Corajo paese, -
mi dice, - la xe l'ultima -. Ci dà gli ordini: - Tu, Rigoni,
vai con i tuoi uomini per quella strada. Tu, - dice poi a
Moscioni, - vai in un primo tempo con Rigoni e poi gira
a sinistra all'altezza di quell'isba. Pendoli, con il plotone
comando, e Artico con il secondo e il terzo vengono con
me. Andiamo -. Scavalchiamo la ferrovia, siamo accolti
da qualche raffica ma ci buttiamo giù per l'altro versan-
te. Io non incontro molta resistenza, il capitano coi suoi
due plotoni ne incontra di più ma poi cedono anche
quelli. Alla mia destra noto dei russi vestiti di bianco ma
non me ne curo e continuo ad andare avanti. Ora spara
anche la nostra artiglieria; vedo russi che corrono attra-
verso la piazza del paese.
In una delle prime isbe lascio i feriti. Vi è una donna
russa e la prego di averne cura. Inoltre lascio con loro,
ad assisterli, Dotti della squadra di Moreschi. Con Anto-
nelli e la pesante entro in un'altra isba. Mi sembra un
posto ottimo per piazzarvi l'arma. Un soldato del mio
plotone mi segue con una cassetta di munizioni. Sfondo
una finestra con il calcio del fucile e trascino l’ il tavolo
coperto da una tovaglia ricamata. Sopra il tavolo postia-
mo l'arma e spariamo dalla finestra. I russi sono a un
centinaio di metri, di schiena. Li cogliamo di sorpresa,
ma dobbiamo fare economia di munizioni. Mentre spa-
riamo i ragazzini dell'isba si stringono piangendo alle
gonne della mamma. La donna, invece, è calma e seria.
Ci guarda silenziosa.
Durante una pausa vedo spuntare di sotto a un letto
gli stivali di un uomo. Sollevo la coperta e lo faccio venir
fuori. é un vecchio alto e magro che si guarda attorno
spaurito come una volpe nella tagliola. Antonelli ride e
poi fa il gesto di dargli un calcio nel sedere e lo manda
dov'è la donna coi bambini.
Spariamo qualche raffica a un gruppo di russi che
stanno trascinando un cannone anticarro. Non ci resta-
no più che tre caricatori.
Usciamo dall'isba e incontriamo Menegolo che veniva
in cerca di noi con una cassetta di munizioni. Mi irrito
perché non vedo comparire Moreschi con le altre casset-
te. Antonelli e Menegolo postano l'arma all'angolo di
un'isba; io un po' più avanti, alla loro destra, indico do-
ve devono sparare e sparo con il moschetto attraverso le
fessure di uno steccato. Siamo sempre quasi alle spalle
dei russi e rechiamo loro molto fastidio. Spero intanto
che la colonna si decida a scendere da dove l'abbiamo
lasciata ferma. Dopo un po' che spariamo i russi riesco-
no a individuarci e un colpo d'anticarro porta via l'an-
golo dell’isba pochi centimetri sopra alla testa di Anto-
nelli. - Spostiamoci, - gli grido. Ma Antonelli si mette a
cavallo del treppiede e dice: - Adesso li ho proprio di
mira -. E spara ancora.
Il tenente Danda con qualche soldato della cinquan-
taquattro (credo) vuole attraversare la strada e venire
dove siamo noi, ma da una casa vicina partono dei colpi
e rimane ferito a un braccio.
La nostra artiglieria non spara più da un pezzo. Ave-
vano pochi colpi, li avranno sparati tutti. Ma perché non
scende il grosso della colonna? Che cosa aspettano? Da
soli non possiamo andare avanti e siamo già arrivati a
metà del paese. Potrebbero scendere quasi indisturbati
ora che abbiamo fatto ripiegare i russi e li stiamo tenen-
do a bada. Invece c'è uno strano silenzio. Non sappiamo
più niente nemmeno degli altri plotoni venuti all'attacco
con noi.
Compresi gli uomini del tenente Danda saremo in
tutto una ventina. Che facciamo qui da soli? Non abbia-
mo quasi più munizioni. Abbiamo perso il collegamento
con il capitano. Non abbiamo ordini. Se avessimo alme-
no munizioni! Ma sento anche che ho fame, e il sole sta
per tramontare. Attraverso lo steccato e una pallottola
mi sibila vicino. I russi ci tengono d'occhio. Corro e
busso alla porta di un'isba. Entro.
Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No. So-
no armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano
il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando
attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio di
legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i
cucchiai sospesi a mezz'aria. - Mniè khocetsia iestj, - di-
co. Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo
riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera
di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi met-
to il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I
soldati russi mi guardano. Le donne mi guardano. I
bambini mi guardano. Nessuno fiata. C'è solo il rumore
del mio cucchiaio nel piatto. E d'ogni mia boccata. -
Spaziba, - dico quando ho finito. E la donna prende
dalle mie mani il piatto vuoto. - Pasausta, - mi risponde
con semplicità. I soldati russi mi guardano uscire senza
che si siano mossi. Nel vano dell'ingresso vi sono delle
arnie. La donna che mi ha dato la minestra, è venuta con
me come per aprirmi la porta e io le chiedo a gesti di
darmi un favo di miele per i miei compagni. La donna
mi dà il favo e io esco.
Così è successo questo fatto. Ora non lo trovo affatto
strano, a pensarvi, ma naturale di quella naturalezza che
una volta dev'esserci stata tra gli uomini. Dopo la prima
sorpresa tutti i miei gesti furono naturali, non sentivo
nessun timore, né alcun desiderio di difendermi o di of-
fendere. Era una cosa molto semplice. Anche i russi era-
no come me, lo sentivo. In quell'isba si era creata tra me
e i soldati russi, e le donne e i bambini un'armonia che
non era un armistizio. Era qualcosa di molto più del ri-
spetto che gli animali della foresta hanno l'uno per l'al-
tro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli
uomini a saper restare uomini. Chissà dove saranno ora
quei soldati, quelle donne, quei bambini. Io spero che la
guerra li abbia risparmiati tutti. Finché saremo vivi ci ri-
corderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo com-
portati. I bambini specialmente. Se questo è successo
una volta potrà tornare a succedere. Potrà succedere,
voglio dire, a innumerevoli altri uomini e diventare un
costume, un modo di vivere.
