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Erri De Luca,
Il contrario di uno.
 
Copyright Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano.
Prima edizione ne "I Narratori" maggio 2003.
Quarta edizione settembre 2003.
 
RISVOLTI DI COPERTINA.
 
Il due è il contrario di uno. "Questa notizia,
che," dice Erri De Luca, "contrasta con
l'aritmetica, è l'esperienza di questi
racconti. Da un cordone di madre ai due
nodi in vita di una cordata in montagna
si svolge l'avventura di un solitario che
si imbatte nella forma del due. E una ,
rivelazione, non sacra e neppure profana."
 
Queste storie sono emergenze che -
contraddicono la solitudine, imbrogliano
la morte. Una donna entrata in una stanza
d'inverno a portare l'inatteso calore
dell'alleanza fra i corpi. Un padre pittore
fedele al suo "pollice arlecchino". Una
fanciulla borghese in camicia bianca
e gonna blu dávanti al ciclostile della
rivoluzione che sferra una sua impossibile
domanda: "Ma tu non vuoi essere per una volta il prossimo di qualcuno?".
 
Erri De Luca è nato a Napoli nel 1950. Ha pubblicato con Feltrinelli: Non ora, non qui (1989), Una nuvola come tappeto (1991), Aceto,
arcobaleno (1992), In alto a sinistra (1994), Alzaia (1997), Tu, mio (1998), Tre cavalli (1999) e Montedidio (2001). Per "I Classici"
Feltrinelli ha curato Esodo I Nomi (1994), Giona /Ionà (1995), Kphèlet lecclesiasta (1996), Libro di Rut (1999), Vita di Sansone (2002).
 
Il contrario di uno.
 
Alle madri,
perché essere in due comincia da loro.
 
1. Mamm'Emilia.
 
In te sono stato albume, uovo, pesce,
le ere sconfinate della terra
ho attraversato nella tua placenta,
fuori di te sono contato a giorni.
In te sono passato da cellula a scheletro
un milione di volte mi sono ingrandito,
fuori di te l'accrescimento è stato immensamente meno.
Sono sgusciato dalla tua pienezza
senza lasciarti vuota perché il vuoto
l'ho portato con me.
Sono venuto nudo, mi hai coperto
così ho imparato nudità e pudore
il latte e la sua assenza.
Mi hai messo in bocca tutte le parole
a cucchiaini, tranne una: mamma.
Quella l'inventa il figlio sbattendo le due labbra,
quella l'insegna il figlio.
Da te ho preso le voci del mio luogo,
le canzoni, le ingiurie, gli scongiuri,
da te ho ascoltato il primo libro
dietro la febbre della scarlattina.
Ti ho dato aiuto a vomitare, a friggere le pizze,
a scrivere una lettera, ad accendere un fuoco,
a finire le parole crociate, ti ho versato il vino
e ho macchiato la tavola,
non ti ho messo un nipote sulle gambe,
non ti ho fatto bussare a una prigione,
non ancora,
da te ho imparato il lutto e l'ora di finirlo,
a tuo padre somiglio, a tuo fratello,
non sono stato figlio.
Da te ho preso gli occhi chiari
non il loro peso,
a te ho nascosto tutto.
Ho promesso di bruciare il tuo corpo
di non darlo alla terra. Ti darò al fuoco
fratello del vulcano che ci orientava il sonno.
Ti spargerò nell'aria dopo l'acquazzone
all'ora dell'arcobaleno
che ti faceva spalancare gli occhi.
 
2. Vento in faccia.
 
Le prime volte sperimenti il vento che fanno i corpi in
corsa. Vedi la fuga che ti arriva contro, i tuoi scappano, tu ti
tieni su un bordo per non averli addosso. Corrono zitti, nien-
te gridi, il fiato serve tutto per le gambe. Guardi la loro corsa.
È vento in faccia, corpi di ragazzi e ragazze schizzano via, nes-
suno bada a te. Poi qualcuno dirà sì, l'ho visto, era fermo sul-
l'angolo, appoggiato al muro.
 
Dietro arrivano le truppe in divisa. Tu aspetti la poca ter-
ra di nessuno tra i fuggiti e quelli che rincorrono, ti stacchi
dal margine, dal muro, tiri quello che hai in mano, tiri basso
per far inciampare, poi tocca a te schizzare. Hai avuto
tempo di guardare dove ti conviene, dove hai vantaggio,
meglio se in salita. Chi insegue ha già l'affanno e si scorag-
gia a correre contro una pendenza. Anche se vuole tirarti
dietro qualche colpo, è più scomodo un bersaglio che sta
più in alto.
 
Hai poco vantaggio, qualche metro, ma con la sortita hai
scombinato, per qualche secondo, il loro galoppo, li hai sor-
presi. Vedono te soltanto, ma gli frulla il dubbio che ce ne
sono altri, per un altro secondo guardano intorno. E un vec-
chio vizio del timore, quello di non fidarsi dei propri sensi
in punto di concitazione. Ne profitti e guadagni metri.
Hanno capito infine che sei solo una scheggia, quella che
sbatte contro le gambe larghe di chi abbatte un albero con
l'ascia. Dietro di te scoppia la loro collera e li trascina alla
rincorsa, senti che qualcuno strilla d'acchiapparti, pensi:
meglio ancora, sprecano a gridi la riserva d'aria, in venti,
trenta metri avranno il fiato spento, si dovranno piantare in
piena corsa a rifiatare. Intanto hai scomposto il loro inse-
guimento, i tuoi sono al riparo e tu puoi rallentare, tentare
di raggiungerli nel posto successivo, già concordato in caso
di fuga. Tu: chi sei?
 
Sei uno che un giorno dentro una carica delle truppe sei
rimasto fermo. T'è venuto sgomento per la corsa sganghe-
rata di quelli intorno, che se uno cadeva gli altri magari gli
passavano sopra con il panico. Ti dava pena la corsa goffa di
molte ragazze che allora non andavano in palestre e per i
parchi a fare allenamenti. Quand'è toccato a te d'essere gio-
vane, e giovane di strada, lo sport era stato l'ora di educa-
zione fisica in un camerone di scuola. I ragazzi sapevano
correre perché giocavano a palla nella Villa Comunale,
interrotti dai vigili urbani. Le ragazze non sapevano corre-
re. Imparavano allora, nelle manifestazioni attaccate, affu-
micate, inseguite.
 
La prima volta che non sei scappato t'hanno preso, anzi
te li sei presi addosso. Ti sei accartocciato in terra, è volato
il berretto per un calcio, però l'istinto t'ha consigliato bene.
In mezzo ai loro piedi era più difficile essere colpito, men-
tre è più comodo e forte il colpo su chi si piega restando a
mezz'altezza. Sfogano su di te, poi uno di loro ti spinge nelle
retrovie, buschi qualche altro colpo, uno più duro ti fa cade-
re ancora, viene da dietro, impara, sì, così impari che da
acciuffato, arreso, non sei al riparo, prima devi passare in
mezzo a loro. Non è come da bambini quando chi veniva
fatto prigioniero stava fermo un giro, nessuno lo toccava.
 
Qui stai nel purgatorio delle loro retrovie, spuntano colpi a
freddo, da guappi di cartone come si dice al paese tuo.
 
Così la prima volta sei rimasto acchiappato, meglio di un
pollastro, che almeno quello tenta di sgusciare tra le gambe.
Niente, tu li hai aspettati senza nessun pensiero, solo perché
non te ne volevi andare. Spinto dentro un furgone, la sor-
presa è che non sei solo. Vicino a te nel poco di luce c'è un
altro, vestito appena meglio di te, senza sangue sulla faccia
e sui panni. Chiede come stai, se riconosci, se sai contare.
S'interessa che non hai danni dentro il cranio, solo quelli
fuori. Dice che è dura una testa, mica facile romperla, però
sbucciarla sì. Ti guarda il buco, scostando il fazzoletto che
ci tieni, dice che torna nuova con qualche punto.
 
L'hanno preso, però è rimasto in piedi, ha scansato qual-
che colpo, non sono riusciti a rovesciarlo a terra, lo hanno
portato sotto le braccia a peso morto dentro il furgone, così
avevano le mani occupate. Gli è già capitato. Chiede perché
tu non sei scappato. Non lo sai, ma sì, lo sai, però non lo
vuoi dire che tutt'insieme t'è venuta vergogna di scappare,
una vergogna più forte della paura. Potessi dirlo nel tuo dia-
letto, "me so' miso scuorno 'e fui", mi sono vergognato di
fuggire, sarebbe preciso, ma in italiano suona strana l'inti-
mità di una vergogna, così premi più forte il fazzoletto sul
buco e resti zitto. Ora lo sai ma allora no: una quantità di
coraggi spuntano da vergogna e sono più tenaci di quelli
saliti dalle collere che sono scatti rapidi a sbollire. Invece le
vergogne sono di grano duro e non scuociono.
 
Intanto aprono e sbattono dentro un altro che resta
fermo in terra, lui si alza e l'aiuta a sedersi, quello resiste, ha
paura di prenderne altre, lui insiste, se resta per terra quelli
entrano e ripartono i colpi: perché non stai a casa tua che
puoi dormire per terra come il cane che sei. Così lo convin-
ce e lo sistema sull'ultimo sedile in fondo al buio del furgo-
ne. Si spalancano le due portiere, arriva a strilli e schiaffi un
gruppetto di sei, una ragazza pure, presi tutti insieme, chiu-
dono, il furgone parte, con la sirena e con la scorta.
 
Dove ci portano, chiede uno, in questura dice lui. Ci
arrestano, domanda, qualcuno sì, a casaccio, qualche volta,
risponde. Un altro ricorda che non ha detto niente a casa.
All'arrivo in caserma lui ti dice: quando aprono esco io per
primo, tu vieni dietro e stammi appiccicato, cammina più
svelto che puoi, non ti fermare, soprattutto non cadere,
guarda solo a terra, a dove metti i piedi, ci fanno passare in
mezzo a loro, se cadi ne pigli più di prima e ne fai dare a
quelli dietro che non possono passare.
 
E così è, lui esce, piglia i primi pugni e va dritto in fondo
al corridoio dei colpi senza inciampare nei piedi, negli
sgambetti, tu gli stai addosso e riesci a entrare nel camero-
ne senza altre botte in testa, solo calci. Ti ha aperto il pas-
saggio, senti per lui una gratitudine da lacrime. Dietro di te
il primo è inciampato, hai sentito i gridi, non ti sei voltato.
Quando arrivano pure loro dentro il camerone hai messo le
mani sugli occhi e non vuoi guardare. Ma ti servirebbero
altre due mani per le orecchie. Gli dici grazie, risponde che
non l'ha fatto per te, ma per sé, che se andavi avanti tu e ti
fermavi, lui ne prendeva di più.
 
Quante volte l'hanno preso, chiedi, altre, risponde.
Sedete vicino. Non chiedere di andare al cesso, dice, se ti
scappa fattela addosso, che tanto si asciuga presto. Gli chie-
di se ci arrestano. Se passiamo la notte qui, no, ci rilasciano
domani mattina; se no in serata ci portano in prigione e
almeno lì si può pisciare in pace.
 
Non sei scappato, ti chiede. No. Neanche lui, comincia-
no a trovarsi quelli che non vogliono scappare. Comincia a
formarsi una fila di ostinati. Sono ancora sparsi, ma ci si
conosce. Vi scambiate i nomi. Così passa la tua prima notte
da acciuffato, a parlare di domani, delle prossime volte, di
come fermare le cariche. Ecco tu sei uno che ha cominciato
così. Al mattino vi mettono fuori. Non vai al pronto soccor-
so, ma da un medico che aiuta i feriti delle manifestazioni,
ti porta lui, l'amico da meno di un giorno, al quale affidere-
sti il tuo paio d'occhi, perché quelli sono giorni in cui va di
fretta la fiducia, la lealtà e pure il destino.
 
Nelle riunioni, nelle assemblee molti conoscono molti. Si
parla di non farsi mandare gambe all'aria, di preparare difese
con chi se la sente di serrare una fila. Il più chiaro di noi dice
che non c'è differenza tra violenza di aggressione e violenza
di difesa, che una barricata è violenza pura e un sasso anche,
e una bottiglia di benzina. Dice che la differenza sta tra vio-
lenza di stato e violenza di popolo, una è sopraffazione, l'al-
tra no. E poi dice di levarsi di testa le parole esotiche spunta-
te in altri continenti, per esempio guerriglia che vuol dire pic-
cola guerra. Da noi, dice, si fa battaglia di strada, per poter
stare in strada anche contro i divieti, per non farci sbaraglia-
re, per non farci arrestare. Non è guerra la nostra, né piccola
né grande, è scippo con destrezza di qualche ora di manife-
stazione. Non liberiamo territori, ci pigliamo soltanto la liber-
tà di essere contro tutti i poteri costituiti.
 
A certi pare poco, e la rivoluzione? Viene, se viene, in
fondo a molte giornate di democrazia rubata. Chi ha stu-
diato il latino, dice, sa come rincorre i verbi la legge della
consecutio temporum, come infila frasi una dietro l'altra
con catena di verbi. Così è la rivoluzione, una subordinata
per noi oggi. Ma a noi spetta agire come se, come avercela
all'ordine del giorno e stare al mondo da rivoluzionari. Non
per la rivoluzione ma per la più elementare figura della
democrazia che è il diritto di manifestare. Trovare alloggi
dove possono abitare i nostri numerosi latitanti, avvocati
che difendono in tribunale le ragioni politiche delle nostre
mosse accusate, medici che curano i feriti non in ospedale.
 
Alla fine delle manifestazioni aumentano gli arresti, però
la fuga non è lo scompiglio di prima. C'è una linea che
assorbe urto e respinge. Impari a stare lì, tra quelli che non
si fanno da parte. Se uno finisce isolato con la truppa addos-
so si va a prenderlo e a scipparlo di mano. A te è toccato
questo sollievo, d'essere sradicato a viva forza dalla truppa
che ti aveva già arrestato. Ricordi un amico che assaltò da
solo un furgone fermo a un semaforo, senza scorta, prese le
chiavi al conducente e aprì le portiere e liberò tutti gridan-
do "Tana", come da bambini.
 
Intanto ti accorgevi che le truppe in divisa preferivano
puntare su persone isolate, non sulla tua linea. Attraverso di
loro ti sei accorto che i rapporti di forza per le strade stava-
no cambiando.
 
Hai continuato perché continuava e s'induriva in anni,
hai preso parte a scontri, assai, perché la folla degli insu-
bordinati aumentava e a quelli come te spettava responsabi-
lità di loro, dei venuti dopo. Nelle riunioni raccontavi il
diritto di provare paura, che è sana e fa ragionare bene. Non
bisognava strapparsela di dosso, non con violenza su di sé si
acquista coraggio, ma solo qualche minuto di audacia isteri-
ca. I nostri erano ranghi di chi ha a cuore il ritorno a casa,
non erano imprese per arditi ma per fiduciosi, per chi si fida
di quello sotto braccio, che rimane accanto. Bastava? Mica
sempre, però nelle mischie non serviva l'infiammato ma il
calmo, non un eroe ma un disciplinato.
 
