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ERRI DE LUCA.
TRE CAVALLI.

Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano.
Prima edizione ne "I Narratori" ottobre 1999.
Prima edizione nell'"Universale Economica" gennaio 2002.

ISBN 88-07-81681-.

RISVOLTO DI COPERTINA.

Tre anni una siepe, tre siepi un cane, tre cani un cavallo, tre cavalli
un uomo.

Se questa la durata assegnata, qui si narra il corso dei primi
due cavalli della vita di un uomo. Partito da ragazzo per amore
in Argentina, si butta nella furiosa guerra clandestina contro
la dittatura quando gli ammazzano la sposa. Scende in fondo
all'America per salvarsi la vita inseguita e impara il rovescio
geografico del mondo: quello toccato non il fondo delle ultime
terre, ma il culmine delle prime. Il sud il capplo, non le scarpe,
del mondo. Molti anni e molta fortuna dopo, una donna in Italia
gli rinnova in corpo l'amore e l'Argentina insanguinata dei ventanni.
Fa il giardiniere, capisce gli alberi e la solitudine. Da un africano
immigrato impara che il futuro pieno di avvisi e che la gratitudine
sta tra un coltello e una fioritura. Chi cerca in quest'uomo un verbo
rivolto al passato non lo trover Come l'amore, possiede solo
il tempo presente.

Erri De Luca nato a Napoli nel 1950. Ha pubblicato con Feltrinelli:
Non ora, non qui (1989), Una nuvola come tappeto (1991), Aceto, arcobaleno
(1992), In alto a sinistra (1994), Alzaia (1997), Tu, mio (1998) e Montedidio
(2001). Per "I Classici" Feltrinelli ha curato Esodo / Nomi (1994), Giona /
Ion(1995), Kohet / Ecclesiaste (1996), Libro di Rut (1999).

ERRI DE LUCA,
TRE CAVALLI.

Castigo para los que no practican su
pureza con feroadad.

Guai a quelli che non praticano la
propria purezza con ferocia.

MARIO TREJO, Argentina 1926..

Premessa.

Argentina un triangolo rettangolo che ha per cateto
grande le Ande a occidente, per minore il cateto irregolare
dei fiumi a nord e per smangiata ipotenusa l'Oceano
Atlantico a est.

Argentina lunghezza di tremilasettecento chilome-
tri, tra ventuno e cinquantatrgradi di latitudine sud.
L'ultimo zoccolo d'America, condiviso col Cile, sta a soli
dieci gradi dalla terra di Graham, corno del continente
Antartide.

Argentina ha accolto quasi sette milioni di emigranti
fino al 1939. Circa la meterano italiani.

Dal 1976 al 1982 Argentina ha scontato una dittatura
militare che ha prosciugato una generazione. Al termine
mancheranno all'anagrafe circa quarantamila persone qua-
si tutte giovani, senza una tomba.

La dittatura collassa dopo la fallimentare invasione
delle isole Falkland/Malvinas, circa mezza Sicilia, a pidi
trecento chilometri dalla costa. E' la primavera del 1982.

Queste immensitdi luoghi e di vicende riguardano
accidenti occorsi a persone di questa storia.

Leggo solo libri usati.

Li appoggio al cestino del pane, giro pagina con
un dito e quella resta ferma. Cosmastico e leggo.

I libri nuovi sono petulanti, i fogli non stanno
quieti a farsi girare, resistono e bisogna spingere per
tenerli gi I libri usati hanno le costole allentate, le
pagine passano lette senza tornare a sollevarsi.

Cosalla trattoria di mezzogiorno mi siedo alla
stessa sedia, chiedo minestra e vino e leggo.

Sono romanzi di mare, avventure di montagna,
niente storie di citt che gile ho intorno.

Alzo gli occhi per un po' di sole riflesso nel vetro
della porta d'ingresso da dove entrano in due, lei con
aria di vento addosso, lui con aria di cenere.

Torno al libro di mare: c'un po' di burrasca, for-
za otto, il giovane sta mangiando di gusto mentre gli
altri vomitano. Poi esce sul ponte a reggersi forte per-
chgiovane, solo e allegro di burrasca.

Stacco gli occhi per spezzare aglio crudo sulla mi-
nestra. Assorbo un piccolo sorso di rosso aspro, le-
gnoso.

Giro pagine docili, bocconi lenti, poi stacco la te-
sta dal bianco di carta e di tovaglia e seguo la linea
delle mattonelle di rivestimento che gira per la stanza
e passa dietro due pupille nere di donna, messe su
quella linea come due "mi" spaccati dal rigo basso
del pentagramma. Stanno dritti su di me.

Alzo allo stesso punto il bicchiere e lo lascio so-
speso prima di berlo. L'allineamento mi spinge a un
principio di sorriso agli zigomi. La geometria delle
cose intorno fa succedere coincidenze, incontri.

La donna sorride frontale.

L'uomo di schiena intercetta il brindisi, torce il
busto, da precedenza al gomito, l'oste lo schiva con
un giro d'anca mentre mi porta un piatto. Prima che
l'energico termini il suo mezzo giro mi raschio in gola
un saluto alla donna, come se conoscente. Lei rispon-
de uguale mentre l'uomo mi mette a fuoco.

Intanto bevo, rimetto naso al piatto, tra lgere e
inghiottire.

L'osteria si svuota di operai, io resto di pi non
ho da riattaccare all'ora.

Oggi devo finire le potature e ammassarle. Doma-
ni le brucio.

La donna si alza, avanza e s'avvicina al mio posto
svelta e schietta.

Unisco gli occhi a guardare dritto nel suo naso,
dove le narici soffiano un poco d'aria dietro alle sue
parole: "Ho cambiato numero, chiamami a questo" e
mi lascia sulla tovaglia un nome e una cifra. Ci metto
sopra la mano. E' quasi pulita, non sto a strigliarmi
per la pausa di mezzogiorno.

La guardo che sta in piedi, mi alzo e per pareggia-
re la sua improvvisata dico: "Sempre mi fa piacere di
vederti". Mette due mani intorno alla mia, "Saluti a
casa", "graziepresenter, l'altro all'uscio, lei si vol-
ta e mi rimetto gi

Che accidenti mi piglia, graziepresenter da im-
balsamato vivo: a chi? Tengo nessuno.

Cosa chiede una donna coi fiocchi a un giardinie-
re di cinquant'anni seduto al fondo di un'osteria?
Mai incontrati prima, giovane e io vengo da venti
anni di America del sud. E sto qui per il caso di un la-
voro nel giardino di una villa in cima alla salita e
scendo qui a mezzogiorno per riposare e stare in
mezzo a qualcuno e lei ci passa per la prima volta.

Mi distraggo subito, l'oste viene con un quartino
a berlo insieme: "Sei un galantuomo", gli dico, hai
buono il vino sfuso e un operaio pustare tranquil-
lo che non gli brucia in corpo per l'altra metdel
turno.

"Anch'io vengo dal mestiere," dice.

"E poi dai minestra anche agli stranieri e c'pure
qualche africano che mangia seduto roba sua e tu ce
lo fai stare."

"Non mi costa e la moglie non brontola."

Faccio scon la testa.

"E tu?" chiede: "Mi piace un uomo che legge".

"Io mi tengo compagnia cos"

Mi guarda in faccia, che un buon modo di chie-
dere. "Sto da solo, vengo da molti anni passati in
America del sud e ora sto di nuovo qua. Conosco po-
ca gente. Abito alla borgata vecchia."

Per segno che non c'altro da dire alzo il bicchie-
re. "Grazie e alla tua vita." Mi tiene qui da un mese,
prima o poi gli spetta qualche notizia. Pare che gli
basti, sorride, tocca il vetro col suo, beviamo.

E' della mia ete la tiene meglio.

La prima volta che entro da lui chiedo di assag-
giare il vino. Mi da un bicchiere e aggiunge un piat-
to con le olive nere, "Se non le piace, non lo paga,"
dice.

Me lo sciacquo in bocca, lo spingo in gola: giu-
sto e ci si accorda. Vengo tutti i giorni e lui mi da
quello che c' solo un primo piatto e quel suo vino.

"Ho una salvia in un vaso che profuma di noce
fresca, domani la porto," dico.

"E' un lungo andare dalla borgata vecchia." S mi
tiro gialle cinque ma volentieri. C'un po' di mari-
na che arriva a dare odore.

La casa scricchiola a quell'ora, pietra, legno, sba-
digli. Poi si azzittisce al profumo del caff A riempire
una stanza basta una caffettiera sul fuoco.

Mi accorgo del biglietto rimasto nella mano, lo
metto nella pagina del libro. L'oste si alza, per me ora di andare.

Devo scavare una fossa per un leccio che arriva
domani. Sto al lavoro da uno che fa il regista di docu-
mentari. Lo conosco da prima dell'America, figlio di
un sarto calabrese salito a nord a fare l'operaio, a ba-
rattare la precisione dell'ago con lo schianto della
pressa sulla lamiera.

Calzolai, carrettieri, sarti, fabbri, sellai, falegnami,
gente con arte e mani di sapienze prese e vendute,
strette dentro quattro mosse di fatica.

Mi affida il giardino, non vuole orto nanimali
anche se c'terra per ogni cosa. Lui ragazzo studen-
te, io operaio, allora comunisti, una parola appesa
all'attaccapanni del secolo passato.

Ho simpatia per la sua faccia: tra le tante inasprite
conserva un'aria buona e un naso saldo come una
prua. Quelli che portano un setto cosimportante in
piena faccia devono essere persone buone. Mimmo il suo nome.

Parla volentieri di suo padre, salito a chiudersi in
una fabbrica per dare un futuro ai figli.

In Calabria c'il passato, gli ulivi piantati dai non-
ni, la casa di pietra squadrata a scalpello, murata a
grezzo senza intonaco. C'qualcosa da scodellare a
sera, ma futuro ne manca.

I molti dei noialtri di allora sono tutti staccati da
casa; lui no, sta con le domeniche, i risparmi, i consi-
gli che tengono insieme una cucina affamigliata.

E ancora adesso lo rivedo ragazzo che sta zitto o
guarda in terra con l'osso del naso a novanta gradi
con il pavimento, mentre tra compagni si parla spor-
co. Sono di sud pur io e mi piacciono quelli che dico-
no di no da zitti. E lo fanno, il loro no, senza agitarlo
prima.

E vent'anni dopo eccolo regista. Fortuna, ma ci
sono fortune che vanno in braccio al primo che in-
contrano, fortune puttane che piantano subito e van-
no col prossimo e invece ci sono fortune sagge che
spiano una persona e la collaudano lentamente.

E i vivi si riincontrano. Lui ricorda le sere di Tori-
no, l'oste che segna sul mio conto il vino di loro ra-
gazzi, qualche oliva, un taglio di salame. Tempi da
mai durm l'oste chiude quando si alza l'ultimo.

Gli ultimi ci sono ancora oggi, ma quegli osti no.

E ricorda di me dopo il secondo turno, uscito
verso le undici di sera per subito ritrovarsi e raccon-
tarsi la mossa del giorno, se c'stata baruffa in offi-
cina, se loro hanno combinato qualcosa a scuola o
per strada.

Ogni giorno una mossa, Torino cittdi pedoni
insorti contro il resto della scacchiera. E non si
chiude nessuna porta, la fanteria operaia non per-
mette. Gli ultimi non li distingui dai primi, i belli
dai brutti, i giovani dagli anziani, gli zingari dai
ben allevati. Lui ride al ricordo: "Comunismo allo-
ra sono i ragazzi poveri che riescono a fare bella fi-
gura".

Capita allora e mai pi

E' fortuna, non questa di fare un buon lavoro, ma
fortuna di prima, di stare in un'etmeno ingiusta per
dei ragazzi. E per cambiare argomento chiedo: "E al-
lora cosa fa un uomo?" e lui sorride sotto il naso
maiuscolo, re della faccia magra.

"E' tanto che non sento il tuo saluto, dice: cosa fa
un uomo. Faccio un mestiere che devi tenere insieme
un mazzo di gente e che al primo sbaglio ti rimanda a
casa."

E che guaio chiedo, cosa vuoi metterti a sba-
gliare. Racconti il mondo, mai ti puoi confondere.
Basta che gli vuoi bene.

E poi chiede di me ma non glieli sgrano i miei ma-
lanni di Argentina, i torti scatenati, la caccia alla vita.
Mi offre lavoro e l'accetto volentieri.

Prima di salutare gli racconto un fatto. "Sto in un
cantiere e mi fa da manovale un uomo della mia et
sotto i cinquanta. E un curdo, una volta scrittore,
parla inglese. Sui cantieri si trovano uomini interes-
santi, sbattuti, di passaggio, marinai spiaggiati per
sempre. E' ferito a un occhio.

Com'stato? La risposta una mossa con la mano
gettata dietro la spalla. Da noi vale per acqua passata,
in curdo non so.

A mensa gli chiedo se vuole caff lui dice di no,
io glielo do lo stesso dal mio thermos.

Un giorno mette fuori un foglio scritto in inglese.
La polizia di un popolo che non voglio nominare lo
imprigiona a regime di batoste. Gli si guastano gli oc-
chi, uno si sana, l'altro no.

Occhi in inglese 'eyes'. Un errore di battuta sul
foglio li trasforma in 'yes'. Per le botte ha gli 'yes'
guasti. E l'errore giusto, ha tutti i srovinati, di rado
gliene tiro fuori qualcuno ammaccato in cambio di
un'offerta di caff di una mano a impastare calce.

Le botte guastano i spidegli occhi. Ci sono er-
rori che contengono un'altra verit"

Quest'ultima la dico tanto per chiudere il fatto.

E lui per tirarla ancora un po' in lungo mi chiede
cosa ho in tasca. Un libro, dico. Quale? Uno usato,
leggo libri in fine di esercizio. Perch Te lo dico
un'altra volta. La sua mano va alla tasca della mia
giacca, ma non sfila, soppesa.


Leggo gli usati perchle pagine molto sfogliate e
unte dalle dita pesano di pinegli occhi, perchogni
copia di libro puappartenere a molte vite e i libri
dovrebbero stare incustoditi nei posti pubblici e spo-
starsi insieme ai passanti che se li portano dietro per
un poco e dovrebbero morire come loro, consumati
dai malanni, infetti, affogati gida un ponte insieme
ai suicidi, ficcati in una stufa d'inverno, strappati dai
bambini per farne barchette, insomma ovunque do-
vrebbero morire tranne che di noia e di proprietpri-
vata, condannati a vita in uno scaffale.

"Te lo dico un'altra volta," gli dico al punto di sa-
lutare.

Cosmi trovo a stare la giornata in un giardino a
badare ad alberi e fiori e a stare zitto in molti modi
e dentro qualche pensiero di passaggio, una canzo-
ne, la pausa di una nuvola che toglie sole e peso dal-
la schiena.

Vado per il campo con un nuovo alberello di melo
da piantare.

Lo metto gi lo giro, guardo i suoi rami appena
accennati tentare posto nello spazio intorno.

Un albero ha bisogno di due cose: sostanza sotto
terra e bellezza fuori. Sono creature concrete ma spin-
te da una forza di eleganza. Bellezza necessaria a loro
vento, luce, uccelli, grilli, formiche e un traguardo
di stelle verso cui puntare la formula dei rami.

La macchina che negli alberi spinge linfa in alto bellezza, perchsolo la bellezza in natura contraddice
la gravit


Senza bellezza l'albero non vuole. Percimi fer-
mo in un punto del campo e chiedo: "Qui vuoi?".

Non mi aspetto una risposta, un segno nel pugno
in cui tengo il suo tronco, permi piace dire una pa-
rola all'albero. Lui sente i bordi, gli orizzonti e cerca
un punto esatto per sorgere.

Un albero ascolta comete, pianeti, ammassi e scia-
mi. Sente le tempeste sul sole e le cicale addosso con
la stessa premura di vegliare. Un albero alleanza tra
il vicino e il perfetto lontano.

Se viene da un vivaio e deve attecchire in suolo
sconosciuto, confuso come un ragazzo di campagna
al primo giorno di fabbrica. Coslo porto a spasso
prima di scavargli il posto.

A casa spiano la pagina davanti al piatto e rivedo
il biglietto. Si chiama Lla, un accento a tegola batte
sulla prima vocale, due sillabe da ninnananna.

Il biglietto sta l

Mastico un taglio di formaggio e leggo il libro, ma
quel pezzetto bianco mi distrae, sta di traverso a in-
terrompere la vena di legno del tavolo.

Allora mi alzo, esco in strada a trovare un telefo-
no. Lascio tutto sul tavolo, anche il biglietto. Me ne
accorgo nella cabina.

Questi contrattempi mi fanno simpatia. Il corpo
durante il giorno obbedisce e obbedisce a tutto quel-
lo che gli metto sopra, ma poi fatto il giusto mi man-
da ad acchiappare vento, mi tira allegro a vuoto. Pen-
so che ha ragione, che un buon asino e quando tor-
na al coperto vuole restarci.


Faccio la strada su e gie sono di nuovo al numero.

"Laila?", "S", sento la sua voce di bottiglia ap-
pena aperta, allegra e gutturale.

"Mi trovo sulla punta delle dita un numero e il
nome che hai voluto darmi."

"Voglio rivederti."

"Ho cinquant'anni e faccio il giardiniere."

"Va bene. Quando?"

"Il giardiniere lo faccio tutti i giorni e i cinquan-
t'anni da poco."

Allora sbuffa, spero sia un sorriso e mi dice che
ho buoni riflessi. Vuole rivedermi.

Penso che non va bene tirarla lunga nel telefono,
dico s

Hai un telefono, chiede. No e neanche la macchi-
na, il grammofono e la lavatrice.

Il frigorifero s

"Ti invito a cena," dice.

"Non ho l'etper vedere un cameriere che porta
il conto a una signora anzicha me."

"A casa mia." Dico s

"Hai una penna?", macch "Allora tieni a mente
l'indirizzo." Me lo dice insieme al giorno.

"Continui a darmi numeri e nomi. Laila sei un co-
dice?"

"Te li ricordi?", "Se no, richiamo."

"Allora intesi," dice.

Senti Laila non che ti interessa sapere il mio no-
me? Non subito, risponde.

Comunque non bello come il tuo, dico.

"Ti piace?"

Come l'inizio di una canzone, che ne impari al vo-
lo la musica e pitardi le parole.


Riattacco. A casa mastico, leggo, non ci sono pi biglietti di traverso tra me e le usanze della sera.

Com'Laila, cerco di pensarci. E' una che guarda
gli uomini, un generale che in una piazza d'armi si ac-
corge tra mille facce di quelle da estrarre dai ranghi.