Tornato tra i miei compagni appendiamo il favo di
miele al ramo di un albero e un pezzo per uno ce lo
mangiamo tutto. Io poi mi guardo attorno come risve-
gliandomi da un sogno. Il sole scompare all'orizzonte.
Guardo l'arma e i due caricatori che ci sono rimasti.
Guardo per le strade deserte del paese, e mi accorgo che
da una di esse avanza verso di noi un gruppo di armati.
Sono vestiti di bianco e procedono con sicurezza. Sono
nostri? Sono tedeschi? Sono russi? Giunti a qualche de-
cina di metri da noi si fermano e ci guardano. Sono in-
certi anche loro. Poi sentiamo che parlano. Sono russi.
Ordino in fretta di seguirmi e mi butto tra le isbe e gli
orti. Antonelli e Menegolo mi vengono dietro con l'ar-
ma. Tutti mi guardano perplessi come se aspettassero di
vedermi compiere un miracolo. Mi rendo conto che la
situazione è disperata. Ma non ci passa per la testa di
darci prigionieri. Un alpino, di non so quale compagnia,
ha un fucile mitragliatore ma non munizioni; un altro mi
si avvicina e dice: - Ho più di cento colpi -. Sporgendo-
mi di sopra a uno steccato sparo un paio di caricatori
con il mitragliatore a un gruppo di russi poco lontani e
poi passo l'arma a un alpino: - Spara, - gli dico. Da so-
pra lo steccato l'alpino spara ma poi mi cade rantolando
ai piedi, colpito alla testa. Riprendo a sparare con il mi-
tragliatore e i russi si diradano. I cento colpi sono già fi-
niti. Anche Antonelli ha finito le munizioni e ora smonta
la pesante e ne disperde i pezzi nella neve. La nostra
compagnia perde così la sua ultima arma.
Siamo meno di una ventina di uomini. - Animo, - di-
co, - preparate tutte le bombe a mano che avete, grida-
te, fate baccano e poi seguitemi -. Sbuchiamo fuori dal-
lo steccato. Siamo in quattro gatti ma facciamo baccano
per tre volte tanto e le bombe fanno il resto. Non so se
siamo stati noi ad aprirci la strada o se i russi ci abbiano
lasciato passare; il fatto è che ci siamo messi in salvo.
Raggiungiamo di corsa la scarpata della ferrovia, e ci in-
filiamo in un condotto che l'attraversa, ma come metto
fuori la testa dall'altra parte vedo che l’ davanti la neve è
coperta di cadaveri. Una raffica mi passa rasente al mu-
so. - Indietro, - grido, - indietro! - Ritorniamo fuori
l'uno dopo l'altro da dove siamo entrati. Mi getto in una
piccola balca e sempre correndo ne risalgo il fondo. I
miei compagni mi seguono. Costeggio una siepe e sento
arrivare dei colpi alle nostre spalle. Giungiamo alle isbe
di dove, al mattino, tiravano su di noi con gli anticarro.
Ci fermiamo un attimo a riprender fiato e a guardarci.
Ci siamo ancora tutti. Dall'isba più vicina vedo uscire il
tenente Pendoli. - Rigoni, - mi chiama, - Rigoni, venite
qui a prendere il nostro capitano che è ferito. - Ma gli
altri, - chiedo, - dove sono? - Non c'è più nessuno, - ri-
sponde il tenente Pendoli. - Andiamo a prendere il ca-
pitano, - dico ai miei compagni. Ma dalle isbe attorno, e
dalle siepi, dagli orti, vengono fuori sparando decine e
decine di soldati russi. Molti dei miei compagni cadono,
altri corrono verso la breve scarpata della ferrovia, rag-
giungono le rotaie e l’ ricevono un'altra raffica come una
grandinata. Ne cadono ancora due o tre. Io mi precipito
per unirmi ai rimasti. Le pallottole battono sulle rotaie
con rumore di tempesta e mandano scintille, ma riesco a
rotolare dall'altra parte. Sono ultimo dietro agli scampa-
ti che si arrampicano nella neve. La scarpata della ferro-
via ci divide dai russi. Passo vicino a un cannone anti-
carro e mi fermo per cercare di toglierne l'otturatore e
renderlo inservibile. Ma intanto, i russi riappaiono sulla
scarpata e mi sparano contro. Allora riprendo a correre
in su come posso, sprofondando di continuo nella neve
sino al ginocchio. Sono allo scoperto sotto il fuoco dei
russi e a ogni passo che faccio arriva un colpo. "Adesso
e nell'ora della nostra morte", dico tra di me, come un
disco che giri a vuoto. "Adesso e nell'ora della nostra
morte. Adesso e nell'ora della nostra morte".
Sento qualcuno che geme e invoca aiuto. Mi avvicino.
é un alpino che era al mio caposaldo sul Don. é ferito
alle gambe e al ventre da schegge d'anticarro. Lo circon-
do con le braccia sotto le ascelle e lo trascino. Ma faccio
troppa fatica e me lo carico sulle spalle. I russi ci spara-
no contro con l'anticarro. Sprofondo nella neve, avanzo,
cado, e l'alpino geme. Non ho proprio la forza di conti-
nuare a portarlo. Riesco tuttavia a portarlo dove i colpi
non arrivano. Del resto i russi smettono di sparare. Dico
all'alpino di provarsi a camminare. Egli tenta inutilmen-
te, e ci fermiamo dietro a un mucchio di letame. - Resta
qui, gli dico. - Ti mando a prendere con la slitta. E fatti
coraggio perché non sei grave.
Io poi, non mi sono ricordato di mandare giù la slitta,
ma i portaferiti della nostra compagnia sono giusto pas-
sati di là e lo hanno raccolto. Ho saputo in Italia ch'egli
si era salvato, e un gran peso mi è caduto dal cuore. Lo
ritrovai un giorno, finito tutto, a Brescia. Non lo rico-
nobbi, ma lui mi vide da lontano, mi corse incontro, mi
abbracciò. - Non ricordi sergentmagiù? - Io non lo ri-
conoscevo e lo guardavo. - Non ricordi? - ripeteva, e si
batteva con la mano sulla gamba di legno. - Va tutto be-
ne ora -. E rideva. - Non ricordi il 26 gennaio? - Allora
mi ricordai e tornammo ad abbracciarci con tanta gente
attorno che ci osservava senza capire.