Cambiarono i rapporti di forza fino al 75, quando, per
recuperare il vantaggio della forza pubblica, il parlamento a
grassa maggioranza dette in dote ai militi la legge che con-
sentiva loro di sparare in piazza senza causa di pericolo e
bisogno di legittima difesa, di entrare nelle case e nelle sedi
politiche senza mandato di magistratura, di tenersi un
acciuffato per due giorni e notti senza avvisare avvocato né
magistrato. Insomma permetteva il così via, imperversando
nella prateria bruciata dei diritti personali e pubblici. Da
quel tempo in poi mettersi di traverso nelle strade fu scelta
di pronti a tutto.
 
Oggi lo riconosci, era impossibile trattare con quella gio-
ventù. Da dov'era spuntata tutta insieme? Così avversa a
ogni autorità, strafottente di deleghe, di partiti, di voti, così
ficcata in mezzo al popolo, pratica di vie spicce, contagiosa.
Entrava nelle prigioni a schiere di arrestati, faceva lega con
i detenuti e iniziavano le rivolte contro il trattamento peni-
tenziario. Andava a fare servizio di leva e dentro le caserme
partivano gli ammutinamenti per un rancio migliore e una
paga decente. Negli stadi i tifosi adattavano i cori e ritmi
delle manifestazioni ai loro incitamenti. Da dov'era spunta-
ta quella generazione imperdonabile che ancora sconta il
debito penale del suo millenovecento? Non lo sai, immagi-
ni piuttosto che in un sistema ondoso c'è un'onda più ser-
rata e forte, che non si spiega con quella di prima né con
quella di dopo. Perciò immagini che prima o poi le genera-
zioni tornano.
 
Tornano, è tornata, adesso ce n'è un'altra che agisce co-
me un corpo, si muove da generazione. Altre età venute
prima di lei si sono aggiustate a figlie del loro tempo, hanno
aderito a esso in convinta ubbidienza. Questa di adesso,
come la tua, fa il contrattempo, passa contropelo, perciò è
contemporanea di se stessa, estemporanea al resto. Si occu-
pa del mondo, anziché del condominio. Tu la segui, vai die-
tro alle sue mosse e alle licenze che le autorità si prendono
contro di lei. Tu con le tue passate notizie di piazze arrosti-
te affumicate sei presso di lei scaduto: questa generazione
ammette di subire violenza ma non vuole sporcarsene rea-
gendo. Vuole che l'aggressione sia da una parte sola, snuda
il loro diritto e lo mostra allo stato di natura, per quello che
è: sopraffazione.
 
Ma ci fai cosa, tu e altri della tua specie ed età, in mezzo
a questi nuovi? Poco e niente ci fai, che possa servire a loro,
però ci stai lo stesso, richiamato in strada dal rosso di
Genova, di piazza Alimonda, della notte alla Diaz, del resto
alla caserma Bolzaneto, dal rosso sparso apposta che per vie
misteriose risale alle tue arterie e ti appartiene.
 
 
3. Febbri di febbraio.
 
Da qualche parte di là dal campo, sotto la verticale di una
stella che non potevo vedere, mia madre stava friggendo alici
infarinate. L'odore attraversava la cucina, poi il mare, supera-
va mezz'Africa, tagliava l'equatore e mi arrivava fresco, guar-
nito pure di mezzo limone da spremere sopra.
 
I deliri delle febbri non sono vaghi, anzi meticolosi,
aguzzi di dettagli. La testa diventa un congegno di orolo-
gio, batte sillabe di vita risaputa e persa. Intorno alla frit-
tura di mia madre nell'emisfero boreale era inverno, mese
di febbraio. Certo le mimose si stavano arruffando di pal-
line gialle, sudavano vaniglia. Il ghiaccio irrigidiva il fango
del cantiere, ancora l'anno prima per il freddo mettevo al
mattino la tuta sopra i panni per attaccare il lavoro. Era
l'altro febbraio di un altro mondo. Questo era di calore
acido, un'acqua ragia che scioglieva il colore dal corpo.
Sbiancavo goccia a goccia. Eccomi alla malora, cercata e
guadagnata, eccomi alla febbre di malaria sopra una bran-
da d'Africa, sotto una zanzariera che non mi proteggeva,
però mi separava.
 
La sera precipitava alle sei in punto, non me ne accorge-
vo più. Tremavo sotto una coperta militare mentre ogni altro
essere umano grondava di caldo dalla fronte. Buffo scherzo
battere i denti all'equatore, buffo il corpo assorto dentro i
suoi quarantuno gradi, mentre per tutti gli altri il termometro
segna trentasei.
 
Febbraio, era febbraio, ma avevo smesso di saperlo, di
contare i giorni. Battevo i minuti secondi nelle tempie. Gli
occhi non riuscivano a guardare fuori, trasmettevano visio-
ni, di rinfusa facce liete e poi spente dei tanti di noi morti a
trent'anni, con peggiori avventure della mia, accompagnati
da noialtri senza una parola di conforto, non per loro, ma
per noi, i colpevoli di tutto, di un secolo intero di rivolte.
 
Eccoli i nostri a trent'anni, dopo dieci di lotte politiche
fulminanti, morti di corsa, saltati dentro un buco d'eroina:
che guizzo, che schivata alla legge di gravità e di ritorno
alla normalità. Nessuno di noi reggendo a spalla il peso
alleggerito del compagno, imparava da lui la grazia della
resa, anzi induriva gli zigomi e calcava i passi. La cassa
portata da noi diventava quella di un morto a bordo, pron-
ta al lancio in mare.
 
Ora toccava a me, però non come loro: me ne andavo in
disparte. Era solo malaria, buscata per volontà di raschiare
l'ombra dal muro, questa almeno era la sentenza che mi bat-
teva nelle tempie, senza lo sforzo di capirla. Mettersi a un
servizio, consistere in un'opera: erano pozzi, pale a vento
per tirare su l'acqua con l'energia dell'aria, serbatoi, fonta-
ne, insomma trascinare un po' di nuvole in terra, addome-
sticarle a una mungitura.
 
Toccava a me, ma non sarei passato sulle spalle di nes-
suno dei miei. Mi succedeva di ardere di febbri come una
partoriente di setticemia prima che il Novecento scoprisse
la premura della disinfezione. Morivo di una morte antica
che sbatteva i corpi nel tremito come si scuote un panno
dalla polvere. Cos'altro era quella vita in secca, se non pol-
vere? Non il corpo era polvere, ma l'anima. Il corpo era
acqua versata, l'anima il pulviscolo. Nei sorsi ficcati a forza
in bocca inghiottivo ferro, carbone, sabbia di silicio, bevevo
la scomposizione del corpo in elementi.
 
Da qualche parte nell'emisfero nord, febbraio portava il
carnevale nelle strade, i ragazzi lanciavano manciate di fari-
na sulle ragazze. Là dov'ero, le donne del villaggio l'avreb-
bero raccolta a cucchiaini grattandola dal suolo e dalla suola
delle scarpe, scuotendola dai vestiti, leccandola dalla faccia
con la scusa di un bacio. Andavano all'acqua con passo di
cammello, tornavano con passo di giraffa tenendo il collo
teso sotto il bilico della giara piena. Donne intorno al fuoco
di sterpi, bambini appesi al collo, addormentati ai piedi, con
le mani al mestolo a tritare polvere dal frutto di manioca,
polenta che mi aveva sfamato e indebolito. Donne seppelli-
vano uomini spolpati fino alla lisca, ora toccava a me, le
corde della voce erano un filo di ferro arrugginito, che
rispondeva un rauco "niente" alla visita di chi chiedeva se
poteva fare, se mi serviva cosa.
 
"Si kitu", niente, le parole di una lingua di costa
dell'Oceano Indiano mi avevano aiutato ad attecchire tra gli
uomini, ad avere posto nelle loro voci la sera sotto l'albero
maestro del villaggio. È buono raccontare storie in una lin-
gua che ogni sera sforzi di allargare, aggiungendo vocaboli
nuovi. Così anche le storie si ingrandiscono. "Si kitu", nien-
te, era la buona parola, ultimo resto di un vocabolario che si
era seccato come un pozzo, lasciando una corda a dondola-
re leggermente sopra il preciso niente.
 
Da qualche parte una donna aspettava risposta a una sua
lettera: "Se non torni abortisco, ho già fissato l'ora in ospe-
dale". Addio ragazza, le mie nozze sfumano, ti mando per
saluto cartoline da una febbre panoramica, da una branda
safari, con francobolli illustrati da antilopi e leoni, raggiun-
gi il tuo ospedale volontario. Per allontanarla ficcavo le dita
nel cavo delle ascelle, poi le portavo al naso, ecco veniva l'o-
dore abbrustolito dei lacrimogeni, il frastuono di gridi in
una mischia, colpi, qualcuno a terra, sono io, le guardie
addosso, un varco tra di loro aperto da compagni che mi
strappano alle mani, mi rimettono in piedi, in libertà.
Rituffo le dita nelle ascelle, ecco l'odore dei lubrificanti
bianchi che bagnavano gli utensili del tornio sulla pedana di
fabbrica, ecco il taglio dell'acciaio sopra il ferro immorsato,
il controllo del calibro, i riccioli metallici lucenti nell'arco-
baleno dell'olio. E nessuna invidia per chi stava in quel
punto al posto mio alle macchine della sgrossatura.
 
Una canzone di De Andrè bussava alla fronte chiusa,
portava la voce del ladrone in croce accanto a Cristo. Lui
ladro senza resurrezione si rivolgeva ai vivi: "Stasera vi invi-
dio la vita". No e non io; la febbre aveva spurgato i deside-
ri, non lasciava residui di rammarico, non protestava distan-
za dalla vita svolta né voleva tornare in alcuna stazione, su
nessuna pedana di fabbrica, in nessun autobus delle cinque
del mattino tra uomini crollati prima ancora di attaccare il
giorno al suo gancio da macello.
 
La testa sbolliva lontana, era soltanto una delle parti del
corpo nel forno della febbre, aveva perduto centro e coman-
do. "Se non torni abortisco." Non solo tu, pur'io abortisco
vita, però a cosce strette, rannicchiate al petto, le braccia
abbracciate, le dita nelle ascelle sotto il freddo.
 
Freddo, angelo mio custode delle notti di addiaccio,
bentornato, grazie del viaggio fatto per venirmi a trovare
fino in Africa. Freddo di nord ficcato insieme al fiato sotto
le coperte, freddo di una stazione di arrivo in una città stra-
niera in cui cercare tutto, da uno sciacquone a un posto di
manovale, freddo di scale, freddo di donne, freddo di pan-
chine, freddo saldami le ossa che sbattono, stringimi forte,
fammi fermare l'abbraccio di me stesso, già mi sono saluta-
to abbastanza.
 
In dormiveglia rilasciavo la morsa, le braccia allentavano
se stesse, non venivano sogni, ma passi, qualcuno mi tocca-
va un polso, mi asciugava la fronte, i capelli bagnati, mi
bucava un braccio, cerca pure, non troverai niente, si kitu,
rafiki, niente, amico.
 
Sì che amo l'inverno e febbraio noce di ghiaccio, amo le
nevi quando il vento le stacca a fagottini dai rami degli abeti
e le congiunge a neve con la bussata di un bacio, amo feb-
braio che rosicchia luce al sole, lo trattiene di più giorno su
giorno, amo febbraio che risale l'orizzonte, amo il pettiros-
so che ha resistito senza migrare a sud, amo il mandorlo che
apre il fiore bianco di pupilla e lo sparge sull'erba scolorita
dalla brina, amo la vita che continua senza di me, amo l'on-
da che passa a scavalcarmi, amo, spingo sul verbo amare,
buttami fuori dalla parte sporca, sono pronto, non ho urina
né feci, sono peso sgocciolato, al nudo, al netto, scaricato di
colpe. Morirsene, credo, non è una condanna, morire è
essere assolti. Con tutta l'ira della febbre io amo, amo il
cuscino zuppo del mio odore, amo la zanzariera che imboz-
zola il mio corpo di larva, amo, amo.
 
Mai mettersi a pronunciare il verbo amare. Me lo davo
per slancio di staccarmi, per caricare il tuffo e scalciare la
vita con due colpi di tacco. Invece m'inchiodava di nuovo i
piedi al suolo, i piedi, proprio loro per primi ritornavano
indietro. Loro che anticipavano il corpo, sempre avanti:
dalla loro pianta ripartiva il calore, l'asciutto. Spuntarono
dalla coperta per uscire, volevano slegarsi e andarsene da
soli a spasso sull'Africa, nudi sopra la terra rossa. I piedi già
tornavano mentre la testa ripeteva la nenia: niente, si kitu,
non mi serve niente.
 
E poi dai piedi il verbo amare risalì le ginocchia, risentii
la vescica, l'impulso dell'urina, nessuna forza di spostarmi,
così la versai nella branda tra le gambe, scura come il san-
gue, calda pure come. E le dita si tolsero dal cavo delle
ascelle e le andarono incontro inzuppandosi dentro e ven-
nero al naso a dare il nuovo annuncio, urina cioccolata,
urina aceto, si scrostò la polvere dagli occhi e la prima messa
a fuoco fu una faccia di suora nera, nera, ma bianca sulla
cuffia e nella bocca che diceva: "Apona", guarisce, perché
avevo inzuppato la branda, perché il verbo amare mi aveva
rivoltato, ridandomi la vita, non la stessa, ma quella presa a
un altro, perché si vive al posto, invece di qualcuno, il verbo
amare aveva doppiato il capo di febbraio e il calendario
annunciava il primo giorno di marzo dell'anno millenove-
centottanta...
 
 
4. La gonna blu.
 
Camicia bianca, gonna blu, con la divisa di scuola senza
passare da casa di pomeriggio arrivava nel camerone e veni-
va nell'angolo in cui stampavo i volantini. Le piaceva la
macchina, l'aveva imparata, mi dava il cambio per qualche
ora. Con una punta disegnava sulla matrice le lettere più
grandi, del titolo, le parole forti. Aggiungeva la figura di un
pugno, di una stella. Le affidavo il ciclostile, era in buone
mani. Se s'inceppava, lo sapeva aggiustare. Sulla panca le
lasciavo le risme di carta già smazzate con le quantità fissa-
te da consegnare ai militanti.
 
A quel tempo il volantino era il nostro giornale, riporta-
va il fatto del giorno e la nostra voce sul dafarsi.
 
La ragazza con la gonna blu si metteva il mio camice,
montava la matrice nuova, controllava l'inchiostro e faceva
ripartire la voce della macchina e la nostra. Di notte spetta-
va a me governare il ciclostile. Nello stanzone ancora affu-
micato dall'ultima riunione i giri del motore sputavano fuori
i fogli a ritmo di carica. Nella testa assonnata accoppiavo il
rumore a quello dei passi, alle sillabe di una canzone, così
restavo sveglio.
 
Mi offrivo volentieri per la stampa notturna, in quel
tempo ero ospite di un militante, della sua stanza stretta. Gli
era capitato l'amore e di notte si abbracciavano forte. Non si
impacciavano di amarsi mentre dormivo due metri più in là.
Restare nel buio a sentire i colpi e i fiati commossi di due che
si amano, senza il desiderio di avere il proprio turno, potevo
pure, ma era più utile dar retta agli stantuffi del ciclostile
anziché a quelli dell'amore altrui. Perciò di notte giravo
volentieri intorno alla minuscola rotativa, marca Gestetner,
del nostro gruppo di agitati politici.
 