Per strada la guardano, ma lei guarda prima.

Invento. Laila ti pesa alla bilancia dei suoi occhi
veloci e ti trova scarso.

Cosa ho da essere guardato? Una faccia di cartone
da imballaggio perchlavoro all'aria.

Forse le piace uno che in osteria invece di arrotare
palline di mollica, volta pagine.

E alta, non porta cianfrusaglie alle dita, al collo.

Mette fuori una voce torbida, soffiosa. Ha mani
capaci.

Zigomi alti per chiamare un sorriso, s una buona
geometria in faccia, bocca piena, morsi sani, dev'esse-
re bello vedere che mangia.

Tempie dolci, accennate da una curva di capelli,
narici forti a buttare dentro aria.

Le voglio portare un vaso con la mia salvia, cosle
racconto da dove viene.

Ai giovani piacciono le storie. Laila dev'essere ap-
pena ai trenta.

Penso alle cose che non le racconto, molta vita da
togliere.

Le racconto la salvia dell'isola di Pag, pascolo di
capre da cui si cava il piprofumato formaggio del
Mediterraneo.

Le racconto gli struffoli di Natale, di una nonna
che di notte arrotola mille palline da friggere e rigira-
re in miele.

Del lavoro nelle saline, dell'alga rossa dello stagno
di decantazione che fa maturare il sale in cristalli e
acceca chi lo guarda. L'operaio di salina non guarda
sotto la linea d'orizzonte, fissa il cielo che anche a
mezzogiorno arde meno del suolo.

E al tramonto il rosso dappertutto e ti passa da
parte a parte e anche l'ombra uno strascico di rug-
gine.

E poi basta, non bisogna fare sfoggio di storie.

E' alba sul treno che mi porta in citt Il buio cede
in un punto e sbianca. Poca luce per lgere, la car-
rozza vecchia, scricchiola, scrolla.

Guardo le terre, penso al giardino. Crescere alberi
da soddisfazione.

Un albero somiglia a un popolo, piche a una
persona. S'impianta con sforzo, attecchisce in segre-
to. Se resiste, iniziano le generazioni delle foglie.

Allora la terra intorno fa accoglienza e lo spinge
verso l'alto.

La terra ha desiderio di altezza, di cielo. Spinge i
continenti all'urto per innalzare creste.

Si struscia attorno alle radici per espandersi in
aria con il legno.

E se fatta a deserto, fa polvere per salire. La pol-
vere una vela, migra, scavalca mare. Lo scirocco la
porta dall'Africa, ruba spezie ai mercati e ci condisce
la pioggia.

Razza di capomastro il mondo.


E questi sono i pensieri a dondolo di un passegge-
ro di ferrovia. Io coi miei conti di giardiniere, potatu-
re, semine, previsioni di fioriture e frutti, sembro
l'uovo che insegna alla gallina. Arriva uno sputo di
grandine, un vetro di gelata e stattene servito, signore
dei giardini.

La metto cos il daffare niente, giusto un sala-
rio. Conta invece stare con la testa tra i piedi, faccia
in gia badare in basso. Conta piegare nuca sulla ter-
ra, tenere per lei premura piche per gli uomini.

Cosbello nel tempo rimasto avere a che fare
con gli altri, capirsi sulla faccia, radersi per una don-
na, buttarsi contro e addosso a una prepotenza.

Ho pivita messa a guardare terra, acqua, nuvole,
muri, arnesi, che facce. E mi piacciono.

Ora svario su quella di Laila, zigomi lucidati a ra-
me, un broncio di labbro, pezzi che non si combina-
no. Quando ci penso, non ce la faccio a tenere a men-
te un'intera faccia di donna.

Scendo per ultimo dal treno, cupo vizio di chi
controlla nel suo percorso se qualcuno lo segue.

Dopo che gli arrivati sciamano, resta vuoto il fon-
do del binario e si pustare attenti. Mi restano usan-
ze di altra vita.

In giardino infilo la tuta sopra i panni. C'zio in-
verno per aria a tenere duro e fare scricchiolare la ter-
ra sotto le scarpe.

Sotto i fusti di alloro c'l'arancio pallido di un
pettirosso staccato dal ramo, caduto a foglia stesa per
il gelo.


In faccia viene brusco da nord, basta non radersi
al mattino ma di sera.

Ho con me il rasoio, dopo il lavoro vado a casa di
Laila.

Mi preparo da dormire nel capanno degli attrezzi,
perchdopo la cena non ci sono pitreni.

Zappo sotto gli allori. Proteggono passeri sotto le
foglie spesse, sempreverdi. A sera litigano per il posto
picaldo, vicino al tronco. Litigano per vivere. Poi fan-
no un bisbiglio di assestamento, penso che pregano.

E' solo in primavera che poto gli allori, quando
non fanno da capanna ai passeri.

Mi piace bruciare il rimasuglio delle loro frasche.
Danno un fumo che stordisce e fa tornare in mente
gli scomparsi. In quel fumo mi siedo a mezzogiorno
con le olive nere.

In quei giorni vedo chiaro nella geometria. I vivi
non stanno a novanta gradi sopra i morti distesi, ma
vanno paralleli. La falce non curva come la luna ma
come l'uovo. Il pane si gonfia ripetendo la forma del
palmo del fornaio. Portarlo alla bocca come strin-
gergli la mano.

A stare zitti mentre il corpo lavora, vengono e
vanno a sbando pensieri di nuoto e di volo. Da un
aprile di molti anni fa torno a vedere il cielo di Geri-
co imbiancato di cicogne, migranti dall'Africa verso i
tetti d'Europa.

Davanti alla minestra dell'oste finisco un racconto
che descrive la cittdi Odessa.

Mai visto il Mar Nero: conosco niente del Tirre-
no se non so la foce dei fiumi sconfinati che dal bas-
so di Russia tengono in pareggio l'acqua del Medi-
terraneo.

Non so niente di troppe cose per tenerne conto,
pera volte affiora un'ignoranza che mi da nostalgia.

Sfoglio pagine di una cittdi fichi, di banditi, di
marinai, di ebrei.

Intanto la stanza dell'oste si riempie di uomini scu-
ri, infreddoliti. Ne invito a sedere al tavolo ai tre posti
vuoti, chiamo un litro da dividere, chiedo scusa di leg-
gere.

Sono di tre ete popoli diversi. Mangiano qualco-
sa cavato di tasca, le nostre mani riempiono il tavolo.

Leggo di Odessa e ascolto il loro respiro, un ru-
more di risacca.

Il freddo fuori fa stringere i polmoni, al riparo in-
vece si allargano a scaldare sangue.

Accettano una tazza di caff poi vanno via insie-
me dopo una stretta di mano.

Di pomeriggio arriva il leccio. Assesto le radici
nello scavo, lo puntello a tre pali, concimo e annaffio.
E' giun bel tronco, gli costa sforzo e pericolo im-
piantarsi da cresciuto. A volte si intristiscono e non
vogliono pivivere. Gli canticchio intorno per ben-
venuto, lo lego per dargli forza.

E' presto buio, mi lavo in faccia, mi passo il rasoio.
Non metto sapone, mi basta lasciare un minuto l'ac-
qua a infradiciare il pelo che poi viene via liscio.

Strofino duro le mani per levare l'ombra della ter-
ra, poi mi attacco al collo una vecchia cravatta e vado.

Entro, le do la mano e mi volto a poggiare il cap-
potto.


Mentre sto di spalle sento le sue dita passarmi il
collo da un orecchio all'altro. Non capisco la mossa,
mi giro piano, dice che ho due rughe parallele come
quelle di suo padre, due tagli, dice.

Chiedo se gli somiglio anche di fronte, quello no,
poi ha un altro pensiero, mi prende le mani, le rigira,
dice che sul palmo somiglio, sul dorso no. Insomma
c'un rovescio che richiama e un dritto no.

Ha un vestito stretto che tocca il corpo in tutti i
punti e un golf di lana bianca come una fioritura di
mandorlo. Intanto siamo ancora in piedi nell'ingresso.

Mi fa entrare in una stanza larga, vedo cucina, ta-
vola apparecchiata, sedie, divano, quadri larghi e non
bado pi

Capisco poco di me: senza imbarazzo mi accomo-
do e mi sistemo bene i pantaloni sul ginocchio e chie-
do da dove viene. Russia e Scozia per la madre, Sicilia
e Liguria per il padre.

Sei una principessa, porti la geografia nel sangue.

Il suo nome della nonna russa nata sulla riva de-
stra della Neva. "No na Noi", il cielo sulla Neva
una canzone, solo una strofa lasciata sul bordo del
suo sonno di bambina dove s'impiantano le ninne-
nanne e la voce di una nonna frana dentro i sogni.

Chiede se sono anch'io principe per miscugli.

No, i miei sono di un posto solo e cosi nonni.

Perm'invento un subbuglio di antenati: di notte
sento una nostalgia greca per le stelle ammucchiate in
nomi da sillabario, per i calcoli dei pianeti, per la re-
gola delle comete.


Laila siede sul bracciolo, cosla guardo dal basso
e mi piace.

Continuo: all'aperto di notte capisco che la scien-
za stata mossa dalla bellezza, dal desiderio di ca-
pirla.

Davanti a una donna sento il napoletano che vo-
glia di farla ridere.

Senza risate prima, i baci sono sciapi. Questo non
glielo dico.

Sul lavoro sono uno di questo mare che ha burra-
sche improvvise, non risaputo e previsto come
l'Atlantico, percipiglio a verso qualunque tempo
viene.

Allo specchio sento un brivido ebreo quando mi
rado sotto le tempie e davanti al formaggio mi sento
un naso francese e col vino nel bicchiere sento nel
palmo il solletico di qualche nonno che zappa sulle
marne spellate di colli piemontesi.

Laila muove gli occhi veloci sulla mia faccia, sta in
ricognizione su di me. Le do tempo e insisto: davanti
al mare sento la prudenza di un contadino isolano
che ha barca per aiutarsi con la pesca quando d'in-
verno la terra va lasciata stare e lui scende alla marina
per tentare qualcosa.

Ti conosci bene o inventi, chiede.

Un poco imbroglio, un poco racimolo dai sensi e
un poco ho sete.

Chiede scusa, si alza, si alza che sembra molto pi alta o io sono sprofondato e lei sta a un braccio dal
soffitto.

Vino? S Formaggio? S

Mi alzo anch'io, levo di tasca un pacchetto di car-
ta argentata, apro sul tavolo le mie foglie di salvia. Ne
sminuzzo una sopra una fetta.

Com'forte all'odore, dice.

E' un incenso che fa scappare i diavoli, dico.

Siede vicino, si fa stracciare una foglia su una se-
conda fetta.

Ci vogliono le tue mani per fare incenso della sal-
via, dice, annusa, la linea del naso fa un angolo stretto
col piano della tavola.

Per me le faccende degli angoli stanno cos se so-
no acuti sono buoni, se sono ottusi cattivi e se stanno
a novanta gradi c'pareggio.

Fa per battere i due bicchieri in brindisi, giro il
dorso di mano per toccare con le nocche le sue: brin-
disi delle dita, poi di vetro. Dove l'ho imparato: in un
altro mondo, in un tempo strano da vivere e ritrovarsi
svegli il giorno dopo, per continuare a esserci.

Poi me ne parli, dice. Faccio un minimo no con la
testa. Non fa conto del no.

Sembri uno che sa parecchie cose, dice.

Nego: neanche so da che parte della fetta spal-
mato il burro.

Ride.

E una, penso e mi accorgo di come si allarga ai lati
la sua bocca e scintilla tra i denti la lingua e mi pizzi-
ca il naso ad affacciarmi sulla sua risata.

Mi chiede a che lavoro sto. Faccio l'operaio dei
giardini, sto spesso in ginocchio, consumo li panta-
loni. Me li aggiusto di nuovo sulle rotule.

Com'la terra, chiede, e si aspetta la risposta di
scherzo che bassa, che sta troppo gi


No, mi faccio serio e dico un'altra cosa. Ci sono
due specie di terra, dico e mi volto verso di lei seduta
a fianco. Una ha l'acqua di sotto, si fa un buco e af-
fiora. E terra facile.

L'altra dipende dal cielo, ha solo quella fonte. E'
magra, ladra, capace di rubare acqua al vento e alla
notte, e appena ne ha un poco la spende tutta subito
in colori trattenuti nel midollo dei sassi e mette for-
za di zuccheri nei frutti e butta profumo da sfaccia-
ta. E' terra di cielo asciutto, la preferisco. Questa sal-
via sua.

Mi ascolta a labbra strette, chiede se scrivo queste
cose.

No, scrivo niente, leggo s volentieri.

E lettere? S lettere. D'amore?

Alla domanda mi viene una storia in vece di rispo-
sta. La racconto, ma ho pure fame, dico.

E ci si siede ai piatti e versa una buona minestra
di lenticchie e fave. Inghiotto due cucchiai, poi parlo.

Mi viene a trovare una donna qualche tempo fa.

Le apro la porta, intatta, viene dritta da vent'an-
ni prima, una distanza che addosso a lei sembra il
tempo di una corsa in tram.

Vuole sapere di me, vuole vedere se combaciano
due pezzi di tempo. Tira fuori le mie lettere.

Le scorro per la prima volta. S quando le scrivo
non rileggo, chiudo e spedisco, adesso come allora.

Sotto la carta stagionata sento la mia faccia di pri-
ma, prima di cambiare il mondo, e la sento di pasta
ancora buona a tutto.


Le dico che deve portare al ragazzo di allora l'ab-
braccio custodito in grembo. Che lei ancora intera
e puritrovarlo uno cos Insomma le dico: non so-
no io.

Se non sei tu, dice, non sei mai stato tu.

Si alza da tavola, infila il cappotto, esce, calma,
splendida, nessuna parola. Ancora adesso non so se
ha ragione.

Questa la storia e Laila chiede perch

Vedo vecchi poeti ricevere premi per versi scritti
in giovent Nessuno di loro dice: non sono io. Non
so fare come loro. Io devo dire: ritira il premio della
tua visita, signorina perpetua di vent'anni fa, mio zio.
Io sono lo zio sgangherato di quello delle lettere.

Mi riesce di dire solo: non sono io e di bere il vino
lasciato nel suo bicchiere.

Metto la mano su quello che ho davanti, che mi-
gliore di quell'altro.

E le lettere? chiede. Lei le lascia l

Le hai ancora? Sorrido, no. Laila mi passa con le
nocche una carezza sopra il dorso di mano.

Non mi viene un gesto di ricambio. Resto quieto.

Mi piace come sei fatto, dice, un sasso di fiume.

La guardo in qualche punto della faccia, ho im-
pulso di alzarmi, scansare la tavola, raggiungerla sui
fianchi. Resto fermo.

E io piaccio a te, dice, senza domanda.

Che te ne fai di una risposta. Allora s dice.

Ma s neanche a vent'anni mi ricordo vicino a
tanta sciagurata bellezza, ma queste sono solo parole
di rimbalzo.


Non vero, ma suona bene, dice.
E si alza e accende una musica e mi fa alzare, sia-
mo di uguale statura.

Ricordo i balli nelle feste pubbliche, dico, mi
manca quella baldoria buona a sbattere i piedi intor-
no a una ragazza.

Metto leggero il braccio dietro di lei, sento lo stes-
so il fascio delle costole. Nella mia sinistra la sua ma-
no pane fresco, l'avvicino al naso.

Dondolo come un ramo d'autunno, perdo foglie.

Vicina la sua faccia sospira, non confonde ma sgom-
bera pensieri.

Pensi a cosa, chiede.

Guardo i capelli, riconosco il colpo di polso che li
aggiusta a onde, penso che il legno della tua spazzola
come il vento dell'Atlantico che scava onde lunghe.

Mi pare che le fronti si avvicinano, ascolto adesso
lei che mi descrive. Dice che sono intransigente e che
le persone coslasciano libertagli altri. Nessuno le
segue, percifanno il loro senza voltarsi.

Resto a oscillare piano nella musica, la sua voce
soffiata piano mi muove sangue. Non la sua bellezza
nl'occasione, ma le sue parole: e mi si allarga il naso
quando i corpi si toccano al centro.

Annusi, chiede. Sannuso le tue parole.
Sei o no intransigente? Meno, meno di questo: se
pensi una cosa di me, togline un poco, cala di un gra-
do e io ti rispondo eccomi.
Eccomi, dice Laila.


Avanza la fronte, una lentezza bollente, si appog-
gia alla mia, un lasco di capelli suoi sulle mie tempie
di pelo corto e il suo fiato che sale nelle mie narici e il
mio respiro che non riesco a sentire e si sta cosvicini
da rimanere fermi.

Ora spinge con la mano la mia nuca a schiacciare
le nostre facce all'attaccatura delle bocche.

Ora respirano solo i nasi.

Poi spetta alle mani muoversi per darsi pace.

Per imbarazzo di tenersi, non diciamo niente.

Faccio piano per non scaraventare forza addosso
a lei, coscresce la sua.

Sta sopra di me, sbatte sul mio petto a colpi cupi.
Si tagliano cosgli alberi, un colpo a fendere e una
torsione per liberare il ferro dall'impatto. Laila suona
quei rintocchi sopra il mio petto, io resisto orgoglioso
un tempo lungo, quanto quello di un albero che mor-
de acido il ferro che lo stronca. Coscrollo e anche lei.

Mi accorgo di una sua carezza che mi asciuga.
Dormo per qualche respiro.

Poi cerco i panni, abito lontano.

Resta, dice.

Se vuoi compagnia, s se no per me meglio non
ingombrare.

Voglio che mi ingombri le lenzuola, dice. Poi
chiede se ho voglia di parlare un poco.

Un poco. Chiedo com'che sola.

E per lavoro.

Guadagni con la solitudine? No, cogli uomini, va-
do cogli uomini per soldi. Non in strada, vado agli
appuntamenti.

Sto zitto, certo non mi sta presentando il conto.


Chiede se mi fa schifo. No.

Coslo sai adesso.

No, dico, io so adesso la tua intenzione di dirmelo
e questa pigrande della notizia. Laila, non ho
niente di mio per pareggiare questo.

Non vuoi, dice.

E' anche cos dico.

Non importa, basta giche non ti faccio schifo.

Restiamo stesi a metdi un abbraccio. Lei dice
"Tienimi" e io la piglio anche con l'altro braccio e me
la stendo sopra. E la stringo un poco: va bene un "tie-
nimi" cos Sorride di sdritto dentro un orecchio.

Cosmi innamoro di te, dico. E una bugia, ma la
dico lo stesso.

Gli uomini non si innamorano di una che fa il me-
stiere, dice. I clienti no, dico, ma a uno scroccone di
giardiniere pusuccedere.