Ora, mentre continuavo da solo il mio cammino nella
neve, sento d'un tratto un trambusto e vedo la massa ne-
ra della colonna precipitarsi giù per il pend’o. Che dia-
volo fanno? Penso che il fuoco dei russi li sterminerà.
Perché non sono venuti giù prima? Ma vi sono di nuovo
degli aeroplani. Mitragliano e lanciano spezzoni. é di
nuovo come stamattina. In più dal paese sparano con gli
anticarro e i mortai. Alcuni panzer tedeschi scendono
lentamente, guardinghi. Uno è colpito e si ferma, ma
continua a sparare con il cannone. Gli altri mi passano
vicino. Gruppi di soldati tedeschi li seguono e io mi uni-
sco a loro. Così arrivo ancora una volta alle prime case.
Spariamo coi fucili di dietro ai carri. Spiegandomi a cen-
ni cerco di far avanzare un panzer fin dove si trova il ca-
pitano ferito. Do loro a intendere che si tratta di un uffi-
ciale superiore. Dopo molte esitazioni i tedeschi cedono
alle mie insistenze. Facciamo pochi metri nella direzione
che indico loro, e un colpo di anticarro frantuma il peri-
scopio. Il panzer è costretto a fermarsi e dobbiamo ri-
nunciare. Non siamo in numero sufficiente per adden-
trarci nel paese senza l'appoggio del carro.
Intanto è cominciata la sera. Mi metto dietro alle ma-
cerie di una casa sparando contro i russi che passano per
gli orti. Sono rimasto solo. Venti metri più a destra vi è
un soldato tedesco che si avvicina, strisciando cauto sul-
la neve, a due russi appostati dietro un muricciolo. Egli
poi lancia due granate su di loro. Io allora corro fino a
una casa più avanti. Dal marciapiede in faccia un solda-
to russo mi vede e svolta la cantonata per poi prendermi
di mira. Io dal mio riparo e lui dal suo ci scambiamo dei
colpi di fucile. Un capitano dell'artiglieria alpina che mi
viene incontro cade colpito al petto mentre sta per rivol-
germi la parola. Ha uno sbocco di sangue che mi chiazza
le scarpe e i calzettoni. Arriva il suo attendente. Arriva
un altro ufficiale. Piangono su di lui che rantola. Appe-
na poi è morto l'attendente gli toglie dalla tasca il por-
tafogli e dal polso l'orologio. Io non ne posso più dalla
stanchezza e vado a sedermi dietro un piccolo argine.
Un sottotenente mi si avvicina gridando: - Vigliacco,
che fai l’? Vieni fuori -. Io non lo guardo nemmeno, e
lui finisce che si mette a sedere l’ vicino e se ne resta l’
anche dopo che io me ne vado.
Vengo a sapere che il tenente colonnello Calbo
dell'artiglieria alpina è stato colpito. Lo cerco. Il suo at-
tendente gli sorregge il capo e piange. Il colonnello ha
gli occhi velati e già forse non vede più nulla. Mi parla
credendomi il maggiore Bracchi. Non ricordo le parole
che mi disse; ricordo solo il suono della sua voce, l'af-
fanno cagionato dalla ferita e lui sulla neve. Qualcosa di
grande era nel suo aspetto e io mi sentivo timido e stupi-
to. Intanto i carri dei tedeschi sono tornati ad avanzare.
Alpini e tedeschi si mettono dietro. Le pallottole batto-
no sulla corazza dei panzer e schizzano attorno a noi. Su
un carro è accovacciato il generale Reverberi che ci inci-
ta con la voce. Poi egli scende e cammina da solo davan-
ti ai carri impugnando la pistola.
Da una casa sparano con insistenza. Da quella sola ca-
sa. - Ci sono ufficiali? - grida il generale verso di noi.
Ufficiali forse ve ne sono, ma nessuno esce. - Ci sono al-
pini? - grida ancora. E allora esce un gruppetto di die-
tro ai carri. - Andate in quella casa e fatela finita, - ci di-
ce. Noi andiamo e i russi se ne vanno.
é notte fatta, la colonna si è riversata nel paese e tutti
cercano un posto per passare la notte al caldo, e, se è
possibile, mangiare qualcosa. Che confusione ora! Sem-
bra una fiera. Incontro alcuni genieri e chiedo loro di
Rino. Lo hanno visto ferito leggermente ad una spalla
durante il primo assalto, da allora non sanno più nulla.
Lo chiamo e lo cerco senza trovarlo. Incontro il capita-
no Marcolini e il tenente Zanotelli del mio battaglione.
Con questi mi metto vicino alla chiesa e chiamiamo: -
Vestone! Vestone! Adunata Vestone! - Ma potrebbero
rispondere i morti? - Si ricorda Rigoni, il primo di set-
tembre? - mi dice piangendo il tenente. - é come allora.
- é peggio, - dico.
Ai nostri richiami risponde Baroni dei mortai e viene
con un gruppetto del suo plotone. Hanno ancora un tubo
di mortaio, nessuna bomba, nient'altro. Di tutto il Vesto-
ne riusciamo a radunarci in circa una trentina. Le isbe so-
no tutte occupate e prendiamo posto nelle scuole. Ma qui
i vetri sono rotti, non c'è paglia e l'impiantito è di cemen-
to. Ci sdraiamo ma non è possibile dormire. Ci congele-
remmo. "La Ecia", alpino della mia compagnia, ha trova-
to chissà dove delle gallette e me ne dà una. Rosicchiamo
assieme. Bodei, che mi è vicino, trema dal freddo. Ci al-
ziamo e usciamo. Busso a un'isba; viene alla porta un sol-
dato tedesco con la pistola spianata e me la punta al pet-
to. - Voglio entrare, - dico. Gentilmente, con la mano, gli
sposto la pistola e gli rido in faccia. Sconcertato la rimette
nel fodero e mi chiude la porta sul viso. Entriamo in una
stalla e accendiamo un piccolo fuoco con degli sterpi. Ci
riscaldiamo, ma la parte che non guarda il fuoco è gelata.
I muli ci guardano con le orecchie basse. La testa ci cion-
dola di qua e di là. Lentamente mi addormento con la
schiena appoggiata a un palo.
Questo è stato il 26 gennaio 1943. I miei più cari ami-
ci mi hanno lasciato in quel giorno.