Spuntati tutti insieme dentro una generazione, manco ci
fossimo dati appuntamento in culla: tra diciott'anni in stra-
da. Pasolini la chiamava eccedente, quella generazione, un
sopravanzo dovuto alla scoperta degli antibiotici, non pro-
vata da alcuna selezione e infoltita dall'eccesso di nozze del
dopoguerra. Non era granché come spiegazione ma alme-
no lui se lo chiedeva: da dov'eravamo spuntati fuori noial-
tri estranei, dissimili da tutto? Non avevo da rispondere,
ero tra gli spuntati e mi mancava la distanza di un punto di
osservazione. Per spirito di contraddizione mi procuravo
un pensiero diverso dal suo e dalla provvidenza della peni-
cillina. La nostra era la prima generazione d'Europa che a
diciott'anni non veniva presa per la collottola e sbattuta in
guerra contro un'altra gioventù dichiarata nemica. Era la
prima che si scrollava di dosso le conseguenze catastrofiche
della parola patria. Perciò eravamo patrioti del mondo e ci
impicciavamo delle sue guerre. Su gran parte di quei volan-
tini era scritto il nome di un lontano paese dell'Asia:
Vietnam.
 
La ragazza con la gonna blu lo tracciava con uno stam-
patello punteggiato, da farlo sembrare cucito sulla carta.
Disegnava la bandiera per amore della sua stella. Tra noi
c'era un poco d'intesa, era un tempo buono per stabilirle,
contavano poco la differenza di reddito, d'istruzione, di età.
Mi raccontava qualcosa della scuola, le piaceva la chimica.
 
 
"Oggi ho studiato l'ozono, si forma intorno ai fulmini, è
blu, pizzica il naso." E poi all'improvviso: "Tu ci andresti a
combattere laggiù?". E io: "Pure subito". "Ma sai spara-
re?", "No". "E allora?", "Imparo, come hai fatto tu con il
ciclostile".
 
Restava un poco sui pensieri poi tornava al punto: "E la
paura?". "Sono un rivoluzionario," dicevo, "la paura la
devo scacciare." "A me la paura viene pure dentro le cari-
che della polizia, scappo, penso ai miei genitori che non
s'immaginano niente. Non credo di essere rivoluzionaria."
 
Non sapevo rispondere alla ragazza e poi sbagliavo a
dire: rivoluzionari non eravamo noi, ma il tempo e il mondo
intorno. Noi assecondavamo il moto di scardinamento
generale di colonie e imperi. Con tutta la sproporzione tra
noi e il dafarsi, pure vedevamo crescere il numero dei volan-
tini da distribuire e dei volontari venuti a ritirarli. Le scuo-
le erano affamate di quei fogli, le scuole erano in subbuglio
permanente, non c'erano quadrimestri sì e quadrimestri no,
era tutt'un'assemblea da ottobre a giugno. "Se non sei rivo-
luzionaria, chi sei?" "Una che aiuta la giustizia, che sta con
la gente oppressa dalle mancanze e dalle prepotenze."
"Allora sei una che vuole aiutare il prossimo?" La mia
domanda era stonata in una sede e in un pomeriggio di rivo-
luzionari. Se ne accorse. E stette zitta, e pensai di averla
offesa. Invece si girò verso di me, perché stavamo a fianco,
e disse, appena più su del motore del ciclostile: "Ma tu non
vuoi essere per una volta il prossimo per qualcuno?". Tolsi
gli occhi da lei, credo che mi confusi con le mani.
 
Frequentava un istituto privato, ne portava la divisa fino
alle scarpe e ai calzettoni bianchi, che però si toglieva arri-
vando allo stanzone nel quartiere di San Lorenzo. Metteva
calze di nylon e mocassini. Del suo istituto lei sola e di
nascosto si era messa a partecipare delle mosse e delle ragio-
ni di una gioventù squietata e sparigliata, nemica dei poteri
costituiti, scossa dai casi del mondo. In segreto portava un
poco di quei fogli dentro la scuola a suo puro rischio, senza
nessuna speranza di coinvolgere. E aveva dubbi se era rivo-
luzionaria? Il grado di rottura dentro l'ordine sociale di
allora non era misurato su persone pronte a partire per un
fronte, ma da cittadini come lei che si mettevano a sabotare
poteri nei posti più strani e difficili. Il grado di febbre di
quell'Italia non era dato dai surriscaldati, ma dal polso dei
miti, dei pacifici che collaboravano alle rivolte. Quando
azzardano le educande, un paese è prossimo all'incande-
scenza.
 
La gonna blu, la camicia bianca, le calze di nylon, i
mocassini e i modi: era elegante in paragone al resto di
noialtri. Questo mi piaceva: che non volesse mettere una
seconda uniforme, quella dei rivoltosi.
 
Aveva simpatia per me che venivo dal sud e avevo l'aria
spaesata degli emigranti, che un paese non l'avranno mai
più. Disegnando sulla matrice il pugno diceva che ricopiava
il mio. Non mi permettevo confidenze però le guardavo la
gonna, il bel colore blu mi dava pace agli occhi troppo fis-
sati al bianco e nero dei ciclostilati sotto la luce al neon. Non
era il blu delle tute operaie che uscivano all'aria aperta dalle
officine per uno sciopero improvviso. Quello l'ho avuto
addosso e l'ho imparato dopo. La sua gonna era il blu che
circonda la lampara nella pesca notturna al calamaro, al
tòtano. Era il blu che avvolge la luce e l'accompagna men-
tre affonda in mare.
 
Prima di darci il cambio uscivamo a bere un caffè. Il
quartiere era fitto di botteghe, tipografi, marmisti, falegna-
mi, sarti, calzolai, c'era sempre qualcuno in pausa che
attaccava discorso con noi al bar. E non era lo sport e nem-
meno le piogge l'argomento, ma qualche avvenimento e
cosa doverne pensare. Chiedevano volentieri un parere a
quella nuova gioventù che aveva deciso di averne uno sepa-
rato e suo sopra qualunque e qualsivoglia cosa.
 
Premessa era ribaltare, mettere il sotto sopra. Era un'in-
solenza metodica e portava conseguenze. La questura veni-
va a perquisire, a identificare, a denunciare alla magistratu-
ra. Una di queste occasioni fu brusca^ e c'era pure lei nello
stanzone. La sorveglianza spontanea del quartiere aveva
fatto in tempo ad avvisare dell'arrivo della colonna.
Nascosi in un appartamento vicino il ciclostile, l'unico
tesoro da salvare. Eravamo in pochi e fummo strapazzati. Il
funzionario era scontento di non poter sequestrare niente e
decise di portarci in questura.
 
Mentre avveniva il trambusto che serviva a intimidire
anche il quartiere, lei restò irrigidita, pallida di paura ma
pure di disgusto per l'esibizione di calci a sedie e tavoli e
ordini di mettersi faccia al muro strillati nelle orecchie, con
l'accento meridionale ch'era il mio eppure così opposto al
mio. Il funzionario si accorse di lei così diversa, le chiese in
altro modo i documenti dicendo: "Signorina che ci fa qua
dentro, lasci perdere questi quattro delinquenti e se ne torni
alla sua casa ai Parioli". La lasciò andare. Lei intanto era
passata dal pallido all'accaldato, al rosso di uno sforzo di
frenare con tutti i muscoli della faccia le lacrime sul bordo
degli occhi. L'attenzione del vicequestore la separava da noi.
Si vergognava del privilegio di potersene andare e si vergo-
gnava pure del sollievo di non trovarsi i genitori convocati
in questura a riprendersi la figlia minorenne. Tra le divise
degli agenti vidi uscire la sua gonna blu. Se volle con gli
occhi salutarmi non posso saperlo. Guardavo il bordo della
sua gonna scomparire nel buio del cortile.
 
Così viene spenta la lampara, si dilegua il blu e gli occhi
per un po' stentano al buio. Quando intorno c'è concitazio-
ne a me vengono pensieri lontani. Così dev'essere successo
molti anni dopo a Carlo Giuliani col suo estintore da resti-
tuire.
 
Quando uscimmo impacchettati per salire sul furgone,
s'era intanto riunita un po' di buona folla di San Lorenzo,
us'cita di bottega, zitta e seria, affacciata ai balconi. Niente
traffico, la via era bloccata dall'operazione di polizia, nien-
te chiasso, la gente stava muta e circondava quelli che cir-
condavano noi. Saremmo tornati di lì a poco, più ribaditi
ancora al nostro posto, ma lei no. La ragazza con la gonna
blu si staccò quel giorno e chissà chi l'ha meritata tra le
braccia.
 
 
5. Aiuto.
 
"Ha bisogno di aiuto?"
 
"Di uno che mi uccide."
 
Alla risposta mi fermo del tutto. È più accovacciata che
seduta in terra sul bordo del sentiero. La posizione com-
pressa, da mal di stomaco, mi ha tirato fuori l'offerta di
aiuto. E poi in montagna si usa. E poi lei attira, però questo
l'ho visto alla risposta quando mi alza in faccia una faccia di
sposa persa sull'altare. Mi fermo, non pesa lo zaino leggero
di una giornata in giro per cime senza corda e ferraglia da
scalata. Non mi accosto ancora, mi volto e ripeto: "Di uno
che l'uccide. Di uno che l'ama fa lo stesso?". Una che
risponde buffa e agra ha bisogno di uno spudorato.
 
"No, di uno che mi uccide. Un assassino si trova, un
uomo no." Questa è rivolta al genere maschile e a me che
sono il solo nei paraggi. "Sono un assassino. Ho con me un
buon coltello, se vuole ci appartiamo e la sgozzo."
 
Abbassa gli occhi dalla faccia alle mani per cercare con-
ferma.
 
"Gratis?"
 
"Sì."
 
"Generoso."
 
"Siamo in montagna, c'è più solidarietà che a fondo
valle."
Finalmente sbuffa in un sorriso e poi in lacrime.
Mi tolgo lo zaino, mi siedo a terra un metro vicino, fac-
cio un respiro forte, equivoco, tra la compassione e la scoc-
ciatura.
Smette, dice grazie.
"Diché?"
"Di non aver detto niente, chiesto niente."
"Venga in montagna con me, le passa tutto."
"Non così in fretta," dice per intendere che vado troppo
svelto in confidenza. Fingo di capire a rovescio: "Garantito:
le passa tutto proprio così in fretta". Mi guarda a sopracci-
glia infuriate. Perciò insisto: "Lei domani sera sarà così
piena di Alpi nelle ossa, dai piedi ai capelli, da dormire in
pace con il corpo, cuore compreso". Non reagisce. Le dico
il mio nome. Reagisce: "Un'imprudenza per un assassino".
"Se è il mio, sì." Non le do tempo e chiudo: "Sto al rifu-
gio del passo Duran, domani alle sette m'incammino per
fare il giro delle cime della Moiazza. Se non trova nessuno
prima, io l'aiuterò". Mi alzo tiro lo zaino sulle spalle e pro-
seguo.
Al rifugio San Sebastiano mi scrollo la stanchezza sotto
una doccia a idrante. Infilo la camicia di lana a scacchi bian-
chi e blu. L'ho comprata dopo aver letto un racconto in cui
era importante. In montagna porto sempre quella. L'ho
presa da un libro, è calda e letteraria. Mi fa rigovernato e a
posto per la cena.
Alle sette di sera viene l'ora muta per i monti, si va a
mensa. Fuori c'è il vento che perde nuvole, alla finestra ne
guardo una che non ce la fa a scavalcare il monte e ci finisce
addosso, sfasciandosi, fasciandolo. Dovrebbero fare come
le bolle di sapone che scoppiano al contatto. Invece fanno
ovatta. Sto a un tavolo vicino al vetro, così ho da guardare
fuori anziché in sala. Sono solo, in montagna va bene, al
cinema pure. Così non mi accorgo che è entrata e sta par-
lando con il gestore. Ha preso un letto nella camerata e
mangerà con me se non disturba. Me lo dice dopo essersi
seduta.
I vetri quando pigliano le prime gocce fanno chiasso per-
ché sbattono sul loro asciutto, poi si bagnano e fanno meno
rumore e resistenza. Glielo vorrei dire, all'improvviso sono
allegro come un vetro appena bagnato. Non è il caso, l'ho
vista sputare singhiozzi a un metro da uno sconosciuto, ci
manca pure che la festeggi.
"Passa in fretta?" chiede, per dire qualcosa.
"Prima del tramonto."
S'informa sul percorso. È uno sterminio di energie,
rispondo, poi torno serio e m'informo sulla sua attrezzatu-
ra. Le manca il casco e l'imbracatura. Ne ho in macchina un
paio di riserva.
"Un assassino previdente," dice.
"Ma sì, nel mio genere premedito."
"Sono disperata."
"Non c'entra la salute?"
"No, non c'entra."
Mordo la bocca per non rilasciare la battuta di Totò:
"Quando c'è la salute...". Lo sforzo mi comporta un pruri-
to al naso, me lo stropiccio, faccio un paio di smorfie.
"Una faccia da montagna," dice.
"Grazie del complimento."
"E la mia com'è?" s'azzarda a chiedere.
"Di sposa mandata sola all'altare."
"Più complicato di così, però va bene," e aggiunge il mio
nome. Non reagisco. "Non ti chiami così?"
"Mi chiamo così e non sprecare forze con i dubbi, non
ti dirò nessuna bugia. "
Mastichiamo affamati, io dal giro del giorno sulle rocce, lei
da qualche pasto saltato. Un po' di vino le scotta le guance.
 
"Non hai più la faccia di sposa, ora di contadina."
 
"Che mestiere fai?" chiede.
 
"Scrivo storie, poi le vendo."
 
"Sei uno scrittore?"
 
"Uno che fa lo scrittore."
 
"Il cognome?"
 
Lo pronuncio con rassegnazione.
 
"Non l'ho mai sentito."
 
"Appunto."
 
"Allora non sei un assassino?"
 
Bevo un sorso.
 
"Almeno il coltello ce l'hai?"
 
Lo cavo di tasca, glielo metto sul tavolo vicino alle posate.
 
Lo prende, lo apre, lo chiude. Poi fa la mossa di passar-
selo sulla gola. Lo rimette giù seccata di aver fatto una cosa
scherzosa.
 
"Sei un uomo?" e non aspetta risposta, già sbatte contro
un pensiero suo che l'appassisce. "Non ce la faccio," dice.
 
"Con l'imbracatura e il casco rosso domani ce la farai."
 
"Se è vero mi salvi la vita, ma non può essere vero." E
per sbandare un po' via dai pensieri aggiunge: "Salvata da
un assassino".
 
Mi fa piacere che ha già dimenticato l'altra mia qualifica.
 
Intorno a noi voci di una comitiva di anziani tedeschi
aiutano a conservarci in disparte, in un posto straniero.
 
Faccio l'aria citrulla che mi viene bene e dico: "Dove
siamo finiti stasera, in una birreria fuori Monaco tra i tigli?".
 
"Non mi fare viaggiare, non mi spostare, sono salita qua
sopra per togliermi. Lo capisci questo verbo: togliersi? Io lo
capisco da poco."
 