Siamo stesi, lei mi guarda il naso, io punto il sof-
fitto.

Ricordo notti senza neanche una foglia tra il mio
cranio e il cielo.

Ricordo giorni e mosse che vanno come il traccia-
to di una crepa, puntano sul casaccio per inventare
un modo di durare.

Chi scappa non ha il largo davanti a s ma molte
vie sbarrate. Mi accanisco in svolte, deviazioni, di
notte cerco l'aperto, viaggio a piedi, punto a sud. Il
mondo mi sta addosso, anche le stelle sono cani die-
tro i passi. Ora con te aspetto il sonno e penso a quel
cielo del sud.


Quale sud, chiede. Quello del mondo, dico: il sa-
gittario, il lupo, il centauro, la vela, la croce.

Se conosco le stelle? Le chiamo per nome, mi pi-
glio la confidenza, ma non le conosco, solo una pre-
sentazione da lontano. Sorride: e perchl

Guerra. Quale? Una, ce n'sempre una.

I soldati vanno d'accordo con quelle del mestiere,
dice.

Non so raccontare di quello, dico.

Hai una faccia piena di quello, dice e me la tocca
col dorso del dito e la percorre. Le facce sono scritte.

Anche le mani, dico, e le nuvole, il manto delle ti-
gri, la buccia dei fagioli e il salto dei tonni a pelo
d'acqua scrittura.

Impariamo alfabeti e non sappiamo lgere gli al-
beri. Le querce sono romanzi, i pini sono grammati-
che, le viti sono salmi, i rampicanti proverbi, gli abeti
sono arringhe difensive, i cipressi accuse, il rosmarino
una canzone, l'alloro una profezia.

A me basta lgere la tua faccia, dice.

Che pagina preferisci?

L'ultima, la nuca con le rughe parallele di mio pa-
dre. Ci sono uomini, dice, che raccontano cose intime
dopo aver bevuto. Tu invece sei di quelli che mollano
qualcosa sul bordo del sonno.

La sua voce diventa ruvida, carta vetrata che stro-
fina legno, mi pare di avere sonno, invece mi metto a
parlare e mi accorgo di andare dietro alle parole, di
stare senza governo di fermarle. Mi ascolto dire: "C' in me quello che si trova in molti uomini del mondo,
amori, spari, qualche frase piena di spine, nessuna
voglia di parlarne. Siamo dozzina noialtri uomini.


Speciale solo vivere, guardarsi di sera il palmo di
mano e sapere che domani torna fresco di nuovo, che
il sarto della notte cuce pelle, rammenda calli, rab-
bercia gli strappi e sgonfia la fatica".

Ascolto parole mie venute alla voce senza di me.

Ora mi chiede scusa. La voce di nuovo chiara e
mi fa come acqua in faccia. Mi abbraccia, mi ripete
scusa, non capisco di cosa, non chiedo, la tengo sul
petto finchmi addormento.


Vado via col buio. Al giardino lavoro con premura
per tenermi caldo. Metto un sentiero di pietre lungo i
filari della vigna.

Un uomo alto, un africano, anziano, mi accenna
dal cancello. Vado da lui, si presenta, mi da la mano.
Chiede come sto, come va il lavoro. Rispondo alla
buona usanza di conversare un poco prima di entrare
in argomento.

Non so cosa ha da dirmi, intanto lo faccio entrare
e l'invito al capanno degli attrezzi a bere un caffche
mi preparo sopra un fornello.

Viene volentieri. Ha denti buoni per sorridere. Qui
fa il manovale, a casa alleva bestiame. Viene spesso in
Italia, mai per pidi un anno, poi torna. In bocca suc-
chia qualcosa. Non una caramella, un nocciolo di
oliva. Ama le olive scure, la forza dell'olio di chiudersi
in un legno duro da rodere, gli piace il gusto dell'osso e
lo rigira in bocca fino a che liscio e senza pisapore.

Le olive mi tengono compagnia, dice.

Una manciata gli dura un giorno.

Il caffsale, scroscia profumato nella gola della
macchinetta. Prima di berlo dice una preghiera, per
ringraziamento. Tu no, chiede, io no.


Prego, dice, davanti a ogni cosa che porto alla boc-
ca. Prego per legare il giorno al suo sostegno, come
faccio con la cannuzza vicino al pomodoro. Benedico
questo caffdi amicizia.

Forse per uno d'Africa pisemplice legare terra
e cielo con lo spago.

Tiene la tazza bianca nel palmo grigio di pietra.

Beviamo seduti di fianco sulla panca. Gli dico che
il suo italiano va bene. Risponde che la lingua gli pia-
ce pidel resto.

Dura vita qui, chiedo. No, buona, senza soddisfa-
zione con gli uomini, perbuona. Si esce, viene vo-
glia di scambiare una parola, dice, e niente, qui gli
uomini non rispondono. Senza soddisfazione, ripete,
ma buona vita.

Metto via le tazze, chiedo se posso servirlo in
qualcosa. S dice e m'indica le mimose. Sono in pri-
mo fiore, chiede di averne un fascio per venderle a
mazzetti.

Ne taglio una buona bracciata. E contento, chiede
il prezzo. Niente, ce n'tanta e alla pianta fa bene al-
leggerirsi. Vieni altri giorni finchce ne sono. Vuole
pagare, non avere debito. Allora mi paghi una botti-
glia a fine fioritura, ce la beviamo insieme.

Si siede in terra, tira fuori una lama robusta e si
mette a fare mazzetti. Poi se ne va, nero pieno di gial-
lo e ogni colore risplende in braccio all'altro.

Dalle coperte lasciate nel capanno mi ricordo del
letto di Laila. Dallo stomaco vuoto risale il pensiero
degli abbracci.


In strada verso l'osteria provo a ricordare. Arriva-
no solo pezzi, per ultimo un suo gomito con un ric-
ciolo di peluria chiara tutt'intorno.

Metto la minestra tra me e il libro appoggiato al
mezzo litro.

C'sole fuori e nella stanza non c'il sud gelato
di ieri. Mangio.

Il cucchiaio amico della lettura, pesca nel piatto an-
che da solo. La forchetta ha bisogno di piattenzione.

Gusto una zuppa di patate carica di spezia rossa,
intanto seguo un'avventura di porto condita di odori
scritti, non mi accorgo di Laila che sta in piedi in at-
tesa che io alzi gli occhi.

La vedo al giro di pagina, accidenti, mi tiro in pie-
di, mi levo gli occhiali, le do la mano, sposto la sedia,
cade il libro, insomma cerco di mettere un poco di
premura per risarcire la sua attesa.

Non lascio biglietti e allora lei deve tirare a indo-
vinare. Aspettare una mia chiamata dopo il lavoro?
Bugiardo, dice, da una sbirciata al titolo del libro,
chiede un piatto di pesce.

La guardo, dico: "Meraviglia che sei Laila, metti
gomiti sul tavolo come una regina che dove poggia il
peso lfa il largo. Tieni schiena dritta come la prua
sull'acqua. Che ci fai a mensa con un giardiniere?".
Alla buon'ora di qualche complimento, dice, poi s'in-
fastidisce di qualcuno che la sta guardando, cosmi
volto per curiosite un signore gira la faccia da un'al-
tra parte. Dice che comodo stare con un uomo, un
giardiniere per esempio.

Metto il libro da un lato del tavolo e penso che
ora sembra un segno di "uguale".


Lei e io stiamo dirimpetto come due numeri che han-
no di lato quel segno. Non so che operazione siamo.

Che penso? Le racconto il negro delle mimose, lei
ne prenota un ramo. Mi mette il palmo sulla mano,
quasi mi imbarazzo, lei no, lei regina di uomini.

Dita lunghe, mano spaziosa che somiglia alla boc-
ca, il suo polso pieno di volont Tiene la mano so-
pra la mia, dice che come impugnare un sasso.

Dice che ha voglia di tirarlo contro un vetro e
scappare.

Non sto in imbarazzo, amo da cinque minuti una
donna che va cogli uomini, l'amo con un oldegli occhi.

Non dura. Perchdeve? Smetta dove vuole, in-
tanto io amo: un poco scimunito da compagnie di li-
bri, con unghie mai precise, capelli corti e grigi quasi
tutti sul posto, piedi larghi, denti buoni, schiena
ispessita come un legno cavo, io amo dritto davanti a
mezzo metro una donna capitata a me.

Mi assorbo dentro una geometria: unisco i due
punti dei suoi occhi, traccio una linea che arriva in al-
to a un quadro di montagne e in basso a un gatto che
dorme. I tuoi occhi uniscono il sonno di un gatto a
un bosco di larici. Questa non la capisco, dice. Gliela
spiego, finge sconsolatezza: "Hai anche altre ma-
nie?". Un'altra s di sapere in ogni posto, pure al
chiuso, dove stanno i punti cardinali. La porta d'in-
gresso, e calo la voce come per un segreto, a nord.

Fa l'aria complice.

Tu sei a sud e io mi sento come uno che sta tor-
nando laggi


La porto al giardino, taglio un ramo, ora anche lei
ha addosso i batuffoli gialli. Vado a casa sua dopo,
chiede. S

Mi rimetto al daffare.

Sono un poco fiacco, il sole poggia bene a terra e
toglie il bisogno di mettere energia negli arnesi per ri-
scaldarsi.

Ammetto il fiacco per la notte sbattuta e scaccio il
pensiero di rimandare la seconda volta da Laila, ho a
noia i risparmi.

Zappo a smuovere terra intorno alle piante, a fic-
care un po' d'aria sotto l'erba scalzata.

Penso ai giorni del sud pieni di guai, guastati dalla
morte che stacca zolle di noialtri, ne infila a migliaia
vivi, appena acciuffati, dentro il sacco. L'amore allora
scambio di abbracci affondati, un bisogno di nodo.
E in fondo a ogni stretta finita, in fondo al darsi pace,
resta non detto un addio indurito.

Strano sapersi perduti tutti i giorni e non dirsi mai
addio.

Oggi quel saluto scambiato mi basterebbe. A di-
menticare.

Zappo e mi sembra di zappare nomi. Qui dentro
Europa antipodo di Argentina, il tempo non s'impen-
na come un cavallo, un applauso, una tromba di ven-
to: si stende come una pioggerella.

Non ho niente di me da proteggere qui.

Obbedisco alla tua buffa urgenza, Laila, penso,
tornando a casa tra uomini scoraggiati di stanchezze
sul treno della sera.

Siamo imbottiti di panni, siamo uova dentro im-
ballaggi.


A casa sotto la doccia ammetto che per essere un
uovo ho troppi peli.

Mi ricapita amore, percipenso al primo, mentre
ripiglio treno.

A vent'anni tento qualche amore scarso. Per una
ragazza mi piglia desiderio di andare insieme a un ci-
nema, per un'altra di passeggiare in un'altra citt Le
cerco, mi evitano, scrivo loro qualche lettera.

Mi mancano ma non smuovono amore.

Mi scordo di loro imparando a scalare montagne.

Poi incontro Dvora d'estate.

Ci sono creature assegnate che non riescono a in-
contrarsi mai e s'aggiustano ad amare un'altra perso-
na per rammendare l'assenza. Sono sagge.

Io a vent'anni non conosco gli abbracci e decido
di aspettare. Aspetto la creatura assegnata. Sto vigile,
imparo a scorrere le facce di una folla in pochi istanti.
Ci sono sistemi che insegnano la lettura veloce dei li-
bri, io imparo a lgere una folla al volo.

La setaccio, la scarto tutta, neanche un grano di
quelle facce resta nella retina. So sempre che lei non
c' lei, la assegnata.

Non ho un ritratto in testa da far combaciare so-
pra una faccia, no, l'assegnazione non dipende dagli
occhi, anche se non so da cosa. Aspetto d'incontrarla
per saperne la figura.

Aspettare. Questo il mio verbo a venti anni, un
infinito asciutto che non sbrodola di ansia, non sbava
speranza. Aspetto a vuoto.


Incontro Dvora in montagna. Io sto sulla parete
del pilastro della Tofana di Rozes. E' mezzogiorno e la
mia cordata di due sta nella sezione dei tetti.

Dvora sale una via ferrata dirimpetto al pilastro.
Sbuca da dietro e in un punto si trova affacciata da-
vanti alla muraglia dove due omini stanno in piena
parete collegati a una corda spessa un centimetro, che
da lontano deve sembrare un filo per i panni.

Io sto faccia alla roccia e sto scavalcando il secondo
tetto. Quando gli pianto il piede sopra Dvora grida il
suo saluto, limpido pidel mezzogiorno: "Ol. La vo-
ce mi piglia alle spalle e io la riconosco, lei, la mia asse-
gnata, lo so subito e mi pare anche di saperlo da prima
che non una faccia, ma una voce il segno che aspetto.

E mi volto verso l'alto e c'solo cielo e verso il
basso e c'il vuoto e lei dalla cima di fronte ripete lo
squillo del suo ole alza un braccio e io torco il collo
e vedo un puntino di vita che sta dritto su un abisso
di rocce sfasciate.

E mi levo il fazzoletto dal collo e lo sbatto mentre
sto ancora in linea di strapiombo e non importa se l'al-
tro braccio soffre a reggere per due e a non salutare.

E poi lancio in aria il fazzoletto rosso e quello pla-
na e precipita come un'ala colpita.

E grido anch'io ole il compagno di cordata stril-
la di sbrigarmi ad arrivare a un ancoraggio, ma io so
dire e fare solo olper un minuto e poi grido il nome
del rifugio dove si scende di ritorno dalle scalate. E
non la vedo pi

Tocchiamo cima in due ore, dopo un'arrampicata
sforzata veloce. Ci buttiamo in discesa come quando
scaricano i fulmini e invece primo pomeriggio e sole
pieno. E arriviamo al rifugio, lei non c' Il mio com-
pagno se ne torna a valle. Io resto seduto, spalle alla
porta perchaspetto la voce.

E arriva. Ecco Dvora, sento api nel sangue, un or-
so nel cuore, ogni battito una zampa che sfascia l'al-
veare.

Mi da la mano, io so che non gliela lascio pi

Dvora, argentina, sta viaggiando l'Europa in pre-
mio del diploma.

Dvora, leggera dentro scarponi di vecchio cuoio
abbronzato, mano arrossata dal cavo della via ferrata,
ciglia sbiancate dal sale del sudore e sorriso puntato
sui miei capelli scossi da un loro vento segreto anche
dentro una stanza.

Vengo con te, Dvora.

Lei dice: saliamo sulla Tofana di Rozes.

S domattina, per la via ferrata che passa nella
grande camera di scoppio della mina del Castelletto.
Cose di prima guerra, quando i soldati vengono spe-
diti a strapparsi centimetri di roccia con sforzi da gi-
ganti. Sono centinaia di metri in un buco che si avvita
in alto, a salti, ci vuole la pila in fronte dei minatori.

Faccio la mossa della luce in testa. Come Mos
dice, ride, fa ol

Dormiamo al rifugio, ci mettiamo stesi, ognuno
dentro il proprio sacco, vicini. Ci teniamo la mano, ci
addormentiamo subito.


L'indomani entriamo nel buio quieto di una grotta
scavata in un soffitto.

Racconto a Dvora i motori delle scavatrici che in-
ghiottono aria e sputano polvere.

Racconto i ragazzi mandati quassa inciampare
in crepacci e pallottole, a saltare di sotto per lo spo-
stamento d'aria di una bomba, vissuti per regalare oc-
chi ai corvi.

Dvora ascolta, respira, sale dietro di me legata al-
l'altro capo di un pezzo di corda. Da qualche feritoia
aperta per dare sfogo allo scoppio, misuriamo l'altez-
za raggiunta e ci calmiamo il fiato.

Usciamo dal cunicolo sugli spalti della parete ovest
in ombra e risaliamo i salti con spinta di elastico nelle
gambe. Il collo cerca l'alto dopo i molti metri a capo
chino.

Giriamo per terrazze di roccia, tra rimasugli di
trincee dove giovani uomini di un secolo ancora ra-
gazzo sognano di diventare vecchi insieme a lui, co-
me io adesso di diventare vecchio insieme a Dvora.
Guerra quando i giovani sognano di diventare
nonni.

Ci sono pietre annerite da fuochi di bivacchi.
Mettiamo passi sopra quelli di una gioventtrasfor-
mata in legno e filo spinato.

Risaliamo in traverso la Tofana, sotto di noi
sprofonda la valle Travenanzes, che prende luce dal
basso, dal bianco del suo torrente.

Dvora mi chiede i nomi, li ripete con gusto in
bocca, per l'assaggio di una primizia.


L'ultimo salto della ferrata un cavo attrezzato
che arriva alla base della piramide finale.

Sulla cima della Tofana, Dvora mi da un bacio e
mi chiama novio, sposo. E io sono pifelice di una
lepre di marzo. E mi chiama bashte, che in una del-
le sue sei lingue vale a dire: persona destinata a qual-
cuno. E a me piacciono i nomi in amore e la chiamo
anch'io novia e bashte.

E dormiamo nei nostri sacchi, ognuno nel suo, la-
sciandoci perle teste vicine. E nella notte ci diamo
un colpo di cranio da svegliarsi, da oioioi e dopo da
ridere.

Amore di nozze tra noi succede solo in Argentina.

Sto di nuovo alla porta di Laila con una bottiglia
sotto il braccio e un pensiero che mi scappa fuori
da dire appena nell'ingresso. E cosle dico subito
che fine di febbraio e gista andando in fiore l'al-
bicocco. Il freddo gli seccherla gettata e non dar frutto.

Per scherzare chiede se grave che il padrone
del giardino resti senza albicocche. No, dico, per mi dispiace la mia impotenza a trattenere l'albero.
Faccio il giardiniere e non lo so aiutare per non far-
lo correre ai fiori mentre inverno. E poi mi sento
responsabile del giardino.

"Manco tu fossi Adamo," dice e chiude.

Le do la bottiglia, me la rende con un cavatappi,
va ai fornelli a rimestare sugo. Snella di schiena, una
curva di frusta nella spina dorsale, braccia e spalle
spiccano dal tronco, che bell'albero sei, dico tenen-
dola tra me e i fuochi. Vedi frasche dappertutto, dice
ma non mi scrolla di dosso.

Ti innamori, giardiniere?

No, solo mi scimunisco.

E com' Bello.

Il sugo e una manciata di origano gichiamano
estate. Lo tengo nel pizzico e lo annuso per avviso ai
sensi. Laila mi assesta un bacio di allegria, svelto e a
schiocco. Porta sui panni un'essenza di mandorla.