Di Rino, rimasto ferito durante il primo attacco, non
sono riuscito a sapere nulla di preciso. Sua madre è viva
solo per aspettarlo. La vedo tutti i giorni quando passo
davanti alla sua porta. I suoi occhi si sono consumati.
Ogni volta che mi vede, quasi piange per salutarmi e io
non ho il coraggio di parlarle. Anche Raul mi ha lascia-
to quel giorno. Raul, il primo amico della vita militare.
Era su un carro armato e nel saltar giù per andare anco-
ra avanti, verso baita ancora un poco, prese una raffica
e mor’ sulla neve. Raul, che alla sera prima di dormire
cantava sempre: "Buona notte mio amore". E che una
volta, al corso sciatori, mi fece quasi piangere leggendo-
mi Il lamento della Madonnadi Jacopone da Todi. E
anche Giuanin è morto. Ecco Giuanin, ci sei arrivato a
baita. Ci arriveremo tutti. Giuanin è morto portandomi
le munizioni per la pesante quando ero giù al paese e
sparavo. é morto sulla neve anche lui che nel ricovero
stava sempre nella nicchia vicino alla stufa e aveva sem-
pre freddo. Anche il cappellano del battaglione è mor-
to: "Buon Natale, ragazzi, e pace". é morto per andar a
prendere un ferito mentre sparavano. "State sereni e
scrivete a casa". "Buon Natale, cappellano". E anche il
capitano è morto. Il contrabbandiere di Valstagna.
Aveva il petto passato da parte a parte. I conducenti,
quella sera, lo misero su una slitta e lo portarono fuori
della sacca. Mor’ all'ospedale di Carkof. Sono andato a
casa sua, quando ritornai in primavera. Ho camminato
attraverso i boschi e le valli: "Pronto? Qui Valstagna,
parla Beppo. Come va paese?" E la sua casa era vecchia
e rustica e pulita come la tana del tenente Cenci. E sol-
dati del mio plotone e del mio caposaldo, quanti ne so-
no morti quel giorno? Dobbiamo restare sempre uniti,
ragazzi, anche ora. Il tenente Moscioni si ebbe bucata
una spalla e poi in Italia la ferita non poteva chiudersi.
Ora è guarito della ferita ma non delle altre cose. Oh
no, non si può guarire. E anche il generale Martinat è
morto quel giorno. Lo ricordo quando in Albania lo ac-
compagnavo per le nostre linee. Io camminavo in fretta
davanti a lui perché conoscevo la strada e mi guardavo
indietro per vedere se mi seguiva. "Cammina, cammina
pure in fretta caporale, ho le gambe buone io". E anche
il colonnello Calbo che era così bravo con i suoi arti-
glieri della diciannove e della venti. E anche il sergente
Minelli era ferito l’ nella neve: - El me s'cet, - diceva e
piangeva, - el me s'cet -. Giuanin, troppo pochi siamo
arrivati a baita, dopo tutto. Nemmeno Moreschi è ritor-
nato. "Possibile una capra di sette quintali? Porca la
mula sempre Macedonia". E neanche Pintossi, il vec-
chio cacciatore, è arrivato a baita a cacciare i cotorni. E
sarà morto pure il suo vecchio cane, ora. E tanti e tanti
altri dormono nei campi di grano e di papaveri e tra le
erbe fiorite della steppa assieme ai vecchi delle leggen-
de di Gogol e di Gorky. E quei pochi che siamo rimasti
dove siamo ora?
Quando mi svegliai trovai che le scarpe mi si erano
bruciate ai piedi. Sentii un rumore di gente che si prepa-
rava a partire. Non trovai più nessuno della mia compa-
gnia né del battaglione. Nel buio persi anche Bodei e ri-
masi solo. Cercavo di camminare più in fretta possibile
perché i russi potevano ritentare di agganciarci. Era an-
cora notte e c'era un gran trambusto per il paese. Feriti
gemevano sulla neve e nelle isbe. Ma io, ormai, non pen-
savo più a niente; neanche alla baita. Ero arido come un
sasso e come un sasso venivo rotolato dal torrente. Non
mi curavo di cercare i miei compagni e, dopo, nemmeno
di camminare in fretta. Proprio come un sasso rotolato
dal torrente. Più niente mi faceva impressione; più nien-
te mi commoveva. Se fosse accaduto di combattere an-
cora sarei andato avanti, ma per conto mio; senza curar-
mi di quelli che mi avrebbero seguito o sorpassato.
Avrei fatta la battaglia per mio conto; personalmente;
isolato; da isba a isba, da orto a orto; senza ascoltare co-
mandi, senza darne, libero di tutto, come per una caccia
in montagna; da solo.
Avevo ancora dodici colpi per il moschetto e tre bom-
be a mano. Ve n'erano pochi, forse, in tutta la colonna
che avevano tante munizioni quante ne avevo io.

Un'altra giornata di cammino sulla neve. Le scarpe
bruciate vanno in pezzi e me le saldo attorno ai piedi
con del filo di ferro e stracci. Camminando il cuoio sec-
co mi ha rotto la pelle sotto il malleolo e ha formato una
piaga viva. Le ginocchia mi dolgono; a ogni passo che
muovo fanno cric crac. Mi viene anche la dissenteria.
Cammino senza dire una parola con nessuno per chilo-
metri e chilometri.
Ora la colonna procede a monconi. I più validi cam-
minano in fretta, gli altri come possono. Io non sono tra
questi, ma neanche tra i più validi, ormai. Vado per con-
to mio.
Un altro giorno di cammino sulla neve. Lungo la pista
sono abbandonati i cannoni dell'artiglieria alpina. é giu-
sto; è inutile portarli, è giusto che i muli siano adoperati
per i feriti. Capita ogni tanto di sentire delle brevi di-
scussioni tra artiglieri alpini e tedeschi. Dei tedeschi,
chissà come, erano riusciti a impossessarsi dei nostri
muli che ora certamente valevano più delle loro macchi-
ne. Soltanto noi avevamo muli. Ma gli alpini e gli arti-
glieri discutono poco; fermano i muli e fanno scendere i
tedeschi. Si riprendono le brave bestie e vanno via. Han-
no i loro paesani feriti da caricarci sopra. Di fronte alla
pacatezza degli alpini l'ira dei tedeschi era ridicola.