"Togliersi, mi piace: togliersi, estrarsi come un dente dalla
mascella, sì, ci sto, ma se vuoi dire banalmente togliersi dal
mondo, allora puzza di muffa, è usato e non ti può servire."
 
 
"No, per quello mi serve uno che mi uccide."
 
"L'hai trovato. Domani sera o tu o il dolore, uno dei due
non ci sarà più."
 
"Affare fatto."
 
"Una fetta di torta di mele?" chiedo.
 
"No, troppa grazia."
 
"Allora domattina," insisto, "perché raschieremo il fon-
do alle energie, perciò dobbiamo averle."
 
"Ho energia di collera da vendere."
 
"No, quelle sono tossine e le espellerai con la prima
maglietta di sudore. Portatene tre." Mi guarda seria per
vedere se scherzo.
 
"Non ti dico bugie."
 
"Mi chiamo..."
 
"Non me lo dire. Domani sera se avrai voglia di dirlo, mi
piacerà ascoltarlo." Si offende. Le ho fatto torto a non rice-
vere il nome. Si alza, dice appena: "Alle sette". Confermo
con la testa. Non so che mi piglia a volte di scartare come
un asino dalle confidenze. Resto seduto, guardo fuori, che
fesso, penso, di che vado a impicciarmi? Di quello che ti
mette innanzi il viaggio, mi rispondo seccato dalla mia
domanda: e bada d'impicciartene bene. Metto le mani in
faccia a stropicciarla e lascio andare il rutto custodito a
oltranza per l'intera cena. Pago il conto, mi accorgo che è
per uno. Anche il vino ha diviso.
 
È più stanca di ieri, le sette non sono una sua usanza.
Beve a occhi chiusi da una tazza robusta, infila a buoni morsi
lo spicchio di torta di mele. L'aspetto fuori dove le nuvole
stanno ancora accovacciate sui monti. Quando le scotta il
sole e non possono restare in basso, allora scappano su. Le
racconto qualche mossa del giorno per fare compagnia ai
primi passi. Lei segue i miei sbuffando. In salita appoggio a
terra mezzo piede, la punta e poco più. Da più spinta e man-
tiene il corpo dritto. È l'ora dell'osso metatarso, osso di
andata. Un'ora dopo raggiungiamo l'attacco della via ferra-
ta. Infilo la mia imbracatura per primo, così lei vede come si
fa e non devo calzargliela io. Riduco al minimo le mosse di
intimità fisica di una giornata in cui toccherà stare più vicini
di ieri. Da sola infila l'imbracatura, gliela chiudo davanti e
fisso la fettuccia con il moschettone. Lo dovrà far scorrere
lungo il cavo di acciaio che accompagna i tratti difficili della
via di salita. Si calca in testa il casco senza una mossa di rias-
setto dei capelli. Li guardo scomparire, lisci e prigionieri. Ne
spunta un ciuffo avanti. L'attacco della ferrata è brusco. Si
parte con un traverso in salita poco aiutato da appoggi per i
piedi. Inizio io così vede i primi metri.
Prova, non riesce, scivola, resta appesa.
"Non ce la faccio, non riesco neppure a partire.
Lasciami qui, vai tu."
"Senza di te oggi non vado per cime. Ti aiuto a partire. In
alto il seguito è più facile." Scendo. Mi metto dietro a lei, le
copro il vuoto e la sostengo scaricandole il peso. Subito impa-
ra a puntare bene i piedi e a guadagnare metri. Sulla parete
formiamo la compatta figura di uno scarabeo. Lei si attacca
con le mani al cavo di acciaio e io la raddoppio alle spalle.
Con andatura a otto zampe superiamo il tratto e lo scorag-
giamento. Lei si appoggia parecchio addosso a me. Sudo,
sbuffo, funziona. "Stai comodo?" chiede per scherzo.
"No, ma tra poco finisce il traverso."
"Peccato, mi sto divertendo, mi sembra di non portare
peso." Lo scarica nell'ansa tra il mio bacino e il petto.
"Ecco fatto," le dico alla fine del tratto obliquo, "ora si
sale dritti, è più facile. Ci mettiamo in fila, la più piccola fila
del mondo, due in tutto. Lo scarabeo si trasforma in bruco,
tu vai avanti, io sto sotto, controllo l'appoggio dei piedi. Tu
pensa sempre al moschettone e al cavo."
Così partiamo verso l'alto, dentro un catino di rocce che
rimbalzano in su e non mostrano cima né fine.
 
"Non si vede dove arriva," dice.
 
"Siamo bassi, neanche fra due ore di salita la vedremo."
 
È snella, ha preso gusto al movimento, sale più con le
rocce che sul cavo. Produciamo vuoto sotto i piedi. La sca-
lata è una fabbrica di metri sopra metri, un accumulo d'aria.
Quando il cavo smette e bisogna fare dei tratti da slegati per
raggiungere l'ancoraggio seguente, guarda sotto: "Questo è
togliersi, no?" dice. Non rispondo, per me questo è metter-
si. Darsi alla materia prima minerale, misurarla con la punta
delle dita, mettersi al vento, alle pietre, chiedere passaggio a
tutto, pure alle nuvole.
 
Suda. "'Sto casco mi cuoce il cervello, peggio che dal par-
rucchiere. Mi potevo mettere i bigodini." Parla da sola. Sa che
la ascolto, che sono un metro sotto, ma fa senza di me.
 
Dopo un lungo tratto in salita verticale, c'è di nuovo un
traverso difficile. Stavolta vuole fare tutto lei. La precedo e
le risparmio solo i movimenti del moschettone, così da non
lasciare le mani dal cavo. Ha la fronte increspata di sforzo,
un broncio di concentrazione sulle labbra. Non sta pensan-
do a niente altro, a questi metri duri da passare e basta. La
scalata ritorna verticale, lei ritrova il fiato e saliamo in fila
svelta lungo la bastionata a mezzogiorno.
 
"È bravo il nostro bruco," dice. È bravo, è appena nato e
già sa dove andare. Nessuno di noi aggiunge che potrà diven-
tare farfalla. È certo che pensa anche lei alla battuta, ma se la
tiene. Restiamo un bravo bruco, questo serve adesso.
 
Dopo tre ore siamo sulla Cattedrale, questo è il nome di
una delle cime. Facciamo pausa. Abbiamo sulla testa nuvo-
le e schizzi di cielo, la liberiamo dal casco. La testa al primo
vento sfiata i pensieri chiusi, entra aria tra i capelli, piacere
di arruffarseli, sgranchirli. Mangiamo un pane con quadra-
tini di cioccolata nera. Morsi carichi di appetito, ingoiati
svelti, il fiato profuma di cacao. Uccelli della cima bussano
a briciole con gridi stridulini, ne lanciamo, le raccolgono a
saltelli. Chiede nomi di monti, glieli addito, anche la
Moiazza in fondo a un'altalena di creste.
 
Mi chiede di voltarmi. Cambia la maglietta. Mentre è
nuda il sole apre bottega sulla Cattedrale, scansando nuvo-
le pezzate. Scalda e asciuga. Lei si stende, le passa un'om-
bra in faccia, non so se è il cielo oppure un pensiero: in
piedi, zaini in spalla, si continua, dico brusco per togliersi
di li. Meglio non raffreddare i muscoli, oggi noi siamo
loro. Obbedisce. Scendiamo per le rampe sbriciolate della
Cattedrale a forza di fulmini. I fulmini sono bambini che
cercano l'anima dei giocattoli a colpi di martello. Ma quel-
la non sta sotto crosta, se esiste è in superficie dove striscia
il nostro bruco a due. Se esiste è nella corrente calda che
spinge i gracchi verso l'alto ad ali ferme. E questi sono
pensieri da discesa, rotolano da soli. Lei invece inciampa
per guardare intorno, sento le suole grattare il brecciolino,
scivola dietro di me, mi volto e la fermo con il braccio:
"Guarda in terra e muovi passi corti in discesa, che se
perdi un appoggio lo ripigli, passi corti, da bruco".
Signorsì.
 
E così avanza il giorno per creste, discese, risalite, pas-
saggi in traversata su costoline di tracce disegnate appena
sulla ruga del vuoto. Oggi ce la fa, oggi è giorno di prece-
denza alla vita. Se vuole qualcuno che l'uccide, c'è pronto il
salto, basta il passo falso. Oggi è turno di vita, percorso da
completare netto senza errori, oggi noi siamo cavalieri senza
sella di noi stessi. La prateria si è solo spostata d'inclinazio-
ne diventando muraglia.
 
Sulla cima Moiazza, toglie la seconda maglietta, mette la
terza senza chiedere di voltarmi. Guardo da un'altra parte,
sbircio a ovest da dove arriva il temporale, quando arriva.
Di solito lo avvisa una virgola di nero, più macchia che
nuvola, ma oggi no, galleggiano sui monti solo grappoli di
condensa.
 
Le sue mosse sono diventate più pesanti di fatica, si
toglie le scarpe, è stanca, senza spina di pena, solo stanca.
La sua ombra va e viene, sbatte al vento, scompare.
Restiamo un poco sulla cima a richiamare forze per la via di
ritorno. Poi un passaggio su un filo di cresta, due venti di
salita dai versanti opposti scombinano l'equilibrio, danno
qualche spintone. Serriamo il nostro bruco, le sue mani
appoggiate sui miei fianchi, il suo moschettone agganciato
al mio. Il giorno punta in discesa, lo seguiamo perdendo
quota nel lungo giro che riporta indietro per altra via. I
passi corti si distendono su tracce migliori, più comode,
mettiamo tra noi qualche metro. In discesa dimentico.
Ritorno nel cesto da cui sono uscito. È l'ora del tallone, osso
del ritorno, a lui spetta di appoggiare il passo che riporta
indietro. E questo è togliersi.
 
Arriviamo muti ai cameroni. Sono finite dieci ore di giro
e siamo vuoti. Lavarsi e mettersi a una tavola per rinfran-
carsi. Ci ritroviamo alle sedie della sera prima, dopo una
strofinata d'acqua fredda. La calda l'hanno consumata quel-
li arrivati prima. Lei è sotto buona lana, ha freddo. Ho
addosso la camicia a quadri e bevo piano una birra abbon-
dante. Non diciamo niente. Lei sorride a qualche boccone
che le piace. A buon punto di caldo e sazietà chiede a che
penso. "Alle montagne di domani." Fa uno sbadiglio che mi
procura un sorriso.
 
 
"Grazie," dice.
 
Per risposta la guardo.
 
"Non ero mai salita su una cima scalando."
 
Quante cose posso dire, anche soffiare sulla gratitudine
che sta nelle stanchezze pulite, quante cose per avvicinarmi.
Nessuna passa, resto a mani chiuse, abbasso gli occhi. Lei si
alza, mi posa un bacio sulla testa reggendola tra le mani,
"Buonanotte," dice.
 
Il giorno dopo parto al primo chiaro, cambio valico e
valle in cerca di un'altra salita a quattro zampe. Le lascio un
biglietto: "Non lavare le tue tre magliette sudate. Buttale, è
acqua passata".
 
E ora scrivo. Al posto di qualunque altra cosa possibile
ho per rimpiazzo e avanzo la scrittura. Che fesso.
 
 
6. La camicia al muro.
 
Amore e Roma, in enigmistica si chiamano palindrome le
parole e le frasi leggibili anche al contrario. Mi accaddero
entrambe con forza di primizia lontano dal mio luogo.
Diciotto anni, dal primo all'ultimo ho vissuto nella città di
nascita, Napoli, da sterile, senza amare nessuna ragazza nei
quartieri dell'adolescenza. Solo nell'isola di fronte, un'estate,
mi spuntò amore per una ragazza di Roma. E quando a
diciotto anni evasi dal mio luogo di fondamento e sud, andai
in quella città, perché mi era restato amore, poco, però
buono a far girare da quella parte uno che si scioglieva dal
suo centro ed era equidistante da ogni stazione di arrivo.
 
Lei era già grande, studiava architettura, fumava. Io mai
capace di tabacco, derivati e affini, mi ero scrollato di dosso
studi, case, famiglia, città. Ero spaesato e spiritato. Ci sono
decisioni prese in età aspra che non cedono più, conficcate
in chissà quale osso.
 
Come molti arrivati senza invito, Roma fu all'inizio fer-
rovia. Nei suoi paraggi trovai brande in camere mobiliate,
insieme a sconosciuti. Non sono mai stato così solo, una
buona condizione per innamorarsi o perdersi. Non fui di-
sperso perché intorno c'era una strana collera di gioventù,
politica, ma niente da mischiare con partiti. Spartita, irrego-
lare, senza congressi, affiliazioni, tessere, aveva per campo la
strada e per parlamento le assemblee. Sbatteva contro poli-
zie, tribunali, prigioni. Fui dei loro perciò non mi sono di-
sperso. Mi sono innamorato, non della prima, dell'isola, ma
della sorella, sedici anni, spaventosa di volontà e bellezza.
Aveva mani spellate da un malanno, il solo che ho amato.
Veneravo quelle dita screpolate, rosse, indolenzite, non l'ha
creduto mai. Fosse stata lebbra gliel'avrei leccata per appic-
cicarmela alla lingua, fosse stata morte l'avrei voluta io.
Meno di questo, l'amore non è niente.
Succedeva l'anno millenovecentosessantanove, più duro e
lungo dell'annata di assaggio sessantotto. Dei giovani comin-
ciavano a pensare a se stessi secondo biografìe di rivoluzio-
nari del primo Novecento. In molti imparavamo il pianto
artificiale dei lacrimogeni, le zuffe delle cariche, i colpi e il
buffo trasporto in gabbie da polli, i cellulari. Chi ero, cosa
potevo dire di me: niente. Non ero di niente e di nessun
luogo. Ero uno dei molti, che a volte erano pochi a contarli in
un cortile di questura, in mezzo a un'indurita rappresaglia di
uomini in divisa. Ero uno, anche meno di uno. Però amavo.
Amavo la ragazza dai capelli lisci, messa di profilo in una
fotografia di primavera ai fori romani, una nostra passeggia-
ta. Amavo la ragazza che mi aveva accolto nelle spalle larghe,
come fa, con una barca, una tempesta.
Mi contavo i muscoli, le ossa, com'ero poco, mi contavo
gli anni, le monete: come potevo tenerla? Lei cresceva, era
un'estate di fichi d'India e una catena di baci esauditi. Non
avevo altro da desiderare oltre l'uscio dei baci. Più della liber-
tà ho aspettato il minuto bollente in cui quattro labbra
sospendono il respiro e si mischiano per gustare se stesse
attraverso altre due e si confondono per appartenersi.
Lei stava in casa, io in stanze, ci s'incontrava raramente
soli. I baci non sono anticipo d'altre tenerezze, sono il punto
più alto. Dalla loro sommità si può scendere nelle braccia,
nelle spinte dei fianchi, ma è trascinamento. Solo i baci sono
buoni come le guance del pesce. Noi due avevamo l'esca sulle
labbra, abboccavamo insieme.
Era inverno e stavo in una stanzetta, la prima in affitto,
vicino a Villa Ada. Avevo inchiodato al muro una camicia.
Si aprivano i bottoni e dentro c'erano due fotografie, sue.
Mi venne a trovare di nascosto, ero ammalato. Sbolliva
addosso a me una qualche febbre spessa, prepotente.
Aprendo la porta mi sono tenuto forte alla maniglia. Mi ha
preso stretto, come abbracciare inverno, brividi battenti,
marmo dentro i piedi. Non c'era riscaldamento, ma me ne
sono accorto in quel momento. Il corpo era duro di freddo,
mentre avrei voluto nelle vene più cioccolata che sangue. Mi
tenne nel suo cappotto di pelle di montone foderato a lana.
Chiuse la porta col tacco e mi spinse all'indietro verso il
letto senza allentare l'abbraccio.
Mi stese, poi si tolse i panni lasciandosi una veste bian-
ca, lieve. Entrò nel buio delle coperte e mi coprì tutto il
corpo col suo. Stavo sotto di lei a tremare di felicità e di
freddo. Le nostre parti combinavano una coincidenza,
mano su mano, piede su piede, capelli su capelli, ombelico
su ombelico, naso a fianco di naso a respirare solo con quel-
lo a bocche unite. Non erano baci, ma combaciamento di
due pezzi. Se esiste una tecnica di resurrezione lei la stava
applicando. Assorbiva il mio freddo e la mia febbre, mate-
rie grezze che impastate nel suo corpo tornavano a me sotto
peso di amore. Il suo teneva sotto il mio e il mio reggeva il
suo, come fa una terra con la neve. Se esiste un'alleanza tra
femmina e maschio, io l'ho provata allora.
 