Sminuzzo nell'unghia una piccola spezia rossa, la
spargo nel piatto e intanto chiedo se non la ingombra
la distanza di anni tra noi. Anzi, non abbastanza, di-
ce, tu mi smuovi in corpo l'infanzia quando abbrac-
ciavo i grandi per allegria di stringere.

E a te non pesa? Chiede.

Vedo nelle persone giovani, dico, il dolore di ama-
re poco. Tu non hai questa malinconia in faccia. Per sto attento a parlare con te per non pestarti i piedi.
Non come nel ballo. E come su un sentiero di pie-
tra che ha un po' d'erba cresciuta nelle giunture. E'
forte ma cerco lo stesso di non sciuparla e faccio pas-
si accorti. In case mussulmane si lasciano fuori le
scarpe e io faccio coscon te.

Mangiamo piano, zitti.

Davanti al cibo mi vengono gesti pilenti, Laila si
mette a tempo e vedo il suo adagio farsi intenso di
grazia. Si addensa il desiderio di toccarla.

Poi sento la sua voce sgretolarsi, come i suoni alla so-
glia del sonno. Sento che mi chiede qualcosa e che io le
sto rispondendo da una parte sola di me. Ce n'un'altra
in cui sto io, che ascolta la voce andare, senza governo.


Comincio da una musica, poi vengono frasi da
una lontananza e non so fare niente per fermarle.

Ci ammazzano tutti, noi della rivolta.

Schizziamo da un nascondiglio all'altro.

Portiamo addosso l'odore della paura. In strada i
cani lo fiutano e ci vengono dietro.

Nella fuga cerchiamo qualche vendetta.

L'Argentina strappa dal mondo una sua genera-
zione come una pazza fa con i capelli. Ammazza i
suoi ragazzi, vuole fare senza. Noi siamo gli ultimi.

Sto qui da anni per amare una donna e ora sto in
guerra.

A un posto di blocco succedono spari. Ci ferma-
no, abbiamo armi. Siamo due, lui ferisce un poliziot-
to e subito una scarica gli trapassa la gola e muore sui
miei piedi.

La sua faccia spalancata da uno sforzo. La sua
faccia mi da forza. Sento il rilascio delle sue viscere
ed quel puzzo che mi spinge fuori.

Da dietro la macchina esco allo scoperto, punto
verso il riparo dei due poliziotti, la loro raffica s'incep-
pa, gli sono addosso, sparo a un corpo che cade su
quell'altro ferito, vedo la faccia sbigottita di un ragaz-
zo, non piun nemico, non sparo su di lui, scappo.

Cossono i giorni, di corse.

Si afferrano soldi in una banca per continuare a
correre.

Prima di smettere, vado a sparare a un colonnello,
un solo colpo in mezzo alla folla di un marciapiede di
domenica. Ancora oggi non so se vivo o morto. Poi
vado a sud, dove le terre si stringono, dove stupido
scappare.


Cercano altrove gli ultimi di noi.

Sto in un'osteria di marinai e imparo a muovermi
nel chiasso perpetuo del vento di basso Atlantico.
Copre, nasconde, assorda, non viene di parlare.

Non ho fretta, ho preso panni di marinaio che
aspetta un imbarco e beve.

L'oste ha nome italiano, i nonni di Otranto, altra
specie di terra finale in mezzo all'acqua. Chiede quan-
do vado. C'un peschereccio di balene che va alle
Malvinas.

Sto in fondo al sacco della mia stessa vita, ogni
giorno buono per essere scosso fuori.

L'oste vuole che me ne vada. Forse mi sta aiutan-
do. Mi combina un imbarco di mozzo sopra un bat-
tello irlandese.

Prima di salire a bordo mi disfo delle armi.

Per la prima volta dopo tanti anni sento i panni
leggeri, le mani distratte, il vento urta che pupren-
dermi in braccio. Senz'armi non peso piniente.

Salgo sulla scaletta, non penso a nessuno, sono
l'ultima foglia dell'albero e mi stacco senza bisogno
di spinta.

Non penso alla ragazza amata, seguita fino a esse-
re parte del suo paese.

Ora so che sta in fondo al mare buttata al largo
gida un elicottero con le mani legate. Vissuta per
me, morta per regalare occhi ai pesci.

Salgo a bordo e per due giorni prima di partire ho
pennello, vernice e spazzola di ferro a raschiare via
ruggine salata.

Imparo i nomi di dieci uomini e la loro preferenza
per le cipolle. Uno le mangia a morsi come mele.


All'uscita dalla baia il vento solo forza, sbriciola
onde e infradicia le barbe.

Dormo su un'amaca appesa alle travature della
stiva, dondolo sopra la sala macchine.

Ho quarantanni e un sonno duro da prendere a
calci per farlo smettere.

Mi chiamano il morto, nessuno dorme dove riesco io.

Nessuno sa da quanta vita non dormo.

Il viaggio un'ostinata tempesta, con il motore a
minimo regime solo per correggere la deriva.

Si pesca male, con fatica doppia. La rete strappa
con pisforzo i pesci dalle onde e si slabbra, a toglie-
re sonno ai marinai.

La birra dopo il vento sembra dolce.

La domenica pregano, sono cattolici.

Il capitano ha buchi di schegge sulla faccia. Qual-
cuno di loro dev'essersi battuto prima di mettersi in
mare.

Mi portano con loro perchanch'io puzzo di guerra.

Mi pago il viaggio lavorando, ma non hanno biso-
gno di me.

E' inteso che mi lasciano alle isole. L'unico libro la Bibbia. La leggo in poca luce, in un guscio di ferro,
in un largo di mare.

Mi affeziono a Davide che pianta una sola pietra
in fronte al colosso e un solo libro, i salmi, in bocca al
mondo.

Non credo agli scrittori, ma alle loro storie, que-
sto rispondo a un marinaio impestato di lentiggini
che mi chiede se ho fede in Dio.


Si lavora il pescato, si congela, si sta sul mare un
mese e mezzo.

Sbarco a Soledad che non so camminare. Senza il
mare di sotto sbando e mi manca il vento che riem-
pie le orecchie fino a dimenticare. Sto sopra suolo
inglese.

Mi fermo a una locanda, la donna vedova di
un pescatore di balene, Maria, Maria Delsol si
chiama.

Faccio per lei il cuoco, aggiusto l'orto, bado alle
pecore gonfie di lana.

Di notte facciamo rumore. Maria forte come
una scialuppa che piglia mare contrario, io sto in pie-
di e spingo di remi.

I pescatori ridono e bevono con me una birra tor-
bida a sera, Maria li insulta, ma sta ai loro scherzi.
Scambio pesce con formaggio.

L'isola umida, ha stagni in cui macerano carbone
e piante.

Niente alberi, il vento falcia come un giardiniere,
c'erba corta e un callo di lichene e muschio sulle
gobbe. E' terra strofinata.

Il labbro delle pecore forte per strappare il pelo
corto e duro del pascolo.

Gli uccelli da pesca trovano in alto il punto di
stallo, poi si staccano dal fermo del cielo e picchiano
in un'onda.

Aspetto. Non ho niente da chiedere al tempo.

Ci sono pibestie che uomini, pidonne che uo-
mini, tutto pinumeroso di un uomo.

E succedono anni, io lavoro, do pace a Maria, non
tocco un soldo, non ci penso.


Alla radio risento una canzone di Argentina, il
giorno dopo l'invasione.

La voce di Laila m'interrompe, squilla in tutte e
due le parti della testa.

Capisco di aver detto molto. Bevo allora un bic-
chiere per sete e per stare zitto.

Sono stata io, dice, ti ho costretto a parlare.

Sai fare questo, dico.

S lo fa con la voce, una seconda voce che slega.

Che te ne fai dei fatti miei, chiedo.

Li amo, dice. Per mestiere faccio parlare gli uomi-
ni, sfilo notizie dalla loro testa. Con te ascolto senza
scopo, ascolto e imparo ad amare la vita che sta scrit-
ta sopra la tua faccia.

Hai gli uomini in pugno, dico.

Amo il tuo di pugno, risponde.

Non te lo do in testa perchmi sono scimunito.
Ride.

Non mi cavare pistorie, se non me le posso tene-
re, meglio che le dico da sveglio.

Domani devo partire, dice.

Domani, dico, e che ne so? Qui c'tutto l'oggi
che serve. Mi alzo, la sollevo in braccio e la metto di-
stesa.

"Tienimi, giardiniere, tienimi. E' tutto quello che
mi serve. Tienimi. E non mi chiedere."

Neanche saprei cosa.

Fai come con Maria, dice.

E tu fai come Laila.

E niente cosforte da staccarci adesso.


Poi vengono i giorni senza.

Al giardino Selim viene per le mimose e per parla-
re un po' del suo paese dove si va scalzi e per questo
si parla volentieri.

Quando tu metti le scarpe non parli, questo pensa
di noi. Senza la nuda pianta del piede sopra il suolo,
noi siamo isolati, dice la sua lingua che deve avere
dentro una lisca d'argento per essere cossonante.

E' verit dico, puro amen: tutta la nostra storia
una scarpa che ci stacca dal suolo del mondo.
Scarpa la casa, la macchina, il libro. A pensare cos lungo mi viene da sorridere: cosa almanacchi, giar-
diniere?

Gli chiedo dove abita, col pensiero di poterlo
ospitare. Risponde che sta in una casa abbandonata,
senza finestre e porte, e questo lui lo apprezza.

Dice: qui da voi si fabbrica con acqua della terra.
Prendete acqua da un pozzo, da una fontana, da un
fiume. Da noi si fabbrica con acqua di cielo.

La raccogliamo e quando ne abbiamo un poco,
impastiamo con quella. Le nostre case sono fatte di
pioggia, sono pinuvole che case.

E ride Selim, ride sulle case del mondo.


Sento distacco da Laila, non dalla terra. Ci sto so-
pra sempre, con le mani dentro.

Selim vuole pagare, ha un guadagno.

Lascia stare, senza di te la fioritura sarebbe ancora
qui, dentro un giardino chiuso. Tu invece sei il vice
del vento, la spargi lontano, l'appunti sul petto delle
donne. Sarei uno sfruttatore a prendermi una percen-
tuale sul vento. Paghi da bere una sera che non c' pigiallo da tagliare.

Mi accompagna al tavolo del mezzogiorno, mi sa-
luta. Va in Sicilia alla raccolta del pomodoro piccolo,
il ciliegino.

Gli dico che insegue la terra.

Inseguo la tua, dice ridendo, che corre sotto le
stagioni mentre la mia sta ferma.

Tra i capelli grigi ha un po' di polline giallo, la mi-
mosa gli dimostra affetto.

E in mano ha un rosso da bere nel bicchiere di ve-
tro e il bianco delle unghie e insomma Selim sta bene
in compagnia dei colori. Penso che questa l'eleganza.

Poi intinge il pane e dice: "Sono successi buoni
incontri a forza di andare oltre mare. La patata d'A-
merica ha trovato l'olio delle olive e il pomodoro fi-
nito sul grano".

Mastica con gusto, penso alla sua schiena scura
piegata sul rossoverde delle piante di pomodoro, al
sole che si va a caricare sulle spalle per dieci ore al
giorno e per la metdel giusto compenso. E alla fine
gli dico che un onore per me stare alla stessa tavola.

Sbando nel treno della sera, dopo il pomeriggio
appesantito da un bicchiere soverchio.

A casa mordo aglio crudo insieme a pomodori e
un uovo bollito e sbucciato splende per un momento
nel cavo della mano.

Prima che le pupille si rovescino nel sonno, porto
pensiero a Laila. Si mangia se no un cucchiaio di sa-
le insieme a una persona e gisi sta in amore. Ma pri-
ma di affidarsi, si dovrebbe mangiare una pentola di
sale insieme.

Sto con lei come in Argentina, senza giorno dopo.
Nei suoi abbracci mi torna al naso la torba dell'isola
di Soledad.

Nemmeno so se mi cercano ancora per il conto di
quegli anni. Non ci sono pisoldatini al governo, ma
le leggi sono buffe e magari se le dimenticano in vigo-
re, cosper distrazione.

Chissse Maria paga una taglia per i miei testicoli
o se le basta di maledirmi.

Non riesco a dormire, mi alzo a fare un caffe
guardare ai vetri: in fondo ai chilometri, neanche die-
ci, il mare.

E' notte anche quando lascio l'isola di Maria, sa-
lendo sul battello per risalire i paralleli del ritorno.

Non porto niente via, solo i soldi intascati in cam-
bio di ambra grigia, nascosta sotto lo sterco di pecora
per coprire il suo spunto di muschio.

Vomito alle prime onde, questo tutto l'addio.

Si monta verso la pancia d'equatore, pisi vicini
e meno ombra fa il corpo a mezzogiorno.

Mi fisso a una superstizione, che chi non ha om-
bra, neanche ha un passato.


Per dei giorni sto al sole per vederla sparire.
Ricomincio dalla linea di pareggio tra la notte e il
giorno.

I marinai festeggiano il passaggio sopra il parallelo
zero. Notte di baldoria a bordo, il mare spinge di pop-
pa a onde lunghe, il battello va in discesa.

I marinai sudano alcol.

Sono un passeggero, sto per conto mio. Perspacco
il naso a uno di loro che vuole cavarsi lo sfizio con lo
sguattero di cucina, un ragazzo creolo delle Antille.

Faccio male. Gli uomini vanno lasciati al loro dia-
volo e ci sono posti non adatti ai ragazzi. E ci sono
notti in cui gli uomini senza donne fanno tra di loro.

Il ragazzo scappa davanti a me, quello dietro l'af-
ferra, lui strilla, intorno ci sono solo io, ecco che
m'impiccio, quello caccia un coltello, io so come fare,
glielo fermo e gli scarico il gomito in faccia e quello
viene gicome la buonanotte.

Cospasso il resto del viaggio a dormire di giorno
e a stare in piedi la notte per non dovermi svegliare
con la gola tagliata.

Il giorno dopo gli faccio restituire il coltello dal
capitano che impreca con me e brontola di non im-
mischiarmi.

Sto a una finestra dall'altra parte di quel mondo e
di quel viaggio, eppure mi basta sapere che c'il ma-
re in fondo al rettilineo del buio per riassaggiare l'in-
sonnia dell'Atlantico.


Le prime notti resto sveglio sul ponte a vedere il
bianco di luna sul liscio dell'acqua. Se il marinaio
pensa a scannarmi, aspetta le notti di mancanza.

Incrocio per giorni la sua faccia cupa di affamato,
col naso viola di sangue scappato dai vasi.

Gli faccio intendere che sto attento, che lo temo.

E un minimo risarcimento, una soddisfazione. A
volte pubastare.

Il ragazzo per gratitudine vuole stare con me. Bus-
sa di notte alla cabina, mi porta una fetta di torta, un
caffspeziato. Ci sono uomini che perdono senno e
vergogna per dei ragazzi, posso intenderlo, ma non
nell'altro verso, di ragazzi verso uomini.

Mi racconta che il cuoco l'ha venduto al marinaio
la notte d'equatore. E dice che nessuno ha difeso il
suo corpo e la sua vita da che nato. Che mi debi-
tore di tutto, anche di amore.

Sento giaria di nord. Lui il sud col quale sono
stato stretto in amore, in guerra e in fuga per venti
anni. Non c'piper me quel sud.

Gli dico che la sua premura pidel grazie che
mi spetta e che l'amore non c'entra coi debiti.

Chiede se puvenire con me quando sbarchiamo
in Inghilterra.

Non so di che vivere, non so piniente del nord,
di come arrangiarsi, ma se stanco di mare puveni-
re con me.

Chiede di sentire un s S

Ora penso che Laila e io non abbiamo ancora un s o un no alle spalle. E non si in due senza i se i no.

Scendiamo dopo cento paralleli di latitudine, a
mondo capovolto.

Lo sbarco Londra e ci arrangiamo. Lavoro in
una falegnameria, lui di sera in un bar. Torna che dor-
mo, al mattino si alza per avviare il mio caff fare
buongiorno insieme.

La domenica camminiamo nei parchi, sentiamo
musiche del sud.

Mi chiede: "Se ero donna mi sposavi?".

Qualche sera non torna. Lavora in un bar miglio-
re. Ha una proposta da un signore di andare a vivere
con lui.

Gli dico che ora per me di rimettere mano a
qualcosa in Italia. Mi accompagna al treno la sera che
parto.

Mi toglie per l'ultima volta un poco di segatura
dalla testa. Solo a quel punto mi accorgo di amare
quella premura, di averla consentita lasciandomi ad-
dosso quella sfarinatura delle lavorazioni.

Sorrido di me che mi fermo alla buccia delle cose
e neanche capisco la mia intesa con la sua premura.

Col pollice mi fa un segno di croce sulla fronte,
dice: "Trovati amore".

E tu fatti rispettare dagli uomini. Sei un ragazzo
leale, hai gli occhi neri che non sanno nascondere.

Ci salutiamo e ognuno di noi si gira e va a infi-
larsi nella folla di sconosciuti che avvolge tutti gli
addii.


E ora penso che devo smettere di perdere per-
sone.

Il vetro si appanna a forza di guardarci dentro e
ci poggio la fronte dov'il tocco della sua croce e da
un posto remoto del mondo, a pidi un anno di di-
stanza, chiamo ad alta voce l'augurio della buona-
notte.


Passano giorni senza Laila.

Leggo una lettera dall'Argentina, un amico, uscito
dal carcere da poco. Il mondo, quello dei miei anni a
sud, sputa gli ultimi denti.

Scrive: "Devo imparare a camminare in linea ret-
ta, devo capire che i piedi portano via".

Il mondo si rammenda da un lato e da un altro in-
guaia ventenni nuovi.

Finisco di lgere la lettera al tavolo di osteria, la
piego e chiudo gli occhi per un poco.

"Cosa fa un uomo, dorme?"

La voce di Mimmo mi riapre gli occhi. Bentorna-
to, no, non dormo, sto sul pensiero di questa lettera.
Gliela do.

Si siede, dietro di lui c'una donna, la vedo solo
adesso, chiedo scusa, mi alzo, mi presento. Lei sorri-
de e mette un poco di simpatia nella voce.

Ci si siede, lui legge, io spiego alla donna la lettera,
il ritorno in libertdi un amico da un carcere dell'Ame-
rica del sud.

Buone notizie, dice.

Mimmo mi ridla lettera. Mi chiede perchmetto
pietre nella vigna, a che serve un sentiero sconnesso
tra i filari.


Non per camminarci, rispondo. Le pietre assor-
bono sole nel giorno e lo rilasciano di notte. D'estate
quel caldo leva la guazza notturna dall'uva e non la fa
marcire.

Da dove imparo, chiede.