Era molto lunga quel giorno la marcia. Non si vedeva
nessun paese da nessun lato e bisognava camminare. Si
mangiavano manciate di neve. Venne la notte. Ancora
non ci si fermava né si vedeva un paese. Finalmente, lon-
tano, una luce, e non pareva mai di arrivarci. Lo potete
immaginare, voi, quanto era lontana quella luce e quan-
ta neve bisognava calpestare per arrivarci? Fu intermi-
nabile nella notte. Era un villaggio. Non so dove andai a
dormire né con chi; né se mangiai. Alla mattina quando
ripartii c'era il sole. La maggior parte erano già andati;
ero con gli ultimi; le isbe erano vuote e i fuochi si spe-
gnevano. Ricordo che entrai in un'isba; per terra c'erano
delle bucce di patate arrostite tra la cenere e le mangiai.
Ero sempre solo.
Una sera incontrai in un'isba dei soldati del mio
battaglione. Mi riconobbero. Uno era congelato alle
gambe. Alla mattina quando ripartimmo aveva le gam-
be nere per la cancrena e piangeva. Non poteva più
venire con noi né si trovò una slitta per caricarlo. Lo
raccomandai alle donne dell'isba. Piangeva e anche le
donne piangevano. - Addio Rigoni, - mi disse. - Ciao
sergentmagiù.
Io sono sempre solo. Un giorno trovo sulla neve una
tavoletta gialla; la raccolgo e mangio. Sputo subito.
Chissà che diavolo è. Lo sputo è giallo. Ha un gusto tre-
mendo. Sputo e sputo giallo, mangio neve e sputo giallo,
dove cade lo sputo la neve attorno si fa gialla. Per tutto
il giorno ho sputato giallo e per tutto il giorno ho avuto
quel sapore in bocca. Chissà che diavolo era quella roba;
forse anticongelante per i motori o esplosivo. Ma sono
solo e non m'importa del mio sputo giallo sulla neve né
della dissenteria.

Una notte mi fermo a dormire con alcuni ufficiali del
Valchiese. Entro nell'isba, parlo bresciano e dico che so-
no del loro battaglione. Mi accettano nella loro compa-
gnia. Accendo il fuoco nel forno e un soldato porta den-
tro una capra. L'ammazzo e la faccio a pezzi per
arrostirla nel forno. Troviamo anche un po' di sale. Fac-
cio le razioni e mangiamo tutti l’ dentro, saremo una
quindicina. Gli altri a vedermi così intraprendente e
pratico mi prendono in simpatia. Ma faccio tutto come
un automa. Trovo anche della paglia e dopo aver man-
giato la capra ci addormentiamo al caldo. Alla mattina
mi sveglio per primo ed è ancora buio. - Sveglia, - dico,
- dobbiamo partire se no rimaniamo gli ultimi -. Ma
non si vogliono alzare, vogliono dormire ancora. Esco
solo e cammino nella colonna che si è già avviata.
Un pomeriggio si arriva in un villaggio, la colonna è
avanti: sono tra gli ultimi. Da una mugila vedo la colon-
na che avanza a zigzag per la steppa e poi degli aeropla-
ni che sorvolano e mitragliano. Nel villaggio vi sono
gruppetti di due tre persone che vanno per le isbe in
cerca di cibo. Nella piazza vi sono dei colombi. Penso di
sparare a uno e poi mangiarlo. Levo dalla spalla il mo-
schetto, abbasso la sicurezza e miro da venti passi. Il co-
lombo s'alza per volare e allora sparo. Quello cade giù
fulminato senza battere le ali. Di essere un discreto tira-
tore lo sapevo, ma non sino al punto di colpire un co-
lombo al salto con fucile a pallottola. Mi stupisco, certo
è stato un caso. Mi riprendo un po' e sorrido di soddi-
sfazione. Un vecchio russo che mi osserva da poco lon-
tano si avvicina ed esprime la sua meraviglia. Scuote la
testa incredulo e indica il colombo morto; poi lo prende
in mano, osserva il foro della pallottola che lo ha passato
da parte a parte e conta i passi da dove ho sparato. Mi
dà il colombo e mi stringe la mano. Mi commuovo un
poco. é un vecchio cacciatore come lo zio Jeroska.
Entro in un'isba per cucinare il colombo e levo la ga-
vetta che porto infilata nella cinghia delle giberne. L’ vi
sono due soldati italiani ma nessun borghese. Più tardi
entrano degli ufficiali giovani e disarmati. Dopo aver
mangiato il colombo faccio per riprendere il moschetto
che avevo appoggiato al muro ma non lo trovo più. Il
mio vecchio moschetto di tante battaglie, che funziona-
va così bene, che sparava così bene e che avevo così ca-
ro. Chi me lo aveva preso?
Gli ufficiali non c'erano più, non posso dire che me lo
avessero preso loro. Ma lo penso. Rimasi male, veramen-
te male. Ora che si era sfuggiti all'accerchiamento, i di-
sarmati, ed erano i più, cercavano di prendere le armi a
quelli che le avevano tenute fino allora. Non volevo né
potevo ritornare dai miei compagni disarmato, avevo
buttato l'elmetto, la maschera antigas, lo zaino, bruciate
le scarpe, persi i guanti ma il mio vecchio moschetto l’
avevo sempre tenuto con me. Avevo ancora i caricatori e
le bombe a mano. Nell'isba c'era un fucile pesante e roz-
zo. Presi quello: le cartucce andavano bene. Quando
uscii sentii degli spari vicino al paese e delle grida. Era-
no partigiani o soldati regolari che attaccavano gli ultimi
sbandati della colonna. Per non rimanere prigioniero
corsi in fretta, come potevo, tra gli orti e le isbe dietro
gli steccati e poi nella steppa finché raggiunsi la colonna.
La piaga del piede s'era fatta purulenta e puzzava,
camminando ne sentivo l'odore e la calza s'era attaccata.
Mi faceva male: era come se uno mi avesse piantato i
denti nel piede e non mollasse. Le ginocchia scricchiola-
vano, a ogni passo facevano cric crac, cric crac. Cammi-
navo con passo regolare, ma ero lento e anche sforzando-
mi non ero capace di tenere un'andatura più svelta. In un
orto avevo preso un bastone e mi appoggiavo a quello.