Durò un'ora, di più di ogni per sempre. Prima di anda-
re rise della camicia al muro. È la mia crocifissione abbot-
tonata. Non glielo dissi che dentro c'era lei. Non venne più.
L'inverno ci staccava. Era venuta per lasciarmi e invece s'era
stesa a guarirmi. Le cose migliori dell'amore accadono per
caso, si capiscono dopo. Credevo che quella visita era inizio
per noi di più vasta vita insieme, era termine invece.
Credevo al dopo ed era il prima. Mi sbattevano in testa a
colpi di campana le sillabe del poeta spagnolo:
 
"Per andare al nord, andò al sud. / Pensò che il grano era
acqua / si sbagliava. / Pensò che il mare era cielo / e la notte
la mattina. / Si sbagliava. / Che le stelle erano rugiada / e il
caldo una nevicata / si sbagliava". Un cantante da noi aveva
messo sotto musica questi versi. La musica, come il sale, con-
serva meglio. Mi sbagliavo e intanto guarivo dall'amore, dai
suoi attacchi di felicità. Mi abituavo alla città, una conduttu-
ra che perdeva amore da tutte le fontane. La attraversavo
con gli occhi che avrò di nuovo da vecchio: Villa Ada era
piena di bambini e di madri che non mi riguardavano.
 
A quel tempo gli operai della mensa universitaria e gli
studenti avevano deciso che chiunque poteva andare e man-
giare, anche senza tesserino. Con trecento lire ero al riparo.
La febbre e il digiuno erano finiti, mi nutrivo a via De Lollis
insieme ai molti che inventavano diritti nuovi, togliendoli ai
poteri. La città era messa in discesa per noi che scendevamo
in piazze di centro e di periferie, circondati da truppe che
non temevamo più.
 
A qualche manifestazione, dentro mucchi di noi, l'ho
rivista qualche volta. Si era sposata presto. Diventava una
donna, una, e ne aveva contenute molte e io le avevo cono-
sciute. Avevo amato le sue molte ragazze che si provavano i
vestiti da donna nell'anno dei baci. Più tardi ho amato qual-
che altra con lo sbaglio che fosse ancora lei. Pretendevo
quello sbaglio per potermi innamorare.
 
Me ne andai di corsa dalla stanza in affitto qualche anno
dopo senza portarmi dietro neanche una mutanda. La cami-
cia inchiodata ai polsi restò lì, di nessuno. E forse è giusto
andarsene così, svelti, inseguiti. Ma questo fu dopo, quando
s'induriva l'odio civile e i sangui nostri e altrui non faceva-
no in tempo a seccarsi.
 
Nella furia dei lutti dimenticai la ragazza che mi aveva
tenuto dritto nel suo cappotto e si era staccata da me per
diventare una donna. Roma era piena di guerra. Chi dice
ch'era inventata, l'ha invece disertata. Non era obbligatorio
battersi, ma c'era di che. Quella generazione dei molti non
bandiva arruolamenti, si bastava. Non aspirava a maggio-
ranze, spostava il carico con strappi di minoranza. Non mi
manca perché non si è mai tolta dai pensieri. Né mi manca
quell'ora di resurrezione sotto il corpo della ragazza amata.
Io l'ho avuta quell'ora sconfinata. Io l'ho avuta.
 
7. Una cattiva storia.
 
Oggi so che anche da vecchio sono rimasto cattivo.
 
Ero andato a Cima Dieci, un cucuzzolo di tremila metri
che si sale a piedi e ha un ultimo salto di roccia su cui biso-
gna mettere anche le mani. Un cavo di acciaio accompagna
l'indeciso fino in cima. La giornata era sincera, salivo coi
sandali, che sui tratti più morbidi tolgo per andare scalzo.
In vecchiaia mi sono inselvatichito, lascio più aria al corpo.
Sono ancora agile ma non ho voglia di sembrare arzillo, pre-
ferisco l'adagio, che mi fa leggero.
 
Avevo superato nel cammino diverse comitive. Esse par-
lano. Ne hanno bisogno anche affannando. L'assolo del
respiro li spaventa. Soffrono di vertigine in bocca. Saluto
con la mano, niente voce.
 
Le nuvole di valle risalivano rinfrescando il fiato. È l'ora
in cui avvolti dal loro vapore gli incerti già insaccati nelle
imbracature si suggestionano dell'ombra e decidono di rien-
trare per timore di un temporale. "Non sarà la perturbazio-
ne?" dicono, e tanto serve a scoraggiarsi. Si accorgono poi
che la giornata è folgorata da un sole a martello e si conso-
lano con qualche saggezza: "Sì, ma la prudenza non fa stor-
pio nessuno".
 
La nuvola sale e mi accompagna nell'ora di avviamento.
Sento la buona spinta nelle viscere e mi fermo a svuotare
sulle ghiaie. I cittadini quassù si vergognano e vanno a farla
in qualche anfratto. Così la pioggia non la può lavare e quel-
la resta secca. E la trovo là quando il temporale mi coglie e
vado a un riparo.
 
Cima Dieci sta a più di tremila metri ed è la più alta in
giro. Alla base degli ultimi cento dove comincia il cavo, due
ragazzi cercano di persuadere una ragazza a fare lo sforzo. Mi
avvistano e allora si decidono. I cittadini in montagna vedo-
no uno che si avvicina e accelerano, quelli di su invece danno
la precedenza volentieri allo svelto per non averlo dietro.
 
Saltano in tre sul cavo, la ragazza in mezzo. Non vanno.
Mi accodo, poi, siccome stanno avvinghiati al cavo, passo
dove non c'è. La roccia è perfetta, si fa scalare ovunque.
Arrivo in cima, non sotto la croce, ma qualche sasso più in
là. Il giorno è buono, le nuvole di valle sono tutte salite e
stanno accovacciate sulle cime, come le mucche sazie. Tolgo
i sandali e metto i piedi nudi sulla pietra di cima. I gracchi
planano sui sassi intorno.
 
Sotto la croce delle persone fanno tra loro fotografie,
scrivono sul libro di vetta. Non hanno niente per gli uccel-
li. Non sta bene. Quassù siamo ospiti dell'aria e dei suoi
naviganti. Ogni colpo di ala ha più diritto ed eleganza del
più esperto passo. Bisogna portare qualcosa in omaggio alle
ali nere, anche un avanzo di cibo. Taglio la buccia al for-
maggio, la taglio grossa e con un richiamo da scugnizzo, uno
schiocco di bocca, li avviso e poi lancio di sotto. I pezzi di
buccia cadono un poco più giù, i gracchi vanno a prender-
li. Dalla croce mi guardano. Ma sì, sono il guardiano degli
uccelli, salgo per dargli la razione. Finisco il pane e la fetta
di cacio, poi mi stendo a guardare il soffitto. Oggi il capo-
mastro ha caricato il blu dentro la mescola, è così fitto da
spicciare lacrime.
 
Guardo il cielo da bambino, da quando la postina mi
disse che a guardare sempre i boschi gli occhi pigliano il
verde. Lei ce li aveva neri a forza di leggere gli indirizzi. Io
per tenermeli chiari ho cominciato a fissare i cieli. È tanto
tempo che viaggiano sugli occhi, attraversano il loro campo,
scavalcano le ciglia. Che fortuna starsene sotto il loro gratis,
non vedere un muro, una serratura, una siepe. Sono vecchio
e non capisco più guardie né ladri.
Una volta capivo i bracconieri che andavano alla caccia
nascosta perché si era uomini e si stava tra i boschi e le
donne aspettavano la carne di un buon colpo. Oggi con i
bracconieri bevo, hanno smesso, quasi tutti. Intanto passa il
cielo sulla testa e sui piedi, li alzo e li vedo del colore suo e
della camicia di lana a scacchi azzurri. I gracchi rispettano
la mia testa rovesciata al cielo, nessuno di loro passa sopra
di me. Strepitano con quelli sotto la croce, venuti a mani
vuote.
Mi tiro su a sedere, pulisco il coltello e lo richiudo.
Non l'infilo nello zaino, non so perché, lo metto in tasca.
Scendo, con i sandali che tengono bene l'appoggio, con
le forze franche. Lascio lontano il cavo d'acciaio che scende
ben ancorato. Vado senz'ancora. Mi calo sbatacchiando al
vento i pochi ciuffi bianchi della fronte. È l'una, l'ora di
rientrare, ho due ore e mezzo di discesa.
Ripasso sulla lunga linea che accompagna il bordo dell'a-
bisso. Il Gran Muro, la muraglia che ogni scalatore ha sogno
e voglia di percorrere da fondo a cima: ci sto sopra, il sentie-
ro costeggia in alto i punti di arrivo delle famose scalate.
Metto i piedi dove c'è l'ultimo appiglio del diedro
Mayerl, vedo più in giù il punto d'uscita della magnifica via
di Messner sulla roccia nera. È l'ora più tiepida, strimpella
intorno il motorino in re minore dei grilli. Sto coi pensieri a
testa bassa quando, non l'ho sentito, arriva addosso in sali-
ta il passo brusco di un giovane. E ben piazzato, abbiglia-
mento tecnico, occhiali da sole. Ha l'andatura sforzata di
chi ne ha da vendere e vuole farlo sapere. Il punto dove
c'incontriamo è stretto ma sufficiente a passarci in due, non
si sposta, non evita, mi urta. "Stronzo," mastico a fiato secco
mentre scendo.
"Come hai detto?" sento che s'è fermato e s'è voltato.
Mi fermo anch'io e lo guardo. "Cos'è che hai detto vecchio
di m...?" Ma no, ho svuotato da poco, la gioventù è malin-
formata e poi non sono uno che fa conversazione mentre
litiga e non ho bisogno di aizzarmi. Per risposta sfilo di tasca
il coltello. E una buona lama, larga e affilata a dovere. La
impugno e resto lì. "Quello te lo puoi ficcare nel e..." e
nomina il mio scarso punto di appoggio. Magari il fodero,
penso, ma questo ferro che ho in mano per ora ha in mente
un altro destino. Non gli parlo, resto a guardarlo e quello
non ha intenzione di lasciar perdere. Si è tolto gli occhiali.
Meglio, così lo guardo dove mi serve. Scende verso di me.
Indietreggio, ma non proprio verso il basso, piuttosto verso
il bordo del Gran Muro. Deve avere assai cattiva intenzione
se vuole battersi con me a un metro dal precipizio.
Lui non lo sa, ma sono sul punto di uscita della via di
Mayerl, dove la parete è ripida ma è doppia: c'è una con-
troparete addossata alla principale. Dal basso la si scala
come un camino. Per male che mi va ci finisco dentro e se
ho fortuna non crepo. Non voglio dargli questa soddisfa-
zione. La vuole, ha allungato verso la mano del coltello un
bel calcio secco, frontale, di quelli d'arte marziale. Ma sono
agile e ho da sfruttare tutta la virtù. E poi si è tolto gli
occhiali, così posso puntare le mie pupille sulle sue. Da lì
capisco quando sta per partire la sua mossa.
Intanto parla cupo, dichiara quello che mi vuole fare e il
posto dove mi spedisce. È loquace in duello. La mia voce
non gliela faccio sentire. Tengo bene il coltello e non rispon-
do ai suoi calci, solo schivo. Ho imparato l'arma da un sici-
liano che sapeva battersi con quella. Me l'ha voluta inse-
gnare, per gratitudine di non so più cosa. Mi dava lezioni
nel retrobottega di un'osteria a Torino. Sudavamo cercando
il primo sangue. Il coltello va tenuto basso. Cerca di strap-
parmelo di mano con i calci.
L'ho chiamato stronzo: eccone due che stanno per
ammazzarsi così, tanto perché sono vivi. Non che si abbia
bisogno di motivi più valorosi, perché cedere o no il passo
è un antico segnale di rispetto o di offesa. Non ho voglia di
colpire, non voglio portare questo sangue giovane sulla
camicia azzurra. Con che faccia mi metto in faccia al cielo?
Però qua non decido molto e sarà già qualcosa se mi ritro-
vo vivo tra le due pareti alle mie spalle.
Intanto scanso i calci, li vedo partire dagli occhi prima
che da terra. Ce l'ha con il coltello, perciò lo teme. Allora lo
butto da una mano all'altra per disorientarlo. E furbo, ha
capito che così può provare a intercettarlo al volo mentre
passa di mano. Vedo nelle sue pupille il punto fisso dell'i-
dea. Guardo solo i suoi occhi. Ho il mio coltello, un po' di
calma ancora per il momento di doverlo usare, ma non so
più dove sto, se ho già il tacco sul precipizio. Non ho anco-
ra allungato un colpo, non sa fino a dove arriva il mio brac-
cio. Non sa se mi sto solo difendendo oppure se ho forza di
colpire. Non sa niente di me, tranne che vuole buttarmi di
sotto. Continuo a cambiare mano al coltello. Sta concentra-
to nel punto morto dello scambio. Allora allargo di più le
braccia per far credere a un passaggio più ampio tra le mani
e fingo il lancio e lui parte col calcio nel punto in cui deve
trovarsi il coltello se sta cambiando mano. Ma non sta. E
rimasto nella destra che a mezz'aria gli uncina il piede tra
caviglia e tallone, la punta passa, esce dall'altra parte, poi si
sfila veloce. È stata una puntura, va per terra, fa un ringhio
di dolore e di collera, mette le mani al collo del piede, se le
trova unte di sangue, vuole rialzarsi e resta a terra, dev'esse-
re il tendine tagliato. L'ho lasciato là. Mi sono avviato in
discesa nel punto dell'arresto e ho proseguito. Non mi sono
voltato, non ho allargato il passo. L'ho lasciato là a cercarsi
un aiuto, a chiedere a qualcuno la carità di una spalla.
Anche da vecchio sono rimasto cattivo.
"Hai fatto bene."
Dici così perché ti pago il bicchiere e perché sei vecchio
anche tu e magari un ragazzo ti ha mortificato. Non ho fatto
bene, ho fatto. Quello che stava sotto il cielo ho fatto. Se era
giusto dovevo sentire in faccia il vento. La giustizia quando
arriva rinfresca e rinforza. Ho avuto solo lo sbuffo d'averla
scampata. L'intenzione mia era buona o cattiva? Questo
decide se è stato bene o male. E mi cerco un pretesto di
buono e non lo trovo, tranne che sono vivo. Stai lì su un
bordo e ti paghi la vita senza sapere se il tuo prezzo basta.
A noi vecchi è così ogni giorno. Siamo più guerrieri dei gio-
vani che non sono allenati a morire.
Non si è macchiata la camicia azzurra, così è buona per
un'altra montagna domani. Il coltello no, si è ingrassato di
sangue, non è più per tagliare il pane. L'ho pulito, te lo rega-
lo, a me ne serve un altro.
Il vecchio bracconiere lo posa sul palmo, lo apre, lo
annusa. "Mi fa voglia di tornare a caccia."
 