Dall'Argentina della giovent dai vecchi italiani
di allora capaci di fare vino negli orti di Buenos Ai-
res. Ora non ci sono pivecchi italiani, nnuovi. Ora
lsono tutti argentini.

Un anziano, un nonno senza nipoti mi insegna. Sta
in Argentina da quando in Appennino gli tagliano il
bosco di querce per farne traversine di binario. Se ne
fugge da quel mondo che cancella i secoli dai monti
per metterli sotto le ruote della ferrovia.

Lui sente che il bosco tagliato grida di notte alle
stelle vendetta. Quando la caldaia della locomotiva
esplode, incolpano gli anarchici. Lui se ne fugge da
quel mondo. Porta con sun piccolo mortaio di pie-
tra arenaria e il pestello di faggio per fare il pesto, dei
semi di basilico e un mazzetto di vitigni di Erbaluce
con cui tenta una pergola nell'umido del quartiere
Palermo di Buenos Aires.

La donna mi ascolta attenta. Devono essere favole
per lei. Anche Mimmo sta zitto volentieri.

Coscontinuo. Nonno m'insegna a disfare il maia-
le. Lo lavora a sale su un vecchio legno di salice, met-
te aglio, pepe, vino dove serve. E appena scannata la
bestia, raccoglie il sangue caldo e lo frigge, spugnoso
e lo mangia per avere forza nel lavoro che va finito in
giorno.

Questo la disgusta. Non glielo dico, ma neanche
io riesco a inghiottire quella roba. Nessuno pirie-
sce. Perse vuoi un posto tra gli anziani devi ripetere
qualcosa delle loro usanze, della loro giovent anche
solo una figura di danza in un giorno di festa se pro-
prio non ti riesce d'intingere il pane nella loro zuppa.

Questo non lo dico alla donna e mi sto zitto. Lei
mi guarda la fronte e dice: ancora.

Ricordo Nonno raccontare di donne indie che
quando s'alza il vento di tempesta escono a seno nu-
do per fermarlo.

Ricordo Nonno spalmarsi sulle palpebre la pri-
ma viola spuntata dopo l'inverno. Poi non dico altre
cose.

Mimmo mi racconta di lui.

Viene da un viaggio lungo una delle linee di confi-
ne della guerra tra croati e serbi. In un paesino minu-
scolo sul fronte, due italiani hanno portato chissco-
me un forno per il pane, un bel macchinario.

Sono capaci di intrufolarsi ovunque certi nostrani,
dice. "Incontro un vecchio croato che stato per
molto tempo operaio in Austria. E' uno dei nostri di
una volta, di quelli che sanno aggiustare una macchi-
na fabbricandosi il pezzo di ricambio e poi sanno fare
il formaggio e poi sanno costruire una casa e fare il
vino."

La donna se ne sta magnifica in silenzio, appoggia
mento ai pugni e gisolo cosincoraggia. Offre il suo
ascolto, voglia e tempo.

Un po' la guardo mentre Mimmo dice. "Otto figli,
l'ultimo sparato in testa nel campo di casa, un colpo
che ha bruciato i capelli, tirato da vicino."


L'uomo anziano gli racconta come puessere at-
traente la guerra in principio. Debiti, furti, prestiti,
contratti, la guerra brucia tutte le carte. Per alcuni come un'amnistia, per altri una occasione di vendette.

Poi le case cominciano a bruciare con i figli den-
tro e ci rimettono tutti.

Quattro sono stati gli anni di guerra in quel paesi-
no. La vigna piantata da lui ancora piena di mine e i
grappoli d'estate scoppiano come i capezzoli delle
vacche non munte. Fanno ubriacare le vespe.

D'inverno lui prega la neve di seppellire la terra e
poi prega il gelo di indurirla per poterci andare sopra
a potare.

I campi intorno sono fermi, le mine aspettano i
passi.

Come crescono i bambini con tanta terra proibita
intorno, chiede la donna, ma senza volere risposta.

Mimmo lascia un po' di posto vuoto dopo la voce
della donna, per accoglienza.

Risponde che le donne legano i bambini quando
hanno da uscire e da lasciarli soli.

La donna sa di me, di Argentina, qualcosa detto
da Mimmo. E' giovane, non ragazza pere chiede per
una risposta: se credo di essere stato utile.

E' un aggettivo pratico, mi piace detto da lei, ma
non mi riguarda. "Si sta in una guerra anche per ver-
gogna di rimanerne fuori. E poi un lutto ti afferra e ti
mantiene dentro a fare il soldato per rabbia."

Mi piacerebbe saperne di pi dice.

Ne posso parlare solo bruscamente, senza dare
soddisfazione ai perch Sento che non spettano a me,
ma a uno che venuto dopo, se ne ha voglia, ne vada in
cerca per curiosite misericordia. Io non ne ho.

"Non capisco perchlei non si dia dei perchalla
sua storia. Mi sembra costanto avere una storia che
rinunciare ai perchuno spreco."

Rinuncio, perchsu tanta perdita di vite suonano
a giustifica i perch accampano attenuanti. Non so
attenuare.

"E' peccato. Conosco qualcun altro di voi che si battuto e che non parla pi non risponde. Vi tenete
le ragioni in corpo."

E cos dico per non lasciarla sola mentre a Mim-
mo dispiace la buccia di rimprovero della sua voce. E'
cos non sappiamo stare davanti a una domanda. Noi
siamo il rimasto di una risposta. Noi, dico e non so
chi sto mettendo dentro questa conserva del noi.

In gola inghiotto saliva e ci annego la voce.

Mimmo interviene per aiuto a me, dice che un po-
co di spiegazione mi uscita.

No, Mimmo, non buona per lei, basta solo a
me. E a lei dico che resto debitore. E porto il bic-
chiere al sorso, me lo vuoto piano e mi asciugo la
bocca e questo vuol dire che per me la conversazione
finita.

Ci si alza, ci stringiamo la mano.

Nel pomeriggio ho da spennellare a latte di calce
i tronchi degli alberi. Cosdico a Mimmo che stanot-
te c'luna e se si affaccia puvedere un bosco di
fantasmi.


Passo giorni al lavoro in un altro giardino. Ho da
scalzare un lastricato di pietra grezza e massiccia, ri-
portare a luce il suolo e lavorarlo a terra da piantare.
Solo cento metri quadrati, perla posa solida e le
pietre sono ancorate a una soletta di cemento e a una
rete metallica.

Ho da spezzarla con la mazza di ferro tocco a toc-
co. Sudo, mi sgrugno nocche e dita, dal corpo affiora
sale.

Mi conforto con mele e formaggio piccante.

Sotto la crosta del lastricato la terra spenta, sfi-
brata dal buio. E' arsa di calce.

Le occorre ossigeno e luce. Il salino assorbito va
corretto con terriccio acidoso.

Intanto per giorni batto di mazza e il manico di
frassino vibra a ogni urto.

Quando piglio il ritmo regolare riesco a sbirciarmi
anche da fuori del corpo.

Da dentro sento i colpi e gli sbuffi di sforzo, un
fiato in entrata quando alzo il ferro, un altro in uscita
mentre lo abbatto sulla pietra.

Il piccolo mantice del corpo spartisce l'andatura
in cinque tempi: due per salire mazza, uno sospeso in
aria, due per piombare a terra.

Dal fuori del corpo vedo un uomo di cinquant'an-
ni che bussa al portone della terra per buttarlo gi
per spaccare breccia nel suo grembo serrato.

Ammasso in un angolo ferraglia aggrovigliata a
corpi di cemento, poi la carico su un camion che la
porta via.


Alla fine sto sulla terra scoperchiata.

E' grigia, la rovescio a scasso, la rimpasto con ster-
co di cavallo e zolla di castagno.

La stendo pettinata sotto il sole di fine inverno
che se l'abbraccia intera e la fermenta.

Giorni solo di questo, a sera a casa schiaccio po-
modori crudi e origano sopra uno scolo di pasta e
sgranocchio spicchi d'aglio davanti a un libro russo.
Mi toglie il peso dal corpo.

Questo devono fare i libri, portare una persona e
non farsi portare da lei, scaricarle il giorno dalla schie-
na, non aggiungere i propri grammi di carta alle sue
vertebre.

In fin di sera Laila un soffio nel mio fiato carico
di aglio sul bordo del sonno.

Penso anche a Selim che prega a ogni addio del
giorno. Ci sono umiltche ingrandiscono un uomo.

Torno al lavoro nel giardino di Mimmo. Trovo un
suo biglietto, una donna venuta a cercarmi e lui ha
dovuto insistere per rifiutarle il mio indirizzo.

E' Laila, penso di chiamarla in serata. Invece entra
di foga nella trattoria a mezzogiorno, metin collera,
metfelice, una matassa scossa di capelli da poco la-
vati, forse ancora bagnati.

Soffia parole in faccia, un solletico agli angoli de-
gli occhi. Ridi pure? Protesta e poi sorride.

Non vuole sedersi, cossto in piedi anch'io, due
giorni che mi cerca, furibonda e allegra, mi prende-
rebbe a calci e a baci, dice, mangia un pezzo di pane
a strappi, non la mano mia, dico.


Poi vedi quello che faccio alla tua mano e al resto
quando non ci sono testimoni. E m'insulta e inghiotte
e poi si volta per uscire e mi ordina l'invito di andare
da lei dopo il lavoro senza passare da casa mia e se ne
va e cosmi siedo e ho un crampo di nausea allo sto-
maco, lo so, il mio corpo ama questa donna, avvisa a
morsi e chiama.

Glielo devo di obbedire ai suoi ragli, pure se ar-
ranco dietro la sua coda.

Mi passo il raspo nel palmo di mano sulla faccia,
mi rivolgo a mente: non siamo uguali, tu sei uno sche-
letro antico, io l'ultimo dei tuoi inquilini e sono lento.

Tu t'impunti come l'asina sotto Bilam in faccia al
primo angelo. A differenza di quello, io non ti sono
padrone e non alzo il bastone per farti proseguire.

Te lo devo, per il carico messo e per il rischio e
pure perchmai da te uno scarto al posto di pazienza.

Mi tolgo la mano di faccia e la metto alla bocca
dell'esofago per stabilire intesa. Il corpo ama Laila,
allora anch'io.

Cossi calma il nervo scattato nel suo arrivo, die-
tro alla sua voce e alla sua scomparsa brusca, profu-
mata.

A volte per mettere due passi in fila uno dopo l'al-
tro, ho bisogno di scrivere un contratto con me stesso.

A casa di Laila c'allegria, ha messo fiori anche
addosso.

Che concime usi per farli cosbelli, chiedo e glie-
ne tocco uno dipinto sul vestito.

Sei tu il giardiniere, indovina.


Bisogna che smuova un po' di sotto e che l'annusi,
e metto dita tra la pelle e la stoffa della scollatura. E'
questa l'idea di mettere un vestito a fiori, per attirare
api e giardinieri?

Ritiro il dito e ci soffio sopra fingendo scottatura.
E si comincia a scherzo prima di addensarsi negli ab-
bracci.

I ragazzi fanno la faccia assorta e concentrata in
amore, gli anziani lo prendono pia gioco e si fanno
scaldare sangue dalle risate. Le risate spingono.

L'acqua bolle ma non caliamo la pasta.

Quando torniamo in cucina resiste sul fuoco acce-
so un fondo d'acqua molto salata. Cosquella del
Mar Morto, dice.

Si ha appetito, friggiamo sei uova e ci strusciamo
il pane dentro nella stessa padella, faccia a faccia, lei
con la mollica io con la crosta.

Mangia pilei, io non so inghiottire svelto.

Verso un suo vino, francese, di quelli che fanno
fare un inchino al palato. Non ho bocca per queste
eccellenze, lei se se lo rigira in bocca e se lo culla, io
butto gialla svelta il mezzo bicchiere.

Con quei passaggi in bocca finisce che lo sputi, lei
ha un sussulto di riso mentre inghiotte e le va di tra-
verso e lo sputa davvero e mi piazza un pugno sul
braccio e poi scatarra rossa indemoniata.

Uova fritte la mia pietanza di ragazzo andato via
di casa, la scoperta di riuscire a cucinare: uova fritte,
per i primi mesi.

Deporre la padella senza lavarla perchraschiata
a fondo dalle fette di pane.

Parla tu, Laila, non mi fare dire storie.


"Ho fatto la dentista, ho un buon polso. So capire
il capriccio di una radice anche senza radiografia. Lo
tengo in tenaglia e so da che parte dare il giro per
estrarlo a verso."

Guardo l'attaccatura della mano, capisco la de-
strezza e la presa, una forza che sta pisul dorso che
nel palmo. Capisco le mani pidelle facce.

Non pidentista. Un giorno per errore incide
sotto un canino l'arteria palatina, la bocca dell'uo-
mo si riempie di sangue in due secondi. Lei riesce a
tamponare, a chiudere, poi smette il mestiere. E solo
un incidente, finito bene, ma smette lo stesso.

Chiedo se la mia bocca sta in buona salute.

S dice, la tua piena d'aria, una cantina cupa,
uno scavo di tufo, c'silenzio.

Nella lingua sento il sughero e i denti sono sassoli-
ni di ghiaia consumati dai morsi, dal pane.

Esiste molta varietdi bocche, dice, bocche gron-
daie che scrosciano di saliva e chiacchiere, bocche
marsupio che tengono sempre dentro un cucciolo che
dorme, bocche di busta chiusa mai spedita.

Parla senza mani, solo labbra.

Chiede se anche d'estate lavoro con la camicia ad-
dosso, perchil segno del sole sul corpo si ferma al
giro del collo.

S dico, un operaio porta pelle scurita sulla faccia,
la nuca, le mani: il resto villeggiatura.

Ride, non capisco di cosa.

Ha uno sbaffo d'uovo che le asciugo col pollice.
Spinge la bocca contro per ricominciare.

I nostri piedi scalzi si sfregano sotto il tavolo.


Siamo amanti che si tengono per i piedi anzichper
mano.

Ci riagguantiamo. Sono poco teso, lei limpida,
nemmeno un'ombra torbida nelle sue tenerezze di
scirocco che sbatte tutto un bucato all'aria.

Le donne del mestiere hanno un repertorio e
quando amano lo evitano e girano intorno a gesti ri-
saputi senza cadci dentro, scansandoli di slancio.
Inventano l'amore in mezzo alle rinunce, ai divieti di
fare come.

Amore in mano a Laila la cosa pivergine di
carne, lei lo cerca chiamandomi per nome col respiro,
chiamandomi fuori al suo aperto.

Infine la sua piena di abbracci mi accentra il san-
gue e lei si appaga del fondo che mi avanza.

Mi dice che pibello per lei quando sono
stanco.

E io so da capo che amo questa donna e che que-
sto amore ha diritto di essere l'ultimo per me.

E' notte e i nostri piedi si combinano ancora. Il re-
sto del corpo si staccato.

Penso a un'isola in cui restare scalzo, a un'isola
dopo Laila, quando giusto lasciare la terraferma.

Mi serve un'isola dopo di lei, dopo i piedi sciolti
dai suoi.

"Pensi a cosa," chiede, per sentirmelo dire.

A un'isola, a onde sbattute contro scogli, a un
vento che lasci venire su gli alberi, a un'acqua di poz-
zo e a una grondaia che gli porti dentro la piovana.
Penso al singhiozzo di una carrucola sul pozzo e al
brus di chiacchiere che fa l'acqua nel fondo e alla
pace di averne una riserva.

Poi invento cose di cui dire: penso a ... .

Hai buona immaginazione, dice.

S quella di chi si fa la barba senza specchio.

Laila mi ascolta e sta cosvicina al mio orecchio
da soffiarci dentro le isole.

Solo non dico che un posto per il dopo di lei. Si
va all'amore senza ritorno e dopo non ci si rinfodera
nella stanza di prima.

"Nelle cose che dici mi piace la tua buffa precisio-
ne. Ti chiedo a cosa pensi e tu apparecchi un'isola,
un pozzo e ci metti pure una grondaia. Vederti scom-
binato mi commuove. Credo che questa una izve-
stie di amore, una notizia di amore" e si corregge co-
me sua nonna russa capace di mischiare pilingue in
una frase.

Anch'io mi accorgo di notizie di amore. Il mio
corpo trattiene parole di Laila, quelle sul piacere af-
ferrato proprio sulla mia stanchezza, ed esulta di gra-
titudine. Questa una notizia di amore.

Domani ho da parlarti, dice.

Anche adesso. No, domani, ora tardi ma domani
sera s senza abbracci, solo parlare seri per un poco.

S per un poco, dico, perchpoi se non ridi mi
ammalo. I piedi si strofinano la buonanotte.


Nel giardino brucio la potatura dell'alloro, un
profumo che invita a chiudere gli occhi.

Da dietro il cancello ritorna la faccia carbonaia di
Selim. Lo invito al capanno, sei lo spirito del caff gli
dico, appari quando lo sto per mettere sul fuoco.

"Lo sento da chilometri, da prima che tu ne abbia
voglia," dice serio.

Ci si siede, gli chiedo del raccolto. Buono il lavo-
ro ma mezza paga di guadagno rubata dai coltelli,
solo metspedita a casa. Con i coltelli, in quattro,
che a spartirsi quel poco non ne ricavano una sera di
sabato.

Chi ruba a un operaio, chiedo.

Ragazzi senza bisogno, dice.

Male?

Quello che si prova da una vergogna, non da una
ferita, dice.

Poi Selim beve il caffseduto con me davanti al
fuoco di sterpi.

Con un ramo rimasto ne smuove un angolo. "La
cenere dice che devi partire."

Lo dice cospiano che se lo sento perchc'un
silenzio secco, affumicato.


Guardo la brace smossa che bisbiglia con un bru-
s di lucine. E' come la voce di Laila, ma invece che
farmi parlare vuole ascolto.

Ho un principio di fastidio per questo oroscopo
di terra, di occhi bassi, neri.

Inghiotto, dico solo che non ho posti da raggiun-
gere, qui nessuno mi insegue e nessuno mi aspetta da
un'altra parte.

"Devi andare."

Non vado pi ora il mio verbo stare e poi c' una donna da amare.

"La cenere vede sangue, anche il tuo sparso ac-
canto. La cenere non dice amore."

La cenere non sa i fatti miei.

Selim fruga in un altro punto, rivolta, sparge, mi
guarda in faccia e dice con una vena che gli riempie
la fronte: "Anche io".

Non so a cosa di mio si sta mischiando, ma gli cre-
do. Penso a qualche sua ora antica forse uguale a una
mia, se cos allora siamo pifondati amici.

"Non solo questo. Abbiamo un'ora uguale anche
davanti", e la sua voce smette con l'ultima fiamma
degli sterpi.