Un'altra notte mi fermai in un'isba dove c'era un te-
nente medico servito da una guardia ucraina. (Uno di
quei borghesi con la fascia bianca sul braccio che face-
vano servizio per le truppe di occupazione). L'ucraino
preparò la minestra di miglio e latte, e me ne diede un
piatto. Era proprio buona. Mi levai gli stracci e le scarpe
bucate. Le calze erano attaccate alla piaga e l'odore di
marcio era proprio fetido. Attorno alla piaga la carne
era bianchiccia, sporca di un umore giallo. Lavai con ac-
qua e sale. Fasciai con un pezzo di tela. Rimisi le calze, i
resti delle scarpe, gli stracci e legai con il filo di ferro.
In quel villaggio, la sera prima, avevo incontrato Ren-
zo. - Come va, paesano? - gli chiesi. - Va bene, - rispo-
se, - va bene. Guarda, io sono in quell'isba; domani ri-
partiremo assieme -. E corse via. Lo rividi in Italia. Ero
solo, non cercavo nessuno, volevo restar solo. Nell'isba,
poi, venne a bussare un tedesco. Vidi che non era uno
dei soliti. Entrò da noi e mangiò con noi. Dopo, seduto
sulla panca, levò dal portafogli le fotografie: - Questa è
mia moglie, - disse, - e questa è mia figlia -. La moglie
era giovane e la figlia era bambina. - E questa è la mia
casa, - disse poi. Era una casa della Baviera, tra gli abeti,
in un piccolo paese.
Camminai ancora un altro giorno con il passo del vec-
chio viandante appoggiandomi al bastone. Per delle ore
mi sorprendevo a ripetere: "Adesso e nell'ora della no-
stra morte", e questo pensiero mi ritmava il passo. Lun-
go la pista s'incontravano spesso delle carogne di mulo.
Un giorno stavo tagliandomi un pezzo di carne da una
carogna quando mi sentii chiamare.
Era un caporalmaggiore del battaglione Verona che
avevo avuto per allievo a un corso rocciatori nel Pie-
monte. Mi chiama e vedo che è contento d'incontrarmi.
- Vuoi che camminiamo assieme? - dice. Per me. An-
diamo, - dico.
Due o tre giorni camminai con lui. Al corso rocciatori
lo chiamavamo Romeo perché una notte era andato a tro-
vare una pastora scalando la finestra. (Era proficuo il cor-
so rocciatori). Romeo e lei Giulietta. Era recluta e lo can-
zonavamo per questo. Un'altra sera che eravamo in un ri-
fugio tra i ghiacciai scese al paese per trovarla e camminò
tutta la notte. La mattina dopo c'era da scalare una vetta
ed era stanco ma il tenente Suitner lo caricò bene di corde
e di attrezzi. Ora, qui in Russia, avevo sentito dire che era
un caporalmaggiore tra i migliori del Verona. Camminan-
do parlavo poco con lui, ma la sera, quando si arrivava
nelle isbe, ci aiutavamo scambievolmente per preparare
qualcosa da mangiare e la paglia per dormire.
Il sole incominciava a farsi sentire, le giornate si erano
allungate. Si camminava in una vallata lungo il corso di
un fiume. Si sentiva dire che ormai eravamo fuori dalla
sacca e che un giorno o l'altro saremmo entrati nelle li-
nee tedesche. Quelli che s'erano attardati alla fine della
colonna dicevano che i soldati russi, i carri armati e i
partigiani ogni tanto tagliavano la coda e facevano dei
prigionieri.
Al passaggio d'una balca, v'erano un giorno delle slitte
di feriti bloccate nella neve. Romeo e io si camminava
fuori dalla pista per conto nostro. Il conducente e i feriti
di una slitta chiedevano aiuto. C'era tanta gente l’ attorno
ma mi pareva che si rivolgessero proprio a noi. Mi fermai.
Mi guardai un po' indietro e ripresi a camminare. Dopo,
girandomi ancora, vidi che le slitte s'erano mosse. Ero so-
lo; non cercavo nessuno, non volevo niente.

Un giorno passiamo per un villaggio; c'è ancora il sole
alto, dalle finestre di un'isba delle donne battono sui ve-
tri e ci fanno cenno di entrare. - Entriamo? - domanda
il mio compagno. - Entriamo, - dico. L'isba è bella con
tendine ricamate alle finestre e le icone adornate con
fiori di carta. Tutto è pulito e caldo. Le donne fanno
bollire due galline per noi, ci dànno da bere il brodo e
mangiare la carne con patate lessate. Dopo ci preparano
da dormire. Verso sera entrarono anche dei sottufficiali
dell'Edolo. Chiedo a loro di Raul. Così per chiedere,
perché vedo dalla nappina che sono del suo battaglione.
- é morto, - mi rispondono, - è morto a Nikolajewka.
Andava all'assalto su un carro armato e saltando a terra
si prese una raffica -. Io non dico nulla.
Quando alla mattina devo muovere i primi passi sono
costretto a fare piano. Cric crac mi fanno le ginocchia.
Piano piano fino a che si riscaldano e poi continuare il
cammino appoggiandomi al bastone. Il mio compagno
ha pazienza e viene con me silenzioso. Come due vecchi
viandanti che si sono messi insieme senza conoscersi.
Nella colonna si sente sovente imprecare e litigare.
Siamo diventati irascibili, nervosi, per una cosa da nulla
si trova da dire.
Un giorno entriamo in una capanna; abbiamo sentito
l’ dentro cantare un gallo. Vi sono molte galline, ne
prendiamo una per ciascuno. Camminando le spennia-
mo per mangiarle alla sera. Un aeroplano tedesco "Ci-
cogna" è atterrato vicino alla colonna; vengono caricati
dei feriti. Tra qualche ora quelli saranno all'ospedale.
Ma non m'importa niente di nulla.
Incontriamo dei soldati tedeschi che non erano con
noi nella sacca. Sono di un caposaldo e ci aspettavano.
Sono lindi e ordinati. Un ufficiale di questi osserva
all'orizzonte attorno attorno con il binocolo. Siamo fuo-
ri, tento di pensare. Ma non provo nessuna emozione
nemmeno quando troviamo delle tabelle segnavia scritte
in tedesco.
Al lato della pista si è fermato un generale. é Nasci, il
comandante del corpo d'armata alpino. sì, è proprio lui
che con la mano alla tesa del cappello ci saluta mentre
passiamo. Noi, banda di straccioni. Passiamo davanti a
quel vecchio dai baffi grigi. Stracciati, sporchi, barbe
lunghe, molti senza scarpe, congelati, feriti. Quel vec-
chio col cappello d'alpino ci saluta. E mi sembra di rive-
dere mio nonno.