8. Annuncio mai spedito.
 
"Cerco la ragazza che la sera del... entrò nel negozio di
frutta e verdura di via... Aveva occhi gonfi, pantaloni sbuc-
ciati alle ginocchia." Cominciano così le righe di un annuncio
mai spedito, finito tra i desideri rinunciati e perciò intatti.
 
I capelli erano lunghi, colore delle castagne quando
sono mature e si sale in collina a scuoterle. Lei era scossa,
giusta per quel tempo.
 
I capelli sciolti s'impigliano e le mancava una ciocca,
strappata. Mi disse di volerli tagliare il giorno dopo. La voce
era bassa, di raucedine. Altri particolari: una ferita al labbro
superiore, uno sbaffo di rosso in un solo punto. Niente ros-
setto, non si usava. Degli occhi non so dire, era buio, c'era
fumo. Cerco quella ragazza non più vista. Oggi non è più in
quell'età, del resto è un tempo breve e allora durava anche
meno. Per esempio sono stato ragazzo per qualche settima-
na, un paio di volte, d'estate. Per tutto il frattempo si era
adulti involontari.
 
Cerco la ragazza che entrò di corsa nel negozio di frutta
e verdura, caso mai ricorda la tiepida sera di una guerra
locale, in un quartiere solo, una sera di guerra anche un po'
mondiale perché voleva disturbare la seduta della grande
alleanza guerriera dell'Atlantico del nord.
 
 
"La meglio zoventù", diceva una canzone alpina impa-
rata da mio padre. La meglio zoventù della città di Roma si
dava appuntamento, indurita e spavalda, intorno alla basili-
ca di San Paolo, contro la riunione dei capi della Nato
all'Eur.
 
I partiti della sinistra seduta, in parlamento e fuori, det-
tavano scongiuri: è una manifestazione provocatoria (la
nostra, non quella della Nato), opera di gruppuscoli estre-
misti. Ordinavano ai loro iscritti di vigilare nelle sezioni,
cioè: tapparsi dentro. Quella zoventù non se ne stava
buona, obbediva a nessuno, era invadente, senza rappresen-
tanti nemmeno nella portineria delle istituzioni.
 
C'eravamo appena raccolti, un bel mucchio di qualche
migliaio intorno alla basilica. La manifestazione non era
autorizzata, e allora? Mica volevamo aprire un esercizio
commerciale che ci serviva la loro licenza. Si trattava di
manifestare, e basta, un diritto intrattabile. Allora era piut-
tosto una gentile concessione, molto revocabile. Come de-
mocrazia prevaleva quella del partito unico, al governo
senza pausa già da un quarto di secolo. Così fu che dopo i
primi urti e i primi acciuffati, il grosso di noialtri salì al vici-
no quartiere Garbatella. In ordine sparso e affannato sbar-
rammo la strada con quanto capitava sottomano, cartelli
stradali, bidoni, macerie di un cantiere vicino.
 
Erano brusche mosse maschili, però qualche ragazza
restava e se non aveva forza di gettare pietre, in cambio le
raccoglieva e te le passava in mano. Non ti sei mai fatto met-
tere in mano una pietra da una ragazza? Sono le migliori, ci
metti dentro una forza nel lancio, che ti senti una catapulta.
E gliene chiedi ancora per risentire il tocco del passaggio di
mano. E mentre badi a questo, la carica avanza e tu resti un
po' indietro rispetto agli altri che si sono ritirati più su, resti
indietro perché quella benedetta ragazza non scappa, aspet-
ta te e tu non vuoi scappare prima di lei e così quelli si avvi-
cinano e magari potresti ancora filartela perché hanno il fia-
tone per la corsa in salita e pure per la fifa di finire sotto
qualche meteorite volante, ma niente, la ragazza non si spo-
sta e tu sei lì a lanciare e non manchi un colpo per quanto
sono vicini, tra poco sarà zuffa e tu proprio Giovanna
d'Arco ti dovevi trovare a fianco e ora stanno alla distanza
che ci si può guardare in faccia e to', si fermano, tornano
indietro, è finita la carica, hanno avuto ordine di ritirarsi.
 
È successo che dalle finestre, non te ne sei accorto, la
gente sta tirando giù la casa, tutta la roba vecchia, pare
Capodanno, vasi di fiori, vasi di notte, ferraglia, sedie rotte,
mattoni, mattonelle, barattoli, bottiglie e secchiate d'acqua.
S'è affacciato il quartiere, ha bombardato la carica, l'ha
rispedita a valle. Scendono le persone dalle case, tornano
alla barriera i noialtri che si erano attestati più indietro,
spuntano vecchi copertoni da incendiare, un uomo anziano
ne spinge uno acceso giù per la discesa da dove sono fuggi-
te le truppe dell'ordine pubblico. E a me sembra che l'ordi-
ne pubblico sia quello dell'improvvisa insurrezione di gente
che non ci conosce, non sa perché gli portiamo la guerra in
casa, ma decide al volo e a maggioranza che noi abbiamo
ragione e le truppe torto. Quella gente fa il suo ordine pub-
blico mettendosi con la meglio zoventù e facendola felice.
Perché felicità per noi è stato un quartiere insorto all'im-
provviso a fianco e intorno.
 
Chiamavamo quelle cose comunismo, ma tiravamo a
indovinare, quella era soprattutto una felicità, aspra e affu-
micata.
 
Cerco la ragazza del negozio di frutta e verdura, che non
è quella della barricata testa a testa, pietra a pietra, no, quel-
la la conosco, è stata sempre in piazza e ha risalito i gradi
degli urti fino alla più violenta forma della critica. Quegli
urti erano la critica, atti di una ragione dotata di forza di
demolizione, perché è buona a questo la ragione. E quelli
che non facevano così? Era gente che negava l'evidenza, si
escludeva dal campo. Sceglieva lo stato, che in nessun caso
è un'indicazione di moto.
 
Al termine di quel giorno e notte della critica avremmo
contato cinquanta di noialtri imprigionati, un ospedale di
feriti ma nessuno in corsia, ognuno in stanza singola presso
le abitazioni del quartiere. La critica costava. Cerco la ragaz-
za afferrata al volo all'uscita del negozio di frutta e verdura.
 
Le truppe tornavano alla carica da altri punti dell'accer-
chiamento. Riuscivano a entrare, catturare, portare via di
corsa, ma non potevano piantarsi in mezzo al quartiere. I
negozi restavano aperti. Chiudevano di colpo se qualcuno
di noialtri si riparava inseguito, allora il padrone abbassava
di botto la serranda e le truppe fuori a tirar calci, a spararci
contro un candelotto. Ma poi si dovevano ritirare, dai bal-
coni grandmava fitto.
 
Non hai mai visto commercianti comportarsi così con la
clientela? Era un effetto di quella strana felicità: se uno per
sbaglio chiudeva la serranda in faccia a un ragazzo in fuga,
lasciandolo fuori al pestaggio, il giorno dopo e quelli suc-
cessivi se ne poteva pure stare a casa, tanto in bottega da lui
non entrava nessuno per un pezzo.
 
Cerco la ragazza che scappò dentro il negozio di frutta e
verdura, occhi gonfi di gas da lacrime, pantaloni sbucciati.
Il padrone non fece in tempo a chiudere, gli agenti solleva-
rono la saracinesca già a mezz'aria, stufi di correre sotto la
grandine dei balconi, finalmente al riparo per una cattura
facile, buona a sgranchire anche gli arti superiori. Se la pre-
sero con la merce, un parapiglia di colpi sopra broccoli,
cicoria, pomodori, gambe del negoziante finito a testa in
giù, mele, zucchine, braccia della ragazza che si proteggeva
con quelle sotto le ceste rovesciate. L'afferrarono per i
capelli, trascinandola fuori istupidita di colpi e di paura.
 
Avevano tirato troppo il fiato nel negozio, il resto della
truppa si era ritirato. Uscirono di corsa e andarono a sbat-
tere contro qualcuno di noialtri. La ragazza mi passò
davanti, le afferrai un braccio. Così per due secondi, mas-
simo tre, formammo un bel trio primitivo, due maschi che
si battevano per il possesso della femmina tirandola da due
parti opposte. Poi quello mollò, preso da un calcio della
ragazza, di colpo rianimata dalla zuffa in suo onore e deci-
sa a far valere il suo diritto di scelta tra i pretendenti.
L'agente scappò stringendo nel guanto una parte di scalpo.
"Giuro che me li taglio a zero, giuro che non mi faccio più
pigliare così."
 
Cerco la ragazza che diceva così in un portone dove
passammo un'ora a pigliar fiato, a sgonfiarci gli occhi con
il limone, a contare i lividi che aveva, a togliere ortaggi dai
panni e dai capelli. La lasciai ch'era quieta, aveva sonno e
voleva tornarsene a casa, avvertire qualcuno. Io no, sollie-
vo di solitari in quelle mischie era di non avere retrovie da
avvisare.
 
Il resto di noialtri restò per la notte in strada insieme al
popolo di Garbatella a raccontare, a contarsi, bere caffè,
bicchierini di cordiale, masticare pane appena cotto, scam-
biarsi strette di mano. Il fruttivendolo aveva rimesso a posto
il negozio e la mercé scampata, con l'aiuto di molti. Si era
guadagnato una buona fetta di stima, oggi dicono di merca-
to. Anche se nessun esperto del settore gli avrebbe potuto
dare il buon consiglio che seppe darsi da solo in mezzo alla
piccola guerra piovuta addosso a lui.
 
Non l'ho vista più nei giorni, nelle settimane, alle assem-
blee, alle manifestazioni. Alla distanza di poca sicurezza di
oltre mezza vita più tardi, stendo memoria di un annuncio
mai spedito. "Cerco la ragazza..." Non la cerco e l'annuncio
non l'ho nemmeno scritto. Però nei giorni, nelle settimane,
alle assemblee, alle manifestazioni ho guardato se c'era
quella che mi aveva giurato sotto un portone di andare dal
parrucchiere, mentre si toglieva l'insalata dalle scarpe. Per
qualche settimana mi è stato a cuore e impresso un giura-
mento di tagliare corto.
 
9. In nomine.
 
Prima di ficcarmi nell'immenso vicolo cieco dell'Africa,
mi preparavo in una comunità di volontari che andavano a
svolgere un lavoro gratuito laggiù. Garantiti dal solo vitto e
alloggio, era gente di una specie più esposta di quella com-
presa oggi sotto la voce di volontariato. Si era insieme per
addestrarsi ai compiti e per imparare a comportarsi bene in
terre di bisogno. Per qualche mese facemmo da laici vita di
monastero, col tempo scandito dalle preghiere e dalle fun-
zioni religiose. Seguivo il ritmo da muto, mi adattavo alle
usanze da straniero. Avevo dichiarato la mia distanza, non
aderivo al culto, non mi aggiungevo alle voci. Ero in attesa
di destinazione.
 
Si occupava di noi un prete, intorno ai trent'anni come
me. Non potevo chiamarlo padre e neanche don, perché da
me al sud il don era di rispetto ai guappi. Mi rivolgevo a lui
per nome. Parlava volentieri, ascoltavo ma non si innescava
un mio racconto di risposta. Ero nei trent'anni, l'età più
desertica per me dopo gli anni delle rivolte sconfitte. Mi
faceva bene stare zitto. A quel tempo pensavo che si va dal
prete per la confessione e a me mancava, ed è mancato sem-
pre, quel bisogno.
 
Lui confessava a lungo, restava con ognuno per un'ora.
Me lo spiegavo con la necessità di vagliare le consistenze
umane: il servizio in Africa durava anni e comportava tena-
eia. Anche con me svolgeva il turno, seduto di lato sopra
una panca. Gli presentavo il minimo sommario degli anni,
com'ero arrivato da loro, del mestiere operaio avviato in
mezzo a un decennio di militanza rivoluzionaria infine sba-
ragliata, in rotta. Chiedeva se me ne pentivo. No. Cosa mi
distoglieva allora dal proseguire: la riduzione a puro scontro
militare di così tante ragioni di giustizia. Avevo voglia di
parlarne? No. Insisteva sul prodigio della remissione dei
debiti, l'abisso di grazia pronto in se stessi se si riusciva a
pronunciare i torti commessi,
Il suo orecchio era puro, offerto in servizio di ascolto, un
dispositivo che non tratteneva nulla. Era l'imbuto per tra-
vasare le proprie parole nell'orecchio di Dio. Il Dio che ti
riveste, gli dicevo, già sa. Certo che sa, ma ha bisogno del
tuo sacrificio di parola. Non può liberare da solo. Vuole che
tu faccia quello che lui ha fatto al mondo, rivelarsi.
 
Aveva ragioni e dirittura di modi, si poteva stare a dire,
a esplorare a lungo. Non conoscevo ancora uomini così.
Proprio questo mi scoraggiava: lui era per me novità, primi-
zia di persone consacrate a sostegno, io ero per lui uno della
dozzina di ostinati, un caso nel suo repertorio. Sapeva
nascondere la sproporzione e stare a pari con me. Pari di età
sicuro, eravamo coetanei, ma lui dov'era mentre l'Italia era
un quartiere in fiamme, le prigioni traboccavano di insorti,
le piazze friggevano di parole arroventate? Dov'era stato se
non era stato in quei crocicchi a giocarsi in quattro secondi
a testa o croce il futuro intero? Cosa poteva chiedermi uno
che non era stato lì? Dal resto di latino custodito malvolen-
tieri rispondevo: domine non sum dignus, non sono degno
neanche di chiamarti domine, con la desinenza del caso
vocativo. Lui ribadiva: "Liberami dai sangui", lo chiede
perfino Davide a Dio.
 
 
Non so niente del tuo diritto di perdonare, sciogliere,
non posso riconoscertelo. Non mi puoi assolvere dal dolore
che ho procurato e io non rimetto agli altri i torti ricevuti.
Andrea, io dimenticherò e questo sarà un giorno il mio per-
dono, se ci arriverò. Intanto, Andrea, io ricordo ogni cosa,
questa è la mia penitenza e tu non puoi levarmela. Vado nel
mondo con questa lebbra in faccia che fa scansare le perso-
ne, fa cambiare di marciapiede alle donne, perché le donne
sanno a vista. Sai Andrea, gli uomini come me di solito fini-
scono per confessarsi a una donna. A me non è successo.
Sono uno dei tanti che non hanno riparo, lasciami alla malo-
ra, non mi puoi salvare, ma se questo atto di confessione è
indispensabile al servizio e ai doveri dell'Africa, allora mi
ritiro e non ti faccio il torto di versare una reticenza nel tuo
orecchio.
 