Non dire, Selim, teniamoci piuttosto a qualche
nostro caffventuro e la cenere sia cenere. Se ce l'ha
con me perchera fibra verde e viva fino a poco fa.

"Tu curi gli alberi e loro ti amano. Queste sono
loro parole per te, le loro ultime."

"Conosci tu un uomo, Selim, che parte dietro av-
viso degli alberi?"

Tu lo conosci, dice, e sono io, partito sulla cenere
di un nido di avvoltoi.


Io invece sono l'ultimo a partire, sono quello che
sparecchia e chiude la porta.

Ci sono molti segni, dice, arrivano con foglie, uc-
celli, gocce. La cenere l'ultimo avviso.

Sto zitto, finisco di bere la tazza.

La voce di Selim quieta, viene gida dopo, da
un tempo seguente a quello in cui stare ora. Annusa
un po' di vento e fumo e dice: "Siamo amici, lima
kuwa rafiki, bisogna essere amici". Smuove la cenere,
cancella.

Pezzo di santo d'Africa, penso, vieni a dare la tua
sapienza a un selvaggio d'Europa che segue la luna
sul calendario e le nuvole sul bollettino della radio e
non sa lgere nessuna parola senza un alfabeto.

E' cosaccordata la vita, cosmessa a spartito da
avvisare con segni, contrappunti? Buono per me di
non sapere niente in tempo. Perchci vuole la tua pa-
zienza per reggere di sapere. Ci vuole il tuo naso lar-
go, i denti affacciati a ridere, la fronte arrugginita dal
sudore, serve il tuo grigio incallito e non il mio colore
a buccia di uovo.

Selim finisce la tazza e brontola le sue sillabe di
benedizione.

"Ti intendi con la cenere e col cielo, quante ne sai,
Selim?"

Soffio solo un po' di grazie in alto, dice.

Faccio salire fiato, che si combina con le nuvole e
diventa pioggia. Un uomo prega e cosammucchia la
sostanza in cielo. Le nuvole sono piene di fiato di
preghiere.

Guardo in alto, arrivano da mare. Dico: accidenti
come pregano in Sardegna.


E lui ride con me e dice che buono ridere e che
la fede viene dopo di ridere, piche dopo di piangere.

Poi si alza, io sento in fondo all'intestino vuoto,
agitato dal caff un brontolio di tenerezza per Laila
arrivata sopra i miei cinquant'anni come un sasso su
un nido.

Non torno a casa da un giorno, penso mentre pu-
lisco la caffettiera.

Salti un turno e non torni pi Cosin Argentina
perdo un appuntamento e sono salvo, arrivo che si
portano via la famiglia dell'ultimo rifugio. Io resto
nell'autobus bloccato dai soldati mentre spariscono
dentro un camion i miei ultimi amici.

Niente mi puinsegnare la cenere, Selim, sono io
la cenere.

Selim fa un mazzetto coi rami di rosmarino e ti-
mo. Vuole provare a offrirli ai ristoranti. Ora che so-
no in fiore si possono mettere sulle tavole al posto dei
vasetti.

Secondo lui il commercio ha bisogno di merce
non ancora chiesta, e si deve inventare la domanda.
Cosgli sembra di offrire una primizia.

Come viene un'idea, chiedo.

"Guardo i giardini. Ci sono molte notizie nei giar-
dini. Perci sono pochi giardinieri" e fa un sorriso
che gli scopre i denti.

E io penso che la cosa piimportante all'etsua e
mia la manutenzione del sorriso.

Spargo la cenere sopra il terreno smosso intorno
al leccio piantato. Mi scappa di dirgli due parole, di
accarezzargli il tronco ancora lieve. C'giun petti-
rosso su un suo ramo.

La voce di Selim che saluta dal cancello arriva di
spalle insieme al sole che giscalda la schiena e cos mi sbottono il collo della camicia di flanella rossa e ti-
ro su le maniche.

L'ho addosso da due giorni, presa di mio odore
come il libro che tengo nella tasca della tuta.

In trattoria siedo al solito posto che controlla l'in-
gresso.

Per la prima volta alzo gli occhi a ogni entrata.

La notizia di Selim, l'avviso nella cenere, mi ha
dato un mezzo giro di torsione ai nervi.

La prima evidenza che mi guardo intorno. E
non mi piace e devo badare a non scuotere il corpo.

Mi ripiglia da una stretta di palpebre un principio
di Argentina, di occhi veloci, di giacca pesante e mi
passa un fiato caldo dentro il naso. E la mano va a un
gesto perduto e mi accorgo che sta sul posto lasciato
vuoto dall'arma degli anni del sud e prima di rigover-
nare i nervi avverto un annaspare in cerca di un og-
getto smarrito.

E ci metto un po' prima di tirare un fiato lungo,
per distacco.

L'oste si avvicina e siede, ha un suo alcol di noci,
me ne versa.

"A che pensi, uomo? A una signora?", no, dico, e
sento che si scioglie il fisso della palpebra e si spiana
un poco di sorriso. Penso a un paese del sud, ai molti
anni laggi


"Non ti sei ancora accorto di essere tornato, ve-
ro?"

Qui da te s rispondo, qui da te si sta come in una
casa di prima, capace di aprire a tutti. C'qualcosa
da festeggiare, chiedo.

"S" dice, "una specie di compleanno. In questo
giorno di molti anni fa uscivo di prigione."

Toccil bicchiere col mio: benvenuto fuori, dico e
lui: benvenuto a casa.

Mi butto l'alcol di noci in gola e nella strada in sa-
lita verso il giardino poggio con piforza il tallone
sul passo e l'Argentina mi esce dai pensieri.

A fine di lavoro c'ancora luce, Laila mi aspetta
al cancello. Non vuole parlare al chiuso, andiamo al
mare.

E' inizio di fioritura di glicine sul sentiero che arri-
va alla spiaggia, dal posto dove lasciamo la macchina.

Mi scalzo, vado accorto pial suolo che alle pri-
me parole di Laila.

Sediamo su pietre, la luce viene da un angolo acuto
che si stringe e chiama lontano dalle parole sforzate.

Le ascolto e penso a un chiasso di soldati che fru-
gano le rocce in cerca di me. So che mi spetta uscire a
uno scoperto.

Laila parla di un uomo da ammazzare o da esser-
ne ammazzata.

Il suo mestiere di far parlare gli uomini, al punto
di scasso. "L'ultimo viaggio mi pesato. Ci ho messo
molto a finirlo, non riuscivo, avevo il calco delle tue
mani addosso, dappertutto. Ci ho messo giorni, nau-
sea, nostalgia e adesso so che basta. Non posso pi
Lui ha capito, mi sorveglia, mi incalza con un altro
appuntamento e io cerco tempo ma non ne ho. Non
ci si dimette da questo mestiere. Quando non puoi
pifarlo, scappi o muori."

Ascolto male, penso a Dvora, ragazza di Buenos
Aires seguita fin laggi ai nostri anni buoni, alle do-
meniche in cui la sveglio passandole sotto il naso una
goccia di gelsomino per vederla sorridere nel sonno.
E intanto passano le folle in strada con bandiere e dal
balcone nostro sembrano una stesa di grappoli, le lo-
ro teste uva, e a noi all'inizio non passa per la mente
che quella folla nostra e canta per noi affacciati la
serenata delle sue ragioni.

Scorre di sotto e noi restiamo ai balconi, che un
modo di accompagnare.

E qualcuno da basso fa cenno di andare gie io
vorrei fare a tutti loro il cenno di salire su, per ricam-
biare e intanto li saluto cogli occhi e non mi accorgo
che Dvora scesa in strada e mi fa segno e m'insegna
e allora anch'io. E basta un anno e arriva la malora di
un giorno in cui la sbattono dentro una macchina e
me la staccano a forza e io resto piegato in strada dai
singhiozzi come un chiodo picchiato storto. Resto sal-
vo, scartato dalla morte per un verde di passaporto
italiano in tasca. "Dove ti ho portato, novio mio, qui
ci ammazzano tutti."

E si intorbidano gli occhi e io le passo il dito sulle
ciglia e le dico: "Ehi, cos'questa mescolina?". E
queste sono le ultime parole e l'ultima carezza sul
portone, prima di essere divisi a morte.

Vado via dalla casa della nostra dimestichezza, en-
tro nella guerra vagabonda dove ogni alloggio un
domicilio fto. Dalla casa di nozze porto via una so-
la cosa di Dvora, le scarpe da ginnastica coi lacci an-
cora stretti perchse le toglie facendo leva sui tallo-
ni. E' compito mio di sciogliere i nodi e tenergliele
pronte.

Porto via quelle, rimbambito di affanno, per debi-
to di cura tralasciata, per la speranza di vedergliele
ancora ai piedi.

Poi le dimentico e un anno dopo devo sgombera-
re un mio alloggio clandestino e le ritrovo sotto una
borsa in fondo a un armadio. Non ho niente di Dvora
perchsenza di lei mi tengo il niente. Le sue scarpe
stanno lcoi lacci ben legati.

Mi inginocchio e sciolgo i nodi, le asole. Poi le la-
scio li.

So che sta in fondo al mare con le mani legate. Io
posso scioglierle solo i lacci delle scarpe. Faccio
questo addio in ginocchio davanti a un armadio
vuoto.

Penso a questo sotto le parole di Laila e per una
volta di piso che di me non avanza niente.

Nel sobborgo a sud del quartiere Palermo di Bue-
nos Aires dove faccio in tempo a conoscere gli ultimi
vivi dei primi italiani arrivati, lavoro in una fabbrica
di scarpe, imparo il cuoio e gusto l'amore delle dome-
niche sotto il braccio di Dvora con la promessa di di-
ventare vecchi e scemi insieme.

Non ho neanche un rantolo di rammarico per gli
spari, la piccola guerra, la parte di vendetta presa e
non pagata.

Perchio sono illeso: non lo so dire, non lo so ma-
ledire.

Ascolto male Laila, piccolo ritorno di Argentina
feroce.

E' bene non stare adesso in una stanza, bene vede-
re un braccio di Tirreno invece dell'immensa foce del
Rio della Piata. (plata?)

Laila non chiede aiuto, parla per lealt come la
prima volta. Vuole scansarmi dai suoi guai. Le credo.

Accoppio le palme vuote, penso: anche tu con gli
ammazzamenti.

Le mani restano chiuse e anche le parole, non di-
co niente. E invece Laila dice: "Anch'io cogli ammaz-
zamenti".

Ascolta i miei ronzii di dentro, non reagisco, non ho
una sola frase da tenerle segreta. E poi dev'essere ben
scomodo ascoltare i pensieri, riempirsi del chiasso degli
altri anche quando stanno zitti. E' ben duro sapere che
uno, mentre gli stai parlando, pensa ad altro.

Il mare viola come il fiore del rosmarino, il vento
dell'ultimo sole sbatte i capelli di Laila sulla mia fronte.

E' cosche ti pigli i miei pensieri, coi capelli?

No, dice, un'abilitanimale, un resto di cervello
di serpente, di pesce, di rondine, o almeno questo im-
magina circa la sua dote. Persente solo i pensieri vi-
cinissimi.

Non mi spaventa questo? Niente mi spaventa in
questo amore.

Mi abbraccia il braccio e dice: "Mi fai scordare
chi sono".


No, te lo faccio sapere meglio, sei la donna con
cui sto in amore. Non c'titolo tuo pisicuro di que-
sto, per me.

"Mi passi una carezza in tutte le ossa, un bacio nel
midollo, mi fai pace in corpo," dice.

I suoi capelli mi frustano la faccia, vuole mettersi
sottovento, no, la trattengo, non voglio che i tuoi ca-
pelli sbattano a vuoto.

Stiamo zitti un poco ad assaggiare sale sul vento
che rallenta.

Fa schifo ammazzare, Laila. Non te lo togli pidi
dosso il grasso della morte. Non si leva. Sei giovane,
pensi che passa e per uno scatto di volontper un
poco te lo scordi. E poi un giorno che ti piace il mon-
do e te ne stai a guardarlo e senti l'aria fare il comodo
suo nel tuo respiro e magari pensi alla piccola quota
di ossigeno e al grosso dell'azoto, mentre pisei lon-
tana da quel sangue, quello torna perchtu s tu re-
spiri, sei un vivo, un maledetto vivo.

E chiami fuori le piurgenti ragioni per quel san-
gue sparso e ti ripeti che di notte dormi e che ogni
sonno contiene assoluzione, e niente, ancora l ap-
piccicato a te l'ammazzato.

E non c'entra rimorso e non occorre insonnia, ma
sono sedie vuote che ti stanno intorno, una donna
che cambia marciapiede quando t'incrocia, pane che
nelle tue mani si spezza male a briciole, facce che as-
somigliano a, un fastidio di avere passi alle spalle e,
alla prima fortuna capitata, il pensiero che anche tu
puoi finire sotto i colpi e che tu stesso non hai diritto
di scansarti.

E quando ammetti questo, senti pure sollievo.


Quanti assassini si lasciano ammazzare.
E continuo, continuo a dire a Laila il mio sgan-
gherato scongiuro per amore.

"Altrimenti mi ammazza lui. Perchnon voglio
picontinuare e da libera sono per lui un pericolo. E
sa di te e giper questo ti procuro un rischio."

Non so scansarti dal male. E' la seconda volta che
non riesco, ma alla prima vado da stordito e reagisco
in ritardo e per vendetta. Adesso che ho mezza vita
scaricata in fuga, neanche adesso riesco a salvare.

"Non mi puoi fare uscire asciutta dall'acqua. Io
gli servo finchcontinuo e neanche questo sicuro
che basti. Un giorno decide che una sa troppe cose e,
peccato perchbrava, ma meglio togliersi il pro-
blema.

Finora pensavo a durare, poi diventata impossi-
bile la durata e basta. E ci sto finendo dritta in bocca
a una delle soluzioni sbrigative.

Tu mi hai scosso in tempo, per un paio di rughe
sul collo, per un modo di sminuzzare salvia e profu-
mare dita, per il silenzio quieto che sta nei tuoi pen-
sieri.

Ora devo tentare di salvarmi. Ammazzare e scap-
pare e avere cosqualche giorno di vantaggio su gente
che sa di me e io non so di loro."

Chi sono, provo a immaginare senza chiedere.

"Sono gente svelta a far male. Ne conosci gi"

Ti serve aiuto, questo lo dico.

"No e meno ne sai, meglio "

Mi possono venire a cercare.


"Non lo so, non certo. Funzionano a settori, for-
se tu sei ancora un indizio per lui solo. Comunque
non potrai dire niente, non ti lascio un recapito."

Finisce qua Laila. Mentre lo dico si seccano gli
occhi, tocco il libro in tasca per appoggio, sento sul-
la fronte un vento di altre onde. E' l'Atlantico del
sud, dentro il corpo fuga e furia di non farmi acciuf-
fare dagli argentini sbarcati a occupare l'isola di So-
ledad.

E' aprile, autunno, scappo via da Maria senza dire
niente, lei dei loro e io sto da capo in terre di caccia
e di cattura.

Mi nascondo in un frastaglio di costa in un punto
dell'isola detto "passo di aquile", il punto pia sud,
tempeste e uccelli marini e onde e vento da consuma-
re orecchie.

Pesco, bevo acqua piovana, rubo uova ai nidi, fac-
cio fuoco di torba la notte e sento la trappola che
morde dappertutto e resisto, tanto per vivere. E sco-
pro una carcassa di veliero, recupero legno per la
grotta di riparo.

Resto di giorno al coperto a guardare mare.

Sento indurirsi la mia vita per assorbire il colpo e
accettarlo.

Non c'via di fuga, finita la terra, non c'altro
sud in cui scendere, non c'stiva di nave in cui don-
dolare un sonno di salvezza.

Vedo mare che raspa agli scogli e il bianco di un-
ghia delle onde il rigo che lo separa dalla terra.

Vedo la linea rossa del tramonto che separa gior-
no da notte, penso che il mondo opera del re del
verbo dividere e aspetto la linea che viene a staccarmi
dai giorni.

E vita un rigo lungo filato e morire un andar-
sene a capo senza il corpo. E vedo le picchiate di ali
dentro il cavo delle onde e neanche il pesce che ha
tutto il mare per nascondersi, si salva.

E gli uccelli che volano sopra: ognuno sta solo e
senza alleanza con l'altro. Loro famiglia l'aria, non
le ali degli altri e ogni uovo deposto solitudine. E io
faccio al buio di brace una frittata di solitudini e mi
sfamo.

E quando mi piglia di sentire che il mio tempo poco, penso a quello che sta scorrendo intanto nel
molto del mondo e passa accanto al mio: sono alberi
che stanno scrollando pollini, donne che aspettano
una rottura delle acque, un ragazzo che studia un ver-
so di Dante, mille campanelle delle ricreazioni che
stanno suonando in ogni scuola del mondo, un vino
che ribolle di travaso e tutto sta avvenendo insieme a
me e cosil mio tempo si allea con il loro per diventa-
re molto.

Pensieri d'oltrevita Laila, so che li stai ascoltando.

Dura qualche settimana, mi scoprono a forza di
frugare e scappo sugli scogli, sparano contro il vento
e c'un sassolino di piombo che infila il polmone e io
credo di vederlo mentre mi esce davanti e scappa pi lontano e io gli corro dietro finchil fiato smette tut-
to insieme e finalmente una bonaccia nelle orecchie e
sento i loro calci come da un portone e uno mi vuole
finire li e gli altri dicono che fanno bella figura a spe-
dirmi in terraferma e mi mettono sul cofano di una
camionetta come si fa con la caccia e girano la citt sparando in aria che hanno preso un terrorista e mi
chiamano l'aparecido e mi mettono in carcere e un
medico inglese mi cuce l'uscita e l'ingresso e mi dice
buonafortuna e anche di resistere che i suoi stanno
arrivando.

E io non so chi sono i suoi, ma dopo qualche not-
te sento i cannoni a mare.

E io sto sulla branda della cella e intorno non ci
sono piguardie e gridano di fame da altre celle e
niente cibo per giorni e poi arrivano ad aprire e sono
tutti pazzi felici e io non respiro, perso che la morte
mi sputa in faccia anche per questa volta.

E tutte queste storie stanno a un centimetro dalla
testa di Laila.

E ora di nuovo manca il tempo e bisogna arran-
giare una nuova notte, buona per lasciarsi.

Ci stacchiamo dal mare che buio, infilo scarpe e
un braccio sotto il suo.

Fino all'ultimo resto di noi, io resto, dico a Laila.

Andiamo in una stanza, dice, mettiamoci all'amo-
re. Non voglio sprecare la fortuna di un proiettile che
esce senza uccidere.