Sono camion italiani quelli laggiù, sono i nostri Fiat e i
nostri Bianchi. Siamo fuori, è finita. Ci sono venuti incon-
tro per caricare i feriti e i congelati o chiunque voglia sal-
tarci sopra. Guardo i camion e passo oltre. La mia piaga
puzza, le ginocchia mi dolgono, ma continuo a camminare
sulla neve. Delle tabelle indicano: 6° alpini; 5Á alpini; 2Á ar-
tiglieria alpina. Battaglione Verona, e il mio compagno se
ne va senza che me ne accorga. Battaglione Tirano, batta-
glione Edolo, gruppo Valcamonica e la colonna si assotti-
glia. 6° alpini, battaglione Vestone, indica una freccia. So-
no del 6° alpini io? Del battaglione Vestone? Avanti per di
qua allora. Vestone, Vestone, el Vestù. I miei compagni.
"Sergentmagiù ghe rivarem a baita?" Sono a baita. Adesso
e nell'ora della nostra morte. - Vecio! Ciao Vecio! - Ma
chi è quello? Sì, è Bracchi. Mi viene incontro, mi batte una
mano sulla spalla. Si è lavato, si è fatto la barba.Ñ Vai lag-
giù, Vecio, in quelle isbe troverai la tua compagnia-. Guar-
do e non dico niente. Lentamente, sempre più lentamente
vado laggiù dove sono quelle isbe. Sono tre, nella prima vi
sono i conducenti con sette muli, nella seconda la compa-
gnia e nella terza un'altra compagnia. Apro la porta, nella
prima stanza vi sono dei soldati che si stanno radendo e
pulendo. Mi guardo attorno. - E gli altri? - dico. - Ser-
gentmagiù! Sergentmagiù! - E arrivato anche Rigoni, -
gridano. - E gli altri? - ripeto. C'è Tourn e Bodei, Anto-
nelli e Tardivel. Visi che avevo dimenticato. - E allora è fi-
nita? - dico. Sono contenti di rivedermi e qualcosa dentro
di me si muove, ma lontano come una bolla d'aria che vie-
ne dagli abissi del mare. - Vieni, - dice Antonelli. E mi ac-
compagna nell'altra stanza dove c'è un ufficiale che era al-
la compagnia comando. - é lui che comanda la
compagnia, - dice Antonelli. C'è anche il furiere e su un
pezzo di carta annota il mio nome. - Sei il ventisettesimo,
- dice. - é stanco, Rigoni? - mi chiede il tenente. - Se
vuole riposare si accomodi in qualche modo.
Mi butto sotto il tavolo che è appoggiato a una parete e
sto l’ rannicchiato. Tutto il giorno e tutta la notte seguente
sto l’ sotto ad ascoltare le voci dei miei compagni e vedere
i piedi che si muovono sulla terra battuta del pavimento.
Alla mattina esco fuori e Tourn mi porta un po' di
caffè nel coperchio della gavetta. - Come va, sergentma-
giù? - Oh Tourn, Vecio! Sei tu, vero? E gli altri? - dico.
- Sono qui, - dice, - vieni -. Il plotone, il nostro plotone
pesante. - Dove sono? - Vieni, sergentmagiù -. Chiamo
vicino a me Antonelli, Bodei e qualche altro. - Giuanin,
- chiedo, - dov'è Giuanin? - Non mi dicono niente.
"Ghe rivarem a baita?" Di nuovo domando di Giuanin.
- é morto, - mi dice Bodei. - Ecco il suo portafogli. - E
gli altri? - chiedo. - Siamo in sette con te, - dice Anto-
nelli. - In sette con te del plotone pesante. E quella re-
cluta, - e m'indica Bosio, - ha una gamba spezzata. - E
tu Tourn? Mostrami la mano, - dico. Tourn mi stende la
mano aperta. - Vedi, - dice, - è guarita, vedi come la ci-
catrice è sana. - Se vuoi farti la barba vado a scaldarti
dell'acqua, - dice Bodei. - Ma non importa, perché? -
rispondo. - Puzzi, - mi dice Antonelli.
Qualcuno mi mette in mano un rasoio di sicurezza e
un piccolo specchio. Guardo queste cose nelle mie mani
e poi mi guardo nello specchio. E questo sarei io: Rigoni
Mario di GioBatta, n. 15454 di matricola, sergente mag-
giore del 6° reggimento alpini, battaglione Vestone, cin-
quantacinquesima compagnia, plotone mitraglieri. Una
crosta di terra sul viso, la barba come fili di paglia, i baf-
fi sporchi di muco, gli occhi gialli, i capelli incollati sulla
testa dal passamontagna, un pidocchio che cammina sul
collo. Mi sorrido.
Bodei mi dà un paio di forbici, mi taglio con queste il
più della barba e poi mi lavo. L'acqua viene giù del colo-
re della terra. Con il rasoio di sicurezza, piano, perché
chissà quante barbe come la mia ha tagliato questa la-
metta, incomincio a radermi. Mi lascio la barba sul men-
to e i baffi come una volta. Poi ritorno a lavarmi e i miei
compagni mi guardano come sto uscendo dal bozzolo.
Tourn mi passa un pettine. Ohi, come fa male a petti-
narsi. - Puzzi ancora, - dice Antonelli. - é il piede, - di-
co, - è il piede. - Avete un po' di sale? - Anche il sale
c'è, - dice Bodei. E fa bollire un po' di acqua e sale. -
Sei congelato? - mi chiedono. Mi levo gli ultimi pezzi
delle scarpe e gli stracci. Che odore! Sembra che sulla
piaga vi siano dei vermi tanto è putrida e schifosa. Con
l'acqua e sale mi lavo per bene, mi lavo anche i piedi.
Antonelli ha anche un pezzo di garza rimastagli del pac-
chetto di medicazione e mi fascio. Infine ritorno sotto il
tavolo e rimango l’ a fissare la parete dellìisba.