Macché, disse, non estorciamo confessioni da un po' di
secoli e per chi mi hai preso, per un giudice istruttore? Non
vuoi liberarti, vattene pure carico in cuor tuo, ma io di fron-
te alla coscienza mia e al sacramento che mi è stato affidato,
io ti assolvo, in nomine... E fece il gesto delle dita, svelto che
non potei fermarlo con la mano. Due dita, indice e medio, le
stesse che si alzavano dai cortei imitando le canne delle pisto-
le, due dita in croce mi puntavano contro la loro forza oppo-
sta, di scarico. Non puoi, Andrea. E lui: sì.
 
Mi alzai dalla panca senza sollievo. L'aria smossa dalle
sue dita in croce era diventata più pesante. Mi aveva sob-
barcato di un'assoluzione schiacciante più di un atto di
accusa. Uscii dalla stanza a passi rallentati, di uno che sale
in montagna. Non ci parlammo ancora. Partii per l'Africa
con la zavorra che secondo lui volevo conservare sopra il
cuore. Certo non ero lieve e in Africa bisogna essere lievi, e
forti come la foglia del banano. Bisogna la schiena dritta
delle donne che portano l'acqua sulla testa. Invece ero
curvo, un chiodo che non si conficca, ribadito male, offrivo
al sole a picco un angolo maggiore. La mia ombra era più
lunga delle altre. Laggiù sanno che chi porta più strascico è
in pericolo. Mi ammalai di febbri, da stringere i denti per
non farli sbattere. Andrea m'aveva assolto, l'Africa no. Il
peso del suo sole scoperchia gli uomini e se non sono inte-
gri, li disfa.
 
Alla fine del viaggio in un letto di ritorno e di convale-
scenza il corpo aveva deposto per sempre due decime del
peso e non erano quelle sul cuore.
 
 
10. I COLPI DEI SENSI.
 
Metto qui a intervallo la ristampa di un libretto dedica-
to ai primi colpi impressi sopra i sensi, i cinque. Il piccolo
editore Fahrenheit 451 di piazza Campo dei Fiori a Roma li
ha accolti dieci anni fa e li ha seminati tra gli amici.
 
Qui stanno a sciogliere per un po' di pagine il nodo lasco
e il nodo serrato dei racconti di avventura del due, il con-
trario di uno.
 
Sono di un secolo e di un mare minore. Sono nato in
mezzo a entrambi, a Napoli nel 1950.
 
Da questo falso centro, apparenza di tribuna numerata,
non ho conosciuto profondità di campo né di dettaglio. Ho
inteso poco, male il tempo e le azioni. Da ospite in impac-
cio ne ho trattenuto cenni. Li voglio lasciare a un nipote
curioso, forse intenerito dall'atrocità e dalla modestia delle
vite che l'hanno preceduto.
 
Allineo, uno per senso, i colpi che si sono fermati a caso
e ad arte nei ricordi. Non ho consuetudine di testimone o
vocazione di cronaca, non so di stelle filanti, di colonne
sonore, ma penso a due dadi, un fungo, una damina, un fia-
sco: pedine di un Monopoli intorno al quale tenersi le
domeniche.
 
Tra un grido e un brodo è rimasto quello che so. Intorno
c'era un creato distante, esperto, che ripeteva alla cieca gesti
di madre seconda.
 
 
11. Udito; un grido.
 
Nato nel '10 mio zio, figlio di un napoletano buio e di
una americana luminosa, portava con eleganza la bellezza di
ventura che gli incroci producono almeno per una genera-
zione.
 
Da giovane svolgeva incarichi presso una compagnia di
navigazione. Con gli ultimi documenti andava alla partenza
delle navi. Vedeva restare sul molo pezzi di famiglie mutila-
te dai distacchi. Tutti gli addii del sud finivano a quel molo,
si strappavano lì tutti i legami.
 
Si era abituato a vedere le separazioni, non ci badava,
del resto già da molti anni la gente nostra aveva preso a
smaltire la miseria nelle Americhe. In periodi precedenti
c'erano state perfino colonne di uomini agli imbarchi della
White Star Line.
 
Fu lui che raccontò a mia madre il grido. Era uno dei
tanti. Non potè spiegarsi perché quello, non un altro o nes-
suno, si fosse impresso nella membrana acustica dell'anima.
 
Il solito piroscafo carico di uomini partiva nell'ultima
luce di un giorno d'aprile tiepido, splendente. Sul molo
tacevano gli addii, inutili per la distanza, perché la poppa
della nave gremita di facce era già all'altezza della diga
foranea.
 
 
Allora una donna con i capelli bianchi e il vestito nero,
dolore e anni addosso dappertutto, gridò con tutta l'aria che
aveva trattenuto. Sul primo silenzio del distacco fresco,
gridò da sirena, da cagna, da madre, a sillabe stracciate: Sai
va to re e. Un nome solo, chiamato e perso a gola rotta, ferì
a vita mio zio, giovane impiegato bello, elegante, bravo a
cantare e a suonare la chitarra a orecchio. Quando lo rac-
contava la sua voce scendeva in un tono spezzato e ripeteva
in sordina, ma certo esattamente, quel grido. Gli saliva la
pelle d'oca.
 
Sapeva cantare a memoria e ripetere musiche ascolta-
te anche una sola volta. Sapeva ripetere a orecchio quel
grido. I dolori hanno una chiave di violino per chi è musi-
cista di dentro. Una verità può essere colta da un passan-
te, un estraneo può trasmetterla più fedelmente di chi la
conosce e la patisce. Non avrebbe potuto cambiare nien-
te, ripeteva quel grido sillaba su sillaba da sirena, da
cagna, da madre. Si stampa a caldo e a caso il dolore degli
altri su di noi.
 
Mia madre lo ascoltò da lui. Se l'udito è coppia d'altro
senso, esso è la pelle. Anche la sua, nel grido, si increspava.
Era anche lei intonata e sapiente di vecchie canzoni, sapeva
ripeterlo, squarcio di lenzuolo asciutto che si straccia.
Attraverso di lei è arrivato fino a me che lo affido al defini-
tivo silenzio di un resoconto. Non provo a ripeterlo, stono,
non trattengo le musiche, le loro voci esatte. Ci metto molto
a imparare un canto.
 
Voglio bene a chi non ha disperso il grido. Non sciupa-
re il seme, prescrive un arduo comandamento. Raccoglierne
qualcuno, è una più accessibile consegna contro il fitto spre-
co del vivere. Per un uomo potrebbe bastare.
 
Il grido, la voce condividono la natura del seme. Lasciar
detto più che lasciar scritto incita la memoria degli altri a
custodire. Lo sapeva chi sparse al vento e agli uomini le rare
parole, chi pensò che in quello consistesse il fecondare e che
le orecchie fossero fiori per le api.
 
Salvatore: il nome strillato nel porto di Napoli intorno al
1930 si è scorporato dal dolore che lo pronunciò, come
dalla persona che lo portava via con sé. Contro il mare, la
nave, gli uomini strappati e nominati invano, quel grido
torna alla sua origine di bestemmia generale.
 
 
12. Vista: un vulcano.
 
Era l'inverno del '44. I tedeschi se n'erano andati da
Napoli pochi mesi prima, portandosi dietro Nicolino, nomi-
gnolo assegnato al pezzo di artiglieria antiaerea che sovra-
stava la collina del Vomero. Sotto i suoi spari i napoletani
avevano provato l'improprio senso di protezione che pro-
cura un parafulmine guasto: attirare i colpi senza poterli
neutralizzare.
 
Nicolino aveva voce di vero cannone, risuonava come
un tamburo di grancassa preso a pugni. Era un chiasso
entrato nel sonno e nell'intimità degli abitanti. Rispondeva
in cielo ai tuoni che esplodevano in terra tra le case e le
strade. Napoli incassò più di cento bombardamenti. Uno di
essi venne senza nemmeno l'allarme della sirena. Fu ese-
guito ad alta quota e su obiettivo libero, il quattro d'agosto
del '43, ultimo giorno per tremila persone sorprese in stra-
da dall'inferno.
 
In tutti quegli anni mio nonno era riuscito a salvare, cor-
rendo al rifugio in gara con il cane, un servizio da té di por-
cellana inglese. Era ben riposto in un valigione proprio
accanto alla porta, pronto al decollo. Era convinto che quel-
le tazze valessero una fortuna. Finita la guerra le avrebbe
trasformate in un camion. Doveva pur smettere quel fini-
mondo.
 
E finì. I tedeschi in quel settembre del '43 sgomberaro-
no Napoli sospinti a nord dalle forze alleate e dal brusco
sussulto di una città in briciole e stufa di loro. Quattro gior-
nate di fuochi affrettarono il rigetto di un corpo di spedi-
zione che era dilagato, lì come nel resto d'Europa, a somi-
glianzà di epidemia. Un popolo è molte volte un corpo. Il
suo sistema immunitario può essere minato da miserie estre-
me, da specifici terrori che la guerra propaga. I tedeschi
riuscirono a sospendere il senso di identità di molti popoli,
a bloccarne le reazioni immunitarie. Imposero a Napoli il
totale reclutamento degli uomini, riuscendo così a mettere
fuorilegge il genere maschile.
 
Così furono quei giorni. Gli alleati erano arrivati a Ca-
pri, a Sorrento, ma si erano fermati. Il golfo era solcato da
un invisibile confine che divideva la guerra dalla pace, la
libertà dalla tirannia, Pompei libera, Portici no.
 
Fu un colpo di pistola, un rastrellamento, una sassaiola,
una bugia che gli alleati erano in marcia: si condensò la fret-
ta, l'urgenza che a volte percorre le fibre lese di un popolo,
come quelle di un malato che ritrova il senso di essere orga-
nismo, corpo e nome. Di colpo, in piena estate, i tedeschi
furono sotto il freddo che già altre volte aveva liberato un
paese dall'epidemia. Era quel freddo generale che hanno in
forza i popoli che si battono sul proprio terreno, quello che
a Stalingrado aveva chiuso e cancellato per la prima volta il
corpo estraneo, l'antigene. Ora lo stava braccando da tutti i
punti dell'orizzonte.
 
Arrivarono gli americani e montarono un nuovo canno-
ne, una batteria contraerea che suonava, diversamente da
Nicolino, un rumore di saracinesche abbassate a tutta forza.
Sparava in cielo raffiche ravvicinate. Il servizio di porcella-
na inglese che aveva resistito ai colpi dei consanguinei
angloamericani, cadde insieme a tutti i tramezzi della casa
sotto l'unico bombardamento tedesco. Il camion di porcel-
lana inglese finì disfatto sotto le macerie.
 
Senza più casa la famiglia di mia madre si disperse in
alloggi di parenti. Tra americani appena istallati, sfollati che
rientravano e traffico di masserizie, Napoli era una città mo-
bile. Ma il nonno e il cane non correvano più, le sirene tace-
vano. A sud del Garigliano era cominciato il dopoguerra.
 
Fu in quell'inverno, del '44, che il Vesuvio si aprì ed uscì
il fuoco. Dal cratere saltavano in cielo le fiamme, le pietre;
scendevano a solchi le lave aprendosi la via dei campi.
Alcune arrivavano al mare, entrando nell'acqua che frigge-
va. "Questa città è una pentola e noi siamo la carne", è scrit-
to di Gerusalemme nel libro di Ezechiele, il primo terrore
dell'immenso, angoscia sacra dei popoli sismici, vulcanici,
periodici, si decantò in meraviglia. Il vento sagomava il pen-
nacchio di fumo in fogge di funghi e campane. Il tramonto
accendeva di tutte le voci del rosso le ceneri sospese.
Nemmeno le comete valevano le sere di quel gennaio col
monte rigato di strascichi in fiamme.
 
Non era il sangue raccolto dai campi della guerra che con-
vergeva da tutte le sorgenti al getto del vulcano, non riman-
dava luce, non rispondeva voce il solco in fiamme. Nessun
legame né riferimento passava tra quello e il male che i popo-
li si facevano. Era il tutt'altro. Il minuto disfarsi degli uomini
tra loro veniva sovrastato per una volta ancora dal traffico
intcriore dell'immenso.
 
Mia madre in un alloggio di fortuna, a una finestra
nuova, compiuti appena i diciannove, guardava i fuochi di
una guerra spenta. Quegli ultimi colpi di dentro, voci di
viscere indifferenti, spargevano sulle macerie lo strato di
cenere del dopoguerra e degli stenti. Non aveva ancora ven-
t'anni, averli non le importava più.
 
 
13. Odore: brioches e altri gas.
 
I bambini scrutano i tatuaggi. La vanità virile dei mari-
nai, come la nostalgia dei reclusi, consente che il corpo si
presti da foglio e da tela al pennino aguzzo dell'incisore.
 
Nel tempo del mare estivo conoscevo i disegni e i colori
sulla pelle dei pescatori, nomi, cuori, navi, lune. Andavo da
bambino con mio zio a pescare. Aveva una barca a motore
governata da Nicola, il pescatore che divideva con lui il frut-
to del giorno. Più spesso si andava noi soli, ma ogni tanto
con qualche ospite.
 
Ci si alzava presto, io passavo dal solo bar aperto e rag-
giungevo la spiaggia portando le brioches ancora tiepide di
forno. L'odore appetitoso si mischiava a quello salato del
legno di barca e agli sbuffi cadenzati del vecchio motore
diesel. Era per me un odore da uomini ed io provavo orgo-
glio a condividerlo. Dalla spiaggia dei pescatori di Ischia si
partiva per raggiungere il tratto di mare che era considera-
to pescoso in quel momento della stagione. Una volta venne
con noi un signore magro, sulla quarantina, coetaneo di mio
zio. Prima di salire a bordo gli venni presentato e lui mi
dette la sua mano lenta, distratta. Badavo alle mani degli
uomini, a come le porgevano, ai calli, a come le intrecciava-
no in stato di riposo: forme in cui provavo a riconoscere il
carattere. Quell'uomo non era di Napoli, parlava poco e
teneva le mani in grembo. Sul braccio aveva un tatuaggio.
Lo vidi sulla barca perché solo lì si rimboccò le maniche
affondando la mano nell'acqua per bagnarsi i capelli mentre
la barca andava. Era formato di soli numeri.
 
Non facevo domande agli uomini, sapevo che la condi-
zione di un bambino tra loro era starsene zitto. Col tempo
ho apprezzato quegli usi. I bambini che a raffica emettono
domande, gustano più spesso la sonorità perentoria del loro
tono di voce anziché le vaghe risposte. Non avrei mai chie-
sto all'ospite cos'era la cifra che aveva incisa. Pensai prima
a un numero di telefono, poi a un messaggio segreto infine
immaginai che vi era segnata la somma dei giorni di una
vita, forse la sua stessa.
 