Andiamo al mio quartino, in periferia di mare do-
ve alle finestre gronda il bucato eterno e sui balconi
sbattono braccia di donne a maniche scorciate.

In cucina c'aria appassita, apro i vetri, entra il
grido strozzato di una partita di calcio nel cortile.

Laila si affaccia, poi apre cassetti, trova il cavatap-
pi e dalla sua tracolla esce una bottiglia e mentre met-
to in tavola i bicchieri inizia il ronz nella sua voce,
lo riconosco, cerco di fermarla con la mano, lei me la
tiene in aria e io sento ancora le mie parole andarsene
da me.

Le vedo mentre le pronuncio.

"C'una casa su un viale a siepi di bougainville.
Ldentro un uomo indossa l'uniforme e un altro in
strada aspetta di sparare. C'la minima scorta di un
autista.

Mentre quello esce io sbuco da un intrico di siepi
col vantaggio di essere veloce, solo e nella bocca
stringo le redini dei nervi.

E una radio attacca una canzone. E il tempo si
riempie di note musicali, io le calco tutte, i secondi
saltano come i passi di tarantella e vedo il fianco de-
stro di una divisa e una mano che va tardi in cerca
dell'arma e l'autista che tenta qualcosa, poi scappa
dietro un riparo e io salgo sulla sua macchina e parto
e sento qualche colpo, ma soprattutto sento la canzo-
ne della radio lasciata accesa nella macchina."

E io che sto sputando fuori un'altra maledetta
ora, ecco che smetto di parlare e comincio a cantare
quella canzone e mentre canto smette il suono d'al-
veare della voce di Laila a labbra chiuse. Canto e il
racconto si ferma, canto e non c'piniente da ob-
bedire e sto di nuovo dentro la mia voce.

E Laila dice che sono il primo che si slega da so-
lo ed felice di non avere questa presa su di me. "E
Il canto che allenta e stacca dal mio suono, ora lo
sai." E dice che anche questo un segno del suo
smettere.

Non hai questa presa su di me, dico, ma di pi
hai morsa, io sto con te immorsato come un pezzo tra
due ganasce, tu mi tieni, mi lascio tenere perchtu mi
vuoi e non trovo al mondo chi sa volere una persona,
spendere tutta questa volont

Ti voglio, dice, mi spetti e a te spetta di allargare
braccia e tenermi.

Ti amo per amore e per disgusto di uomini, ti amo
perchsei integro anche se sei avanzo di altra vita, ti
amo perchil pezzo che resta vale l'intero e ti amo
per esclusione degli altri pezzi spersi.

Ce ne stiamo quieti, beviamo il suo vino di viag-
gio, taglio formaggio riposato, ci spargo salvia e una
linea d'olio.

Mangia muovendo forte la mascella, mastica mol-
to, inghiotte piano, annusa l'odore della stanza.

Ho gibasilico in diversi vasi, quello il campo
degli odori.

Tocca una noce, me la poggia sul palmo, la metto
sul tavolo e l'apro con un piccolo colpo della fronte,
un gioco che diverte i bambini del cortile quando lo
faccio vedere alla finestra.

Laila ride, le Americhe, dice, mi hanno svitato.

Poi seria chiede se uno pupensare a un assalto
senza via di fuga, se bisogna essere sballati o solo de-
cisi di farsi ammazzare ammazzando.

E' America di sud, Laila, giorni senza giorno do-
po, si resta in pochi, si va all'addosso da slegati, si va
in faccia ai colpi senza piegarsi, tanto non dipende da
se stessi di vivere, durare. Siamo pesci sul pelo del-
l'acqua.

Non chiedermi, Laila, non sono piio quello, nes-
suno puessere quello a lungo, percile guerre smet-
tono e una generazione successiva prende fiato da-
vanti e cancella di dietro. Via di fuga, dici, ricordo la
fuga, ma nessuna via. Sono l'ultimo e corro fino in
fondo all'Argentina, non mi fermo pi

Corro sulle spellate pianure del sud dove sei in vi-
sta a chilometri e nessuno si andrebbe a cacciare l

Cerco il fondo, il vuoto.

Mi sento nascosto dal vento che fa stringere gli
occhi e addormenta le orecchie.

Cammino di notte lungo la strada. Se spunta una
luce dall'imbuto del rettilineo, mi sdraio con un ce-
spuglio sulla schiena.

All'alba lascio la strada e mi stendo a dormire,
lontano.

Un giorno mi sveglia una capra, vuole essere
munta. La svuoto, bevo il latte pibuono della vita
intera.

Passo qualche giorno con la capra, passi dietro
passi, occhi negli occhi.

Dimentico. La guardo e dimentico.

Dorme a fianco a me, all'alba mi lecca il naso.

Le cedo un po' della scorta di sale. Beviamo a un
fiume che si perso sottoterra. Lo risaliamo.

Da lontano vedo un recinto, la capra ci va verso,
io mi rivolto e torno.

Passo un giorno a levarmi le pulci in un'ansa di
fiume. Cerco nei panni i pidocchi come paesi sulla
carta geografica. Lavo, sbatto, asciugo.

Imparo a non temere i serpenti, bestie sagge che
leccano l'aria.


In due giorni ritrovo la strada, ripiglio a cammina-
re di notte verso sud.

Ho confidenza col buio, spalanca le pupille, alli-
nea i pensieri.

Da lontano una notte scorgo un fuoco di bivacco
sulla strada.

Mi avvicino sottovento, da non offrire odore a un
possibile cane.

Ascolto voci, due alpinisti italiani con la macchina
guasta.

Aspetto l'alba, mi faccio vedere, mi presento come
un argentino vagabondo. Mi spiegano il guaio, lo capi-
sco, lo rimedio. Ottengo un passaggio e una minestra.

E' pidi un mese che non mangio caldo, le viscere
borbottano una filastrocca come una chioma d'albero
al risveglio dei nidi.

Non mi chiedono niente.

Ascolto i loro fitti progetti, una nuova linea di sa-
lita su un pilastro di granito in fondo all'ultima cresta
di pareti del mondo.

Parlano seri e intenti tra loro, solo di quello.

Hanno i soldi contati, sono in viaggio da una setti-
mana, seguono una carta geografica, guardano solo
avanti.

Non riesco a ricordare di essere stato come loro.
Li ascolto da estraneo: sono uomini che hanno un la-
to solo, affacciati sulPinnanzi senza occhi alle spalle.
Sono uomini che non si voltano.

Disteso sui rotoli delle loro corde, sento sulla mia
schiena i fasci dei nervi che quando avvertono passi
di dietro mi fanno spostare, rigirare, andare loro in-
contro.

Viaggio con uomini che non si proteggono le spal-
le, che hanno tutti i rischi davanti. Li ascolto e mi ri-
poso. La strada sotto un affare di ruote, di mappe,
non pidi suolo e stelle.

Guardo la via sulla carta, per la prima volta so do-
ve mi trovo e quanta distanza c'dentro la fuga.

Con un motore sotto, il posto del sud che cerco a portata di un giorno.

Mi addormento dietro i migliori estranei, perico-
losi solamente a se stessi. Hanno una linea dritta da
seguire, calpestano un tracciato.

Approfitto della loro scia, vado per la prima volta
in linea dritta, ma la mia fuga a schizzo, a pieghe di
pipistrello.

E' sera quando d'improvviso chiedo di scendere e
saluto.

E strada di una cittdi mare, vado al porto, sfioro
col dorso della mano un canapo di attracco, odoro la
mia infanzia sul Tirreno, cerco di somigliare a un ma-
rinaio quando spingo una porta di osteria.

La stanza affumicata, il vento che s'infila insie-
me a me la scuote come uno strofinaccio. Una lampa-
da butta luce in faccia a chi entra. "Che cerchi, uo-
mo?" chiede una voce dietro un bancone mentre cer-
co di capire se il posto mi conviene.

Abbasso gli occhi e vado calmo verso la voce, an-
che se uno schiaffo sui nervi la sua accoglienza.

Mi siedo, dico che cerco un posto per dormire e
un imbarco.

"Per viaggiare o per lavorare?"


Ora che non sto pisotto la luce vedo l'oste, un
orso senza peli. Poggio le mani sul bancone e mi vie-
ne di dirla franca: che non sono marinaio, ma posso
fare qualunque lavoro per pagarmi il viaggio.

"Cose da ragazzi, non hai etdi mozzo."

Ora lo guardo. Vedo occhi viola di venuzze esplo-
se. Ha sessant'anni almeno e capelli imbiancati come
ghiaccio.

"Una vita di uomo dura quanto quella di tre ca-
valli e tu hai gisotterrato il primo."

"Ho un po' di denaro e posso aspettare," dico.

"Non credo. Hai fretta. Sei venuto troppo lenta-
mente al banco."

"Mi puoi aiutare?" dico e non so che mi piglia a
parlare cosinvece di uscire e andarmene svelto con
l'arma pronta a sconsigliare di venirmi dietro.

"Fammi vedere le mani," dice.

Gliele apro davanti, sono sporche, ferme. Me le
rigira subito sul dorso, mi scoperchia i polsi.

"C'ancora del buono in te. Ti mettersu una
nave e te ne andrai. Sarai salvo. Ti costeri figli: non
ne avrai. Quelli come te vanno lasciati senza."

E mentre sto per sputargli in faccia, sento una fit-
ta in fondo all'intestino e ci butto una mano sopra a
premere.

E lui mi dice con un'altra voce, bassa, bassa, che
c'una camera collettiva al piano di sopra e un letto
libero, e di starmene l di non uscire, che per i pasti
viene lui a chiamare. E io non so perch ma faccio
come dice. E salgo a un camerone e mi ripulisco pri-
ma di assaggiare un letto per la prima volta dalla fu-
ga. Armo il cane, perchse mi da agli sbirri voglio es-
sere pronto. Sull'attacco del sonno ho un pensiero
cupo: che salvarsi solo spingersi pia fondo nella
trappola, anzichuscirne. Solo morire uscirne.

L'oste mi sveglia per mangiare un suo intruglio di
pesci, sul bancone. Li spolpo con le mani fino all'ulti-
ma lisca, poi inghiotto il brodo a sorsi dalla scodella.

Mastico male, la faccia un cartone pressato, non
si scioglie al cibo, na un sorriso.

Sul muro dirimpetto c'una carta geografica del
mondo. E' capovolta, con l'Antartide in alto. Si accor-
ge che la fisso.

"Sei del nord," dice, "quelli del nord restano sce-
mi a guardare il loro bel pianeta sottosopra. Per noi
invece il mondo sta cos col sud in alto."

Me ne sto a occhi persi sulla carta.

"Vengono marinai irlandesi a riempirsi la vescica
di birra e guardano e muovono la testa come i cani
quando sentono lo strano. Teste di nord, teste cie-
che siete. Si capisce la terra solo se la rigiri cos
Guarda i continenti: spingono verso nord, vanno a
finire tutti dall'altra parte. Perchsi sono staccati
dall'Antartide e stanno viaggiando verso il basso del
pianeta, precipitano laggi Si lasciano dietro gli
oceani. E anche le correnti marine partono da qui,
da sud, perchqui il principio, l'alto della terra.
Ed terra, l'Antartide con montagne e vulcani, non
acqua raffreddata come il vostro ghiacciolo. Il nord
disegna carte false col suo bel polo in cima, mentre
il fondo del sacco. E poi per voi conta l'oriente e
l'occidente, mentre per noi solo acqua sbattuta,
oceani di ponente e di levante. Stiamo sul corno ap-
puntito del mondo, accovacciati al suolo per non
farci staccare dal vento."

Lo ascolto e credo a tutto quello che dice, anche
all'imbarco promesso. Deve arrivare un battello da
pesca irlandese, mi mette su quello.

Razza di oste del sottosopra, che sgrulla un uomo
solo cogli occhi e rigira le mappe. Mi sforzo di sorri-
dergli, non so pimuovere la faccia. Ho mani unte,
mi passo il dorso sulla bocca per pulirla, ma di pi per strofinarla, spingerla a una smorfia. La costringo
a indurirsi nel pistentato dei sorrisi.

Allora mi versa un mezzo bicchiere di acqua
torbida amara, offro io, dice, e la accetto e me la
sento scendere in petto come una coltellata e mi
accartoccio gli occhi per non sputare lacrime. E ac-
qua d'incendio per me che non tocco gradi di alcol
da anni.

Mi passa in corpo un principio di cordialit uno
starmene in pace di fronte a un altro uomo. Mi con-
segno a questo orso spelato che con la stessa mano
puspedirmi al largo o spezzarmi la spina delle
vertebre e chisscosa di me gli fa decidere una del-
le due.

La carta capovolta ora mi sembra giusta, m'inse-
gna a stare sull'antipodo. La fuga creduta verso il
fondo, si rovescia in alto. Sto in cima a uno scoglio e
aspetto il tuffo.

Di notte su una branda di una stanza collettiva
sento i fiati amari di marinai spiaggiati in cerca di un
imbarco, di viaggiatori che aspettano un passaggio di
fortuna. Siamo uomini dentro una stiva che non
prende mare. Nessuno parla all'altro. Di giorno stan-
no a capo chino, come i girasoli di notte.

Quando arriva il battello mi dice: "Sali a bordo
stanotte. Non portare peso, solo i tuoi panni. Butta
via il resto, non ti serve pi mai pi.

E cosfaccio.

Laila mi abbraccia, versa vino, me lo porta al sor-
so. Resto a mani chiuse a sentire i rumori delle fami-
glie intorno che si mettono a cena.

Dice che non conosce nessuno che parla del pas-
sato col tempo del presente.

Che me ne faccio delle girandole dei verbi? Non
sono il padrone del tempo sono il suo asino.

Va bene per gli scrittori il passato e il suo cerauna-
volta.

E il futuro fa comodo agli indovini che si arricchi-
scono coi pronostici.

Io conosco le vite che durano un giorno e arrivare
a notte gimorire vecchi.

Al futuro non servono verbi, vuole nomi. Il mio
sta nella parola grondaia che raccoglie in un pozzo
che non so, la piovana di un'isola di siccit

Il mio futuro, dice, sta in un maledetto verbo pra-
tico e sporco.

Ammazzare, chiedo, lei mette gila testa e toglie
le braccia dalle mie spalle.

Non dico niente.

Quel verbo una volta usato resta in corpo cos
all'infinito.


Entra un fresco ruvido. Le voci delle televisioni
cercano di squillare affettuose, le case vanno a regime
elettrico.

Chiudo i vetri, non accendo la lampada.

"Non ho piforza su di te. Ora sai che il canto
scioglie dalla mia voce. Basta una strofa a scrollarti."

Neanche se canto fino a domani mattina come un
fringuello cieco, mi posso pistaccare. Vado verso di
lei, la piglio in braccio, giro per la stanza, mi fermo
alla finestra e le canto: "E tu gondola, bella mia gon-
dola, sulle mie braccia dondolando" e lei oscilla den-
tro l'amaca delle braccia.

"Se tu sei mare, mi devi tenere."

E poi la stendo sopra le lenzuola.

Ci spogliamo e ci teniamo nudi senza baci.

Questa notte un riparo da custodire a mente,
non una barca di nozze.

Starsene a teste appoggiate, dirsi parole giuste per
piantarsi affetto e fare che duri lo stesso.

Mi guarda dall'alto di un gomito appoggiato sul
cuscino e mette il dito sul buco ricucito di quel colpo
scappato avanti a me. Dice che vorrebbe cercarlo e
metterselo al dito come anello di nozze.

"Fare senza di te, giardiniere, non me lo immagi-
no anche se spremo la fantasia. Posso pensare a fred-
do agli agguati, a sbrigarmi per arrivare prima di lui.
Posso pensare ai dettagli della fuga. Non riesco inve-
ce a vedere oltre di te."

Laila io sono per te un amore a vapore, una forza
di trazione buona a spostare i primi treni, le prime
navi senza vele.

L'amore a vapore va bene per un'et


Tu ne attraversi molte e ora stai nel tuo primo no-
vecento. Devi fare la tua guerra e se ne torni viva, poi
vengono gli amori elettrici, a turbina. Da qui non li
vedi.

L'amore che ti porto quello di una buona caldaia
che brucia legna, carbone, che va piano. Serve per
partire.

I tuoi trent'anni sono fermi da un pezzo.

Credo alla tua storia, che rischi di venire abbattu-
ta. E credo alla tua notizia, che da me ti proviene
spinta. Perio resto, tu passi oltre e io te l'auguro di
spuntare dall'altra parte della vita, anche se dev'esse-
re dall'altra parte del mondo.

"Mio amore a vapore, noi guarderemo giorni sgom-
beri e io, se riesco a vivere, cercherl'isola della tua
grondaia."

Non il giorno a venire, la notte a togliersi.

Conosco il punto. E' ancora tutto un lastrico di
buio, poi una carta per strada ha un tremito, meno di
un tocco di polso a un ventaglio, poi la mano di un
uomo s'infila una scarpa senza fare luce nrumore
accanto alla moglie, poi il crollo di capo di una vec-
chia che riaspetta il sonno leggendo un romanzo, ec-
co la notte si raduna con una mossa segreta in un
punto e il buio non un gas, ma un olio che striscia a
occidente.

Conosco il punto della notte in cui si stacca dalla
terra e le scivola addosso.

Per quanto un operaio gida parecchio in piedi
ha voglia che sia giorno, pure un pezzo di lui andreb-
be dietro alla notte, a fare il giro dell'ovest dentro al
buio.

In quel punto mi stacco dal sonno di Laila finita
sul mio braccio.

Lei prima afferra in cambio il cuscino, poi si sve-
glia. E' l'ora mia, dico, puoi dormire. Ma lei vuole
uscire con me, coschiede di toccare caffinsieme.

Nella cucina mezza spenta che prende luce dal
corridoio, ci facciamo scaldare da una tazza.

Lei strofina il naso e il sonno contro la mia faccia
rasata di fresco e sbuffa e inghiotte e si arruffa i ca-
pelli e io penso che fare addio tra noi come tirarsi
un colpo di pistola.

"Non pensare a questo, ora, non ce la faccio nean-
che a stare in piedi. "

Soffri il sonno ma continui a sentire i miei ronzii.

"E tu canta, cosnon sento niente."

Accenno la ninnananna della gondola e lei mi pic-
chia il petto con un pugno goffo, "Quella no, che
svengo" e svuota uno sbadiglio lungo come un richia-
mo di lupo.

Si appoggia a me, usciamo, l'aria di fuori brusca,
lei brontola "Che accidenti di vita fa la gente che esce
a quest'ora".

Laila, questo fanno i braccianti del mondo, si alzano
prima di luce, tornano dopo luce. Vanno da buio a buio.