Tre giorni siamo rimasti l’. In quei tre giorni arrivò
ancora qualche ritardatario. Ma ormai era finita. Il ser-
gente furiere, congelato, part’ il giorno dopo il mio arri-
vo per l'ospedale. Più nessun ufficiale della compagnia
era rimasto: Moscioni, Cenci, Pendoli, Signorini. Più
nessuno e neanche sottufficiali tranne il sottotenente e il
sergente maggiore dei conducenti. Bosio, la recluta della
vecchia squadra di Moreschi, quello che aveva la gamba
ferita, lo accompagnai personalmente con un mulo e lo
caricai su un camion che sgomberava i feriti. V'era un
altro alpino del terzo plotone fucilieri, paesano di
Tourn, che aveva un fazzoletto attorno alla testa. - Che
hai l’? - gli chiesi. Si levò il fazzoletto e vidi che era sen-
za un occhio; al suo posto restava un buco rosso. - é
guarito ormai, - disse, - vengo in Italia con voi.
Uno di quei giorni mor’ il nostro colonnello Signori-
ni. Dissero che dopo aver tenuto rapporto ai comandan-
ti di battaglione e udito quel che rimaneva del suo reggi-
mento si sia ritirato in una stanza dell'isba dove
alloggiava e sia morto di crepacuore. Mi ricordai che un
giorno, prima di andare al caposaldo sul Don ed erava-
mo a scavar tane, venne da noi. Bracchi mi chiamò e mi
presentò al colonnello. Nel mettermi la mano sulla spal-
la un guanto s'impigliò in una stelletta della mia mantel-
lina e si strappò. Ricordo il mio imbarazzo e il suo sorri-
so. E ora anche lui ci ha lasciati.
Andai anche al comando di reggimento per doman-
dare di Marco Dalle Nogare. - é rimasto congelato, -
mi dissero, - ed è partito per l'Italia.
Il tenente che aveva preso il comando della compa-
gnia mi chiese il nome di quelli che meritavano di essere
decorati. Diedi i nomi di Antonelli, di Artico, di Cenci,
di Moscioni, di Menegolo, di Giuanin, di Tardivel, e di
qualche altro.

Ecco, ora è finita la storia della sacca, ma della sacca
soltanto. Tanti giorni poi abbiamo ancora camminato.
Dall'Ucraina ai confini della Polonia, in Russia Bianca. I
russi continuavano ad avanzare. Qualche volta si faceva-
no delle lunghe marce anche di notte. Un giorno, quasi
perdetti le mani per congelamento perché mi ero ag-
grappato a un camion ed ero senza guanti. Vi furono an-
cora tormente di neve e freddo. Si camminava reparto
per reparto e a gruppetti. Alla sera ci fermavamo nelle
isbe per dormire e mangiare. Tante cose ci sarebbero
ancora da dire, ma questa è un'altra storia.
Un giorno mi accorsi che era arrivata la primavera. Si
camminava da tanti giorni; era il nostro destino cammi-
nare. E mi accorsi che la neve sgelava, che nei paesi at-
traverso i quali si passava c'erano delle pozzanghere. Il
sole scaldava e sentii cantare una calandra. Una calan-
drella che cantava primavera. Desiderai l'erba verde,
sdraiarmi sull'erba verde e sentire il vento tra i rami de-
gli abeti. E l'acqua tra i sassi.
Si era in attesa del treno che ci doveva portare in Ita-
lia; eravamo nella Russia Bianca nei dintorni di Gomel.
La nostra compagnia, pochi ormai, era in un villaggio vi-
cino alla foresta. Per arrivarci dovemmo camminare pa-
recchie ore attraverso i campi che sgelavano. Quel luogo
era famoso per i partigiani; nemmeno i tedeschi si fidava-
no ad andarci. Mandarono noi. Lo starosta del villaggio
ci disse che doveva metterci uno o due per famiglia per
non gravare sulla popolazione. L'isba dove mi accettaro-
no era spaziosa e pulita, e abitata da una famiglia di gen-
te giovane e semplice. Mi preparai in un angolo sotto la
finestra la cuccia per dormire. Passai sdraiato su un po'
di paglia tutto il tempo che rimasi in quella capanna;
sempre l’, sdraiato per ore e ore a guardare il soffitto. Nel
pomeriggio c'erano nell'isba solo una ragazza e un neo-
nato. La ragazza si sedeva vicino alla culla. La culla era
appesa al soffitto con delle funi e dondolava come una
barca ogni volta che il bambino si muoveva. La ragazza si
sedeva l’ vicino, e per tutto il pomeriggio filava la canapa
con il mulinello a pedale. Io guardavo il soffitto e il ru-
more del mulinello riempiva il mio essere come il rumore
di una cascata gigantesca. Qualche volta la osservavo e il
sole di marzo, che entrava tra le tendine, faceva sembrare
oro la canapa e la ruota mandava mille bagliori. Ogni
tanto il bambino piangeva e allora la ragazza spingeva
dolcemente la culla e cantava. Io ascoltavo e non dicevo
mai una parola. Qualche pomeriggio venivano le sue
amiche delle case vicine. Portavano il loro mulinello e fi-
lavano con lei. Parlavano tra loro dolcemente e sottovo-
ce, come se avessero timore di disturbarmi.
Parlavano armoniosamente tra loro e le ruote dei mu-
linelli rendevano più dolci le voci. Questa è stata la me-
dicina. Cantavano anche. Erano le loro vecchie canzoni
di sempre: Stienka Rasin, Natalka Poltawka e i loro anti-
chi motivi di balli. Guardavo per ore e ore il soffitto e
ascoltavo. Alla sera mi chiamavano per mangiare con lo-
ro. Mangiavamo tutti nel medesimo recipiente con reli-
giosità e raccoglimento. Ritornava la madre; ritornava il
padre; ritornava il ragazzo. Solo alla sera ritornavano il
padre e il ragazzo; si fermavano poco, ogni tanto guar-
davano dalla finestra e poi uscivano insieme sino alla se-
ra dopo. Una sera che non vennero la ragazza pianse.
Vennero al mattino... Il bambino dormiva nella culla di
legno, che dondolava leggermente sospesa al soffitto; il
sole entrava dalla finestra e rendeva la canapa come oro;
la ruota del mulinello mandava mille bagliori; il suo ru-
more sembrava quello di una cascata; e la voce della ra-
gazza era piana e dolce in mezzo a quel rumore.

Preblic (Austria), gennaio 1944 - Asiago, gennaio 1947.








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