Laila tira dentro un soffio d'aria, non so se sbuffa
o se sbadiglia.

Intorno, qualcun altro s'incammina, uno che co-
nosco, gli offro un passaggio con la macchina di Lai-
la, che si butta sul sedile di dietro accucciata a ripi-
gliare sonno.

L'uomo non dice niente, intimidito. Va in cantie-
re, dalla tracolla spunta il sughero di una bottiglia e
uno spento profumo di pasta. La moglie si sveglia
prima di lui per cucinarla e mettergliela nella gavetta.

E' carpentiere in ferro, arma i telai per i pilastri,
tiene le mani incrociate in grembo, due bucce di
arancia, rigate di capillari esplosi.

Lo lascio a una fermata.

Laila passa davanti, sveglia.

"Non so quando, ma sarnei giorni vicini. E poi
in qualche modo faremo per ritrovarci. "

Per coprire i pensieri mi metto a canticchiare una
vecchia canzone di Natale e di zampognari, Laila ri-
de, smette subito.

Di fronte al giardino del mio lavoro c'una mac-
china ferma con un uomo dentro. Non devo chiedere
se quello.

Siamo a un angolo in cui possiamo vederlo senza
essere visti.

Con un rauco della voce chiedo secco a Laila di
darmi l'indirizzo di quell'uomo e sento i nervi dare
un giro di perno, salire di un'ottava e ho caldo ai pie-
di e freddo in faccia.

"Non mi scombinare le cose," dice.

Insisto e sono brusco.

Dice una strada, un numero, non mi serve scriver-
lo, esco senza toccarla. Sento la sua marcia indietro.

Risalgo la via e prima di entrare nel giardino passo
lentamente a fianco della macchina ferma dal lato
dell'autista e ci guardiamo e io sento sale in bocca.


Uno di noi due gimorto e adesso a me non impor-
ta sapere chi.

Attraverso la strada e entro nel giardino.

Ho bisogno di fare una visita a quell'indirizzo.
Penso di andarci all'ora d'interruzione.

E pronta primavera, gli alberi sentono dentro il le-
gno una pressione di radici che sfogano in germogli.
Solo il noce aspetta.

Taglio il prato con la falce, l'affilo, taglio e affilo, il
fruscio veloce della lama un respiro corto.

Mi piace falciare a mano, mi viene preciso il colpo
da destra a sinistra che pareggia l'erba.

Oggi mi accorgo meno di fare il lavoro e di pi sento di richiudermi dentro il daffare, di affidarmi al-
le sue ore.

Il falciato profuma al sole, lo raduno col rastrello.

Al cancello Selim allegro per il caldo e ha una
camicia nuova. "Primavera, uomo, bisogna avere il
nuovo addosso."

E' alto robusto, un albero di uomo.

Ha il denaro e vuole pagarmi il bicchiere pro-
messo.

A mezzogiorno devo andare in un posto, non va-
do all'osteria, dico.

Vengo con te, dice.

Meglio di no, Selim.

Meglio di s uomo.

Lo dice coscerto che sto zitto.

Mi aiuta ad ammucchiare il taglio, poi mastichia-
mo insieme sardine e pane all'aria di aprile.


Erba buona per le bestie, dice, le mie farebbero
festa per questa, dice, peccato buttarla via. "Bestie
magre le mie, ma sane. Tra poco mettono gii figli e
devo essere l"

Non dico niente del posto da cercare, lui niente
chiede.

Si va come due operai che passeggiano all'ora di
riposo. Lui mastica e rimastica il suo nocciolo di
oliva.

Davanti all'ingresso riconosco la macchina del
mattino. Ci fermiamo a guardare, entro nel piccolo
viale che va verso il portone, poi ritorno. E' una palaz-
zina nuova, pochi nomi sui pulsanti.

E strada di sole abitazioni, solo un chiosco di fio-
raio.

Selim si guarda in giro col naso all'aria, come uno
che fiuta pioggia.

Siamo due operai venuti per un lavoro, che non
sanno bene l'indirizzo. Non c'passaggio di persone,
solo due anziani a spasso ognuno con un cane.

Giriamo dietro la palazzina, voglio vederne i lati.

Non so cosa devo tentare, ma so che i nervi me lo
insegnano sul punto.

Torniamo indietro restando zitti. Selim calca sui
passi, non li affretta, li preme sul suolo e li solleva un
po' pidel bisogno.

Gicalpesta la sua terra e guida la sua mandria,
penso. Succhia e mordicchia un nocciolo di oliva.


Al giardino mi rimetto a falciare.

Selim scorcia l'aiuola di lavanda, poi seduto per
terra a gambe in croce prepara mazzetti con lo spago.

"Il tuo giardino mi da commercio."

Da una tasca tira fuori il coltello, una lama forte e
piesperta della mia falce. Ammucchia mazzetti da
seccare.

Senza chiamarmi l'attenzione sento che dice
verso di me, ma con gli occhi sulle mani: "Non
vuoi il mio denaro, non vuoi il vino del mio debito.
Costu leghi, non sciogli. Tu dici no a un uomo e
non gli dai la pace di restituire. Io devo riscattare il
pegno. Bisogna essere amici tra uomini e si deve
essere pari".

Sento che sputa il nocciolo di oliva.

Continuo il lavoro, il suo discorso per essere in-
teso senza l'indiscrezione di rivolgersi.

Al margine del prato m'interrompe alla fine delle
ore la sua voce. Mi saluta. Gli tendo il braccio per la
mano, lui allarga le sue e me le mette sulle spalle.
Spalanca tutti i denti del sorriso e mi abbraccia.

La partenza decisa, questo il nostro saluto.

Mi piglia una fitta di amaro in bocca e mi sento
in torto per il vino promesso che non gli faccio ver-
sare.

"Non pitempo di vino, uomo. Porto via l'ulti-
mo fascio del mio debito. Ti risarcisco tutto insieme."
E sorride antico, lontano, un fiato d'Africa, un polli-
ne caduto dal viaggio dello scirocco, un alveare che
migra, un bianco di ali in bocca, che si spegne.


E se ne va al cancello col fascio di lavanda sotto il
braccio.

E allora chiudo gli occhi dietro il dorso di mano,
contro i pezzi perduti in un giorno solo e faccio una
cosa stupida. Mi metto in ginocchio sul prato e frugo,
cerco, trovo il nocciolo liscio dell'oliva e lo metto in
un vaso con terriccio scuro.

Dovrei andare a casa e dormirci sopra e rimetter-
mi le mani in tasca come prima di Laila. Prima di lei
io so il male di ammazzare e allora glielo posso rispar-
miare. Ci vado io, devo fare presto e non c'niente
da preparare. Ci vado e improvviso questa sera stessa,
come in Argentina.

Intanto i nervi s'induriscono.

Credo di poterlo assalire, di buttarlo gi Se ha
un'arma addosso uso quella e se no mi arrangio.

Mi sento una forza sfrenata salire dalla bocca del-
lo stomaco e una calma in testa pisalda di allora.
Non passa via dal corpo l'Argentina, solo un poco di
pelo ricresciuto sopra l'ulcera della guerra e degli
assassini.

E arriva una donna che a prima vista sa chi sono e
non se ne disgusta, ma mi sceglie e mi rimette alla ca-
sella infame.

Questa volta non scappo, questa volta resto.

Mi porto dietro dei guanti.

C'ancora luce quando esco dal cancello, cos passo dall'oste a scambiare due parole. Sta travasan-
do vino, gli do mano.

Poi libera un tavolo dalle sedie sopra e mi porta
una piccola forma di caprino, un pane scuro e una
caraffa di rosso.

Parla di una casa sul mare dove vuole andare a ri-
tirarsi.

Anch'io, dico, penso a una casa di costa, a una fi-
nestra a est e una pergola a sud. L'ovest e il nord per
me appartengono alle spalle.

"L'ovest per me," dice, "la schiena di mio padre
che parte per le Americhe. Lo vedo ancora salire sulla
nave e scomparire dentro l'occidente, per sempre.

Non esistono pivite nostre cos ora sono vite di
altri che arrivano da noi su qualunque punto che non
sia un porto. Buffo, no? Anche quelli che hanno un
passaporto non passano per un porto.

Percida me c'un posto e un piatto per quelle
vite."

Mastico qualcosa e do pochi sorsi al vino. La sera
pronta e mi devo alzare.

Chiede se vado a casa. No, non ci vado.

Non so come suona la risposta. L'oste mi stringe
la mano e con l'altra mi tocca il braccio che giteso
e aspro.

E' strada lontana, mi serve farla a piedi, far andare
il passo e il sangue insieme.

Bado al respiro, ai battiti.

Mi calmo e mi indurisco.

Sento nel braccio una forza schiacciata, da sfon-
dare una botte.

Scanso per strada le persone che vengono incon-
tro. Ho paura di sfiorarne una e solo cosferire.


Incrocio una donna, cambio marciapiede prima
che lo faccia lei. Un assassino deve stare in un vuoto.

Cammino e si carica il corpo.

Metto passi piduri, le braccia invece accompa-
gnano l'andatura muovendosi pochissimo, assorte in
un'attesa di scatti.

Le mani tengono le dita distese, distanti, a non
sfiorarsi tra loro.

Sento l'aria leggera sui polpastrelli.

Dal bordo delle unghie e dalla cima dei capelli mi
arriva il continuo controllo del confine spinato tra me
e il mondo.

Gli occhi vedono anche dentro, fissano il cuore che
spinge colpi densi e lenti, percorrono la spina dorsale, il
serpente irrigidito che dentro lo scheletro di ognuno e
da postura eretta come quella di un rettile all'attacco.

E so di essere uomo adesso perchsono la pipe-
ricolosa delle bestie.

Non caccia la mia, ma solo attacco per distrug-
gere.

Quando arrivo a sentire questo, sono pronto.

Quanti soldati cadono se non arrivano in tempo a
questo.

Sono nato sotto il cielo del toro, alle mie narici si
applica facilmente un anello di trascinamento.

Arrivo all'angolo della strada e vedo un po' di
mosso, un crocchio di persone sotto un lampione, un
incidente credo, e m'incammino ed proprio al nu-
mero controllato a mezzogiorno. E vedo polizia e c' uno sbarramento e ci finisco sopra e uno in divisa mi
invita a fare il giro che da lnon si passa e io chiedo
che succede e lui mi sbriga brusco con un gesto di
mano e il portone che devo passare quello del tram-
busto e io sono pronto da un'intera macchina di tem-
po e passerei pure sopra di loro e arriverei a quella
porta lo stesso e mi butterei sopra quell'uomo e ora
ho il braccio teso ad arco e a martello e posso fare un
fosso in terra se lo calo. E non posso metterlo in tasca
e tornarmene indietro.

E mi giro di colpo e penso di scavalcare da qual-
che parte e faccio due passi e sento un soffio di zolfo
che sfiata dal naso ed esce un caldo e cola per la fac-
cia e mi accorgo che sangue e le narici spruzzano
schizzi a terra a colpi di arteria e un uomo mi offre un
fazzoletto e mi dice di tenere la testa all'indietro e io
obbedisco e chiudo gli occhi e sento una voce di don-
na che parla di un negro e io penso a Selim con la sua
bella camicia nuova e mi appoggio a un muretto e mi
siedo per terra e forse dormo.

Apro gli occhi per la voce dello stesso uomo del
fazzoletto che mi parla e non so cosa faccio seduto su
un marciapiede, appoggiato a un muretto con delle
persone intorno.

Vedo sangue sulle dita, me lo sento spalmato in
faccia e mi ritorna forza.

Mi sollevo in piedi, ringrazio della premura, il
gruppo si allontana e l'uomo del fazzoletto mi tocca il
braccio per sostegno. Mi accorgo che vuoto, un
braccio lento, scarico e ricordo.


L'uomo mi invita a entrare da lui a ripulirmi, medico e ha l'ambulatorio accanto. Mi vuole misura-
re la pressione.

Mi chiede cose, che mestiere, dove, gli rispondo.

Si scusa di parlare, di impicciarsi, ma serve a con-
trollare i riflessi e le risposte nervose.

Da lui posso lavarmi. Allo specchio sono un pa-
gliaccio rosso con sbaffi dappertutto.

Lavo, strofino e non mi spiego un fondo di alle-
gria. E' ancora da farsi la cosa decisa e il tempo perso
stringe intorno a Laila. E in piin questa strada ora
ho una faccia conosciuta ed pidifficile uscirne ille-
so. Ma il sangue perso mi procura sollievo.

Esco rinfrancato dal bagno. L'uomo ha una bella
faccia bruna e scarna di contadino del sud, e pelle
sottile sulle ossa, da chiamarla zima.

Ha in testa una chioma fitta e bianca.

Mentre armeggia sul mio braccio mi racconta che
si sta ritirando nel suo paese d'origine, un posto che
mi ricorda un vino. Penso che incontro solo persone
che stanno per andarsene.

Sta mettendo a nuovo una casa e un podere. Vuo-
le appoggiare piedi sulla terra.

Non vuole picitt gente che ha ferite maledette,
pallottole, droghe, nervi. Vuole curare ossa, cuori,
vecchi.

Ho la pressione in regola, mi consiglia un bicchie-
re di vino. Poi pensa all'uomo sul quale si chinato
prima di me e mi dice che lo hanno ammazzato all'an-
tica come una bestia dei campi, scannata.

Qualcuno, una donna vede un negro afferrare un
uomo che esce dalla macchina e sgozzarlo. E vede
che va via senza neanche uno schizzo di sangue ad-
dosso, sulla camicia.

Lui accorre ai gridi di strada, trova la donna che
trema di paura e in terra c'uno stagno di sangue, e
piin lun uomo steso a faccia in gi

E lui gli prende per scrupolo il polso e poi sale a
prendere un asciugamano per coprirgli almeno la
faccia.

"Un uomo muore e la sua pelle perde calore come
la sabbia una sera d'estate. Viene voglia di scaldarlo,"
dice.

"Non se ne dev'essere quasi accorto, il taglio profondo, non slabbrato, da una lama assai affilata.
Deve solo aver sentito freddo."

E poi arrivo io e siccome ce n'poco, aggiungo
anche il mio al sangue della strada.

Mi ascolta il petto con l'orecchio freddo di un ar-
nese.

Mentre lui pesa i battiti mi succede di intendere la
cenere di Selim, il suo saluto e quello che capisco non
riesco a trattenerlo. Il sangue perso mi fa vuoto.

L'uomo dice che ho un muscolo di cuore grande
come una noce di cocco. Infine si stacca dall'ascolto.

Ci si lascia cordiali, lo ringrazio, lui dice che mi
viene a trovare per chiedere consiglio su faccende di
terra e di arnesi.

Volto spalle al posto dei sangui.
Vado alla stazione, a un treno che mi rimetta a casa.
Torno, questo verbo mi spinge, io torno dal sud di
un'ora di Argentina, navigo i cento paralleli in una se-
ra, mi separo da Laila e non voglio pensare all'amico
che riscatta un debito con un abbraccio e una gola ta-
gliata.

Mi proibisco il suo nome. Solo averlo in mente gitradirlo.

Io non so nessun nome, io canto canzoni, copro i
pensieri.

Mi volto verso il punto dei campi dove dovrebbe
stare l'Africa.

Sto a occhi chiusi verso quel punto, come fanno i
ciechi che riescono a sentire sorrisi e a voltarsi verso.

Devo tornare, sedermi in cucina, rimettere sangue
dal vino.

Siedo alla finestra di un vagone, non ci sono ope-
rai a quest'ora di sera, ma studentesse, commesse.

Tornano, pitardi di noi.

Le guardo, hanno voglia di ridere tra loro, di star-
sene allegre nel poco resto del giorno.

Ridono con scoppi che le portano via, ridono co-
me io cammino, bevo.

Tocco il libro in tasca, ecco un buon pezzo del ri-
torno, lo lascio stare, convalescenza per i giorni
venturi.

Mi tocco il punto del proiettile passato senza por-
tarmi via.

Le ragazze si preparano a scendere, io seguo ultimo.

Sul marciapiede alzo il naso al cielo e sento l'odo-
re del mio sangue secco.

Ci sono sere in cui il cielo un uovo e lo si pu guardare dall'interno.


Un fiato di maestrale porta ruggine e sale, il ferro
qui si ammala, il basilico invece rinverdisce guappo.

Sento dal ballatoio la sua accoglienza.

Apparecchio qualcosa, spengo la luce, siedo.

Mastico al buio, assorbo, ascolto, inghiotto.

E una sera pulita, senza luna. Mi profumo le dita
di prezzemolo e aglio, un po' d'olio dal pane mi cola
nel palmo e io sono contento di essere unto di quello
e non di sangue.

Mi passo sulla fronte un dorso di mano per can-
cellare il giorno.

Non sono innocente, non questo il sollievo, ma
solo quello fisico di un mestruo dal naso.

Un altro uomo sta al mio posto di assassino senza
togliermi colpa, solo la mossa toglie. Ora nel suo
braccio sta la replica del colpo sferrato a una gola.

E il suo braccio si contrae a ripetere a vuoto, fino
al puro accenno, la figura del gesto.

Un atleta prepara il suo esercizio con molte pro-
ve per addestrarsi prima. Un assassino ripete dopo
nei nervi fino a esaurimento la mossa della morte,
per l'allenamento alla rovescia di staccarselo di
dosso.

So che porta via con sil coltello per continuare
a tagliare pane, a fare mazzi di fiori, a spaccare un
frutto.

Chi ama le cose e sa il valore di usarle, non le ab-
bandona a un ultimo servizio maledetto.

Nel buio della cucina muore il mio secondo ca-
vallo.


In un giorno migrano le persone di un anno, nien-
te pi"tienimi" nnoccioli di olive.

Io resto e almeno per stasera non tocco la loro
mancanza.

Mi addormento sul tavolo, mi sveglio un poco pri-
ma dell'alba.

Ho da rifarmi domestico alle giornate a bocca
chiusa.

Prendo il libro fermo alla piega, mi rimetto alla
sua andatura, al respiro di un altro che racconta. Se
anch'io sono un altro perchi libri pidegli anni e
dei viaggi spostano gli uomini.

Dopo molte pagine si finisce per imparare una va-
riante, una mossa diversa da quella commessa e cre-
duta inevitabile.

Mi stacco da quello che sono quando imparo a
trattare in altro modo la medesima vita.

Mi rado in poca luce la faccia bagnata e il rasoio
prova un altro verso di passare la pelle.

Metto il libro nella tasca di dentro della giacca,
me l'appunto sul petto dall'interno. Nel vecchio po-
sto dell'arma ora c'il tutt'altro.

FINE.






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