Gli uomini parlavano poco tra loro, il motore faceva sal-
tare le lenze sul paiolo di legno del fondobarca. Di pochi
cenni era il viaggio verso il perimetro di pesca. Ci fermam-
mo al largo di Procida. Calammo i nylon innescati con pezzi
di tòtano, specie di calamaro, cercando di indovinare la
quota di mezza profondità dove potevano esserci quei pesci
che da noi si chiamano vope. L'uomo col braccio segnato
ripeteva i nostri gesti da inesperto eppure con sufficiente
precisione.
 
Vidi il colpo brusco che mio zio eseguiva di scatto,
alzando in cielo la mano che reggeva la lenza. Tatatà, i tre
colpi violenti che la vopa assesta all'amo li sentii anch'io e
anche Nicola. Tutti e tre in piedi tiravamo i nostri fili con la
destrezza necessaria. Bisognava che il recupero fosse svelto
ma regolare, senza strappi. Si doveva anche badare a non
calpestare la matassa di nylon che si accumulava tra le
gambe per non ritrovarsela poi imbrogliata. Salirono a
bordo le belle vope argentate che iniziarono sul legno la
frenetica batteria delle code, suono che mette allegria ai
pescatori.
 
L'ospite non aveva indovinato la profondità, a volte
bastano due metri di scarto per escludersi dal branco.
Nicola gliela aggiustò e cominciò così anche lui a sentire le
brusche toccate che dal fondo del mare scaricano sul pol-
pastrello il fremito della cattura.
 
Si accumulavano i pesci nella tinozza mentre il sole sali-
va in mezzo al giorno. Con le dita intrise di pesce e di acqua
salata portammo alla bocca le brioches, gustandole sotto lo
stimolo di un bruciante appetito. Gli uomini odoravano di
esca e di forno. Sentivo in quell'età di essere parte di una
comune virilità del mondo, muta, profumata. Da adulto non
l'ho ritrovata negli uomini.
 
Tornammo verso Ischia. Mio zio al timone, Nicola puli-
va i pesci, io a prua lontano da loro. L'ospite metteva il suo
braccio nell'acqua, segnando una scia parallela alla barca
che andava. Il braccio tatuato fendeva le onde, prua di nien-
te, dietro la quale non seguiva altro.
 
Passammo sotto Procida a poco tratto di mare dal peni-
tenziario. Da una finestra con sbarre uscì uno straccio bian-
co, un braccio nudo sventolò quel panno. Era per noi quel
cenno, non c'era altra barca vicina. Di corsa tornai a poppa
ad afferrare la mia maglietta a righe e di nuovo fui a prua. Il
mare calmo permetteva che rimanessi in piedi: così svento-
lai il mio panno con tutta la forza in equilibrio. Avevo età di
ragione, circa dieci anni, conoscevo quel posto e le reclusio-
ni avevano già messo semi nel pensiero. Gli uomini mi
lasciarono fare, non risposero al cenno, non si curarono di
me. Finché vidi quel braccio agitai il mio. L'ospite levò il suo
dall'acqua e indossò la camicia.
 
Racconto le poche cose che si sono fermate nei sensi. Più
di tutto trattengo memoria di un odore maschile, di un'ap-
partenenza a un mondo di adulti. Ho saputo più tardi chi
era quell'uomo tra noi. Era tra i pochi usciti dai campi di
sterminio. Quel numero sul braccio non era un tatuaggio,
ma l'infamia di una marcatura. Apparteneva a quella uma-
nità sterminata con il gas Zyklon B, il cui odore ha avvele-
nato il nostro secolo, e che nessuno conosce.
 
Quando sbarcammo mi dette la sua mano, stringendo la
mia con un po' di saldezza. Era una stretta lieve ma i nume-
ri sul braccio si mossero per l'impulso dei tendini. Risposi
con la mia poca forza alla sua mano. Come la mia, profu-
mava di pescato e brioches.
 
 
14. Tatto: l'anello al muro.
 
Quando veniva settembre, il vento cambiava di verso e
la stagione di odore. Al maestrale dei giorni di sole e di
mare increspato succedeva il libeccio che alzava onde lun-
ghe. La pioggia asciugava la polvere, le strade esalavano il
cotto dell'estate. Uscivamo nei vicoli dell'isola, lasciavamo
gli abituali itinerari dei giorni di mare. Ci avvisava la prima
lana addosso che nell'aria fragrante passava l'odore della
pineta umida e dei quaderni nuovi, freschi di fogli bianchi.
Sulle spiagge deserte correva il cielo cupo ed era tempo di
passeggiate. Una volta per anno, nei giorni ventosi di set-
tembre, salivamo a rivisitare il castello Aragonese, scoglio
massiccio armato a fortezza e legato alla terraferma da un
istmo sottile.
 
Da una terrazza sulla sommità un faro di notte perlu-
strava il mare. Da lì si poteva comprendere la sagoma sinuo-
sa di Procida e, dietro di essa e oltre, il golfo schiacciato
sotto il vulcano.
 
Salivamo verso le cinque, nell'ora del pomeriggio che
permetteva un appuntamento e uno spostamento della
comitiva fino al villaggio dei pescatori, oltre il quale sorge-
va il castello. Tra le stanze magnifiche crollate, le crepe sul
soffitto davano sul cielo, quelle nei muri davano sul mare.
L'azzurro sbucava dalle pareti a ciuffi. Fervevano i primi
sentimenti e le ansie di volersi appartare in una segreta
messa ai quattro venti.
 
Ci si fermava all'ingresso della cripta delle monache.
Non tutti volevano scendere nella stanza che custodiva
ancora in un angolo un cumulo di ossa porose. Le metteva-
no morte a sedere su scranni di pietra bucati al centro, per
consentire al corpo di disfarsi. Le mettevano a "scolare", il
corpo scioglieva la sua forma seduto, al buio, come in una
cantina. Scendevamo in silenzio, qualcuno tenendosi per
mano. La morte era cruda e vicina, non ammansita né travi-
sata, la visitavamo, nera monaca di settembre, disfacimento
di stagione a mare.
 
Ora non sono più lì le ossa, ora sembra un salotto di pie-
tra la cripta di sedili allineati al muro, illuminati a corrente.
Ora sembra una latrina comune la cerchia di scranni bucati
al centro. La morte ora è un rifiuto organico addobbato da
cerimonia. Quando la toccavamo nel buio della cripta al
lume di una candela comprata apposta, era l'ombra seduta
della vita, teschi e clavicole, anatomia asciutta, impalcatura
residua del tempo di tutti. Lo visitavamo con timore, senza
disgusto, senza vergogna.
 
Uscivamo alla luce lungo la scala stretta e d'improvviso
nessuno voleva essere l'ultimo. La voce che si era spenta in
sussurri tornava acuta e gridavamo, respirando forte.
 
Proseguivamo il giro per i camminamenti della rupe e
nel castello. Nei corridoi di tufo il fresco rigovernava il
fiato. Sulla via del ritorno entravamo nelle segrete. Sotto
un arco di pietra nuda un piccolo tozzo cancello di sbarre
girava sui cardini a fatica. Passavamo per un cortile dai
muri che furono alti e ancora in qualche punto accennava-
no alla forma di una fossa per vivi. Da lì si accedeva agli
stanzoni comuni, dove le feritoie lasciavano girare troppo
in alto stretti fasci di luce. Dalle pareti di pietra lisciata
sporgevano anelli ancorati, robusti da poter trattenere una
barca. All'altro capo dell'ormeggio ci furono uomini sal-
dati alla catena. Erano l'ultima maglia di un ferro, consu-
marono il tempo come un rancio, insieme ad altri sempre,
razione magra per conservarsi interi. Pensieri di ragazzi in
gita d'improvviso cadevano seri. Senza libri a fare velo
appariva la storia nuda: epidemie, arsure, nevi, guerre,
battito regolare di una sentenza eseguita a secco lì dentro,
nel recinto del tempo perduto. C'erano muri come quelli
ovunque, un carcere per isola, nostro Tirreno pieno di
galere. Toccavamo il ferro chiuso nella pietra, qualcuno
imparava di colpo, tra il chiasso di fuori e un brusco silen-
zio di dentro, la dose di orrore rituale che ogni età con-
densa in una forma: il carcere, per noi.
 
Crescevamo sull'isola d'estate. Nessun presagio custo-
diva in segno quel destino, sembrava così antica la stanza
delle sbarre. Non era la cripta, magazzino finale della
notte di ognuno a incombere su noi. Era la piaga ai polsi,
alle caviglie, la catena, l'uomo bestia per l'uomo, morso di
un ferro insonne nella carne. Era la vita infame, la sentina
dove il pescato stagna e si dimentica sotto il paiolo di
legno della barca, frutto di mare perso nella zavorra d'ac-
qua della chiglia. Uomini, età feroce, agguati, sbarre, noi
ancora lontani dal destino, incapaci di credere alla stanza
che avevamo intorno, immensa da abitare. Su alcuni si
sarebbe chiusa in cella.
 
I muri erano pieni di scritte. Finché rimaneva uno spa-
zio bianco da riempire con un nome, una data, non sarebbe
finita la prigione. Toccavo l'anello confitto nel muro, liscia-
to dall'uso, ferro vaioloso di ruggine salato dal grasso delle
pene. Tiravo forte, non veniva via.
 
 
In discesa nell'ultima luce correvamo nei corridoi a spi-
rale che conducevano alle ultime rampe e al portone. Le
grida rimbombavano nel vuoto, ai più piccoli bruciava il
terrore e schizzavano in fuga in cerca dell'aperto, della sua
luce cupa. Infine dal cavalcavia dell'istmo ci si voltava verso
la massa nera dell'isolotto chiuso. Dietro di noi, ultimi ad
uscire, il portone fermava i suoi battenti, quasi da sé; nessu-
no ci seguiva lungo il ponte. Il faro puntava sul mare la
sezione di luce, mezzo giro di giostra, due secondi. Eravamo
bambini sull'isola maestra.
 
Al mancorrente del battello che ci riportava in città alla
fine di settembre, mi tenevo stretto guardando verso terra.
Tiravo forte, non veniva via, tutto era saldo e l'età successi-
va sembrava un'altra maglia di catena.
 
15. Gusto: un brodo di pollo.
 
Ho passato qualche mese, anni fa, in un posto sotto l'e-
quatore, in una nazione che si chiama Tanzania. Prima di
andarci avevo imparato la lingua swahili che è mezzo di
comunicazione buono per larga parte dell'Africa orientale.
 
Abitavo in un piccolo centro. Le ore della sera si tra-
scorrevano sotto un vasto mandorlo indiano bevendo té.
Parlavo con gli uomini, ma le più allegre conversazioni
erano con delle suore locali dai nomi sereni: Melanìa,
I,c«k ;idìa. Hiano voci di una lingua che accenta sempre la
penultimi! vocale, che ha solo parole piane. Avevano un sor-
liso spalancalo, pronto, riuscivo senza sforzo a farle ridere
un « (ini.indo di neve, spaghetti, terremoto. Traducevo per
lem» pioveihi della mia città: pe 'mmare nun ce stanno
taverne, katika bahari hapana nyumba. Melanìa era come
me, in mezzo ai trent'anni. I denti sani lucevano col bianco
delle pupille, perché rideva ad occhi aperti. Camminava
oscillando per i piedi gonfi. Non le ho mai visto i capelli,
sempre dentro la cuffia azzurra.
 
pinno Rollio del min urrlvn ni piccoli) cenno vidi a
l pumi un lerpHiie, Krtt eulli, verdi vivo, lungo un
t, Mi «t'orile im^niujn, li firmò « dopo un'esitn/ione si
InMIft ibiìb um pl«tm. Ir© pimunt» immobile, ialino su di
I
Mll
una panca, attento solo a cercare di controllare il respiro.
Volli chiamar gente, poi ci ripensai: che figura faccio? Ecco
l'europeo arrivato fresco fresco che al primo serpentello
chiede soccorso. Non volevo esordire così. Ma appena rivi-
di qualcuno riferii con tono distaccato che avevo visto quel
tale animale. "Dove?" chiese subito l'amico. In pochi minu-
ti si era organizzata una piccola schiera di persone con
bastoni. Sollevarono la pietra e uccisero il rettile che i libri
chiamano mamba verde. Il suo colore lucente sbiadi veloce-
mente, la pelle tesa si aggrinzi, come se gli andasse larga.
Avrei rivisto più volte la scena che segue l'avvistamento di
un serpente tra le case. Non scherzavano con le cose della
natura, non l'ammansivano.
 
Di sera andavo a passeggiare dopo cena lungo un corso di
acqua. Nel fracasso degli animali notturni, udivo ogni tanto
dai cespugli il suono delicato di un campanellino che quando
attaccava non smetteva presto. Nel buio delle sere senza luna
suonava, suonava ed io mi sentivo avvisato da quel tintinnio.
Di cosa non so più; ricordo solo che era trillo gentile, di quel-
li che in una stazione di provincia anticipano l'annuncio che
sta passando in corsa un treno e non si fermerà.
 
Tornavo alla branda aspettando il sonno delle nove di
sera, nel chiasso delle notti di palude sognavo senza suoni.
 
Una sera in una passeggiata sentii sul viso la carezza fulmi-
nea lieve di un'ala di pipistrello, il contatto più morbido che
mi sia passato sulla faccia. Avevo avuto modo negli anni pre-
cedenti di dimenticare le carezze. Non feci in tempo a mobili-
tare il ribrezzo, provai nella sorpresa una confusa gratitudine
per il buio e il suo tocco leggero. Per una nostalgia istantanea,
dimenticai l'allarme. Se il corpo prova esilio è nella pelle.
 
 
Vennero le febbri. Sotto la dissenteria dell'ameba spun-
tò la malaria. Perdevo acqua e peso da tutti i pori, non
riuscivo a ingoiare niente che non rigettassi. Penoso era il
percorso fino alle latrine, reso incerto dal fatto che la mala-
ria aveva infebbrato anche gli occhi, confondendo la vista.
Dopo la prima settimana non ero più in grado di alzarmi.
 
Mi venivano a trovare le suore, le sentivo parlare del
tempo dietro il velo della zanzariera. Quello era il mio con-
fine e si infittiva.
 
I sensi erano rivolti all'interno, mi ascoltavo. Sorse in
quelle notti senza sonno un odore mai prima sentito. Saliva
dall'inguine, dalle ascelle, lo fiutavo continuamente immer-
gendo le dita e annusandole. Era un sentore lontano, una
palla di gomma morbida, il primo chewing gum e l'acido
crudo dell'erba tagliata. Divenni ansioso di sentirlo.
Scimmia veloce che accarezza in volo i rami, così il naso cor-
reva in quell'odore sui nervi chiusi e li toccava dentro. Non
lentamente: mi spegnevo in fuga. Passava il tempo ed ero
vicino al blocco renale, poca urina scura lo avvisava.
L'odore mi riempì le narici, passava come incenso fresco sul
mio quieto delirio. Per mare non c'erano taverne.
 
Venne Melanìa una sera. Portò un brodo di pollo. Non
credo che mi disse cos'era, non credo che mi disse qualco-
sa. Sollevò il velo della zanzariera. Fuori c'era il caldo buio
di sempre, io stavo sotto una coperta militare inglese di
lana. Buttò tutto all'aria, rabbrividii confuso dai modi più
che dal freddo. Mi alzò a sedere in mezzo al letto, spinse
fuori le mie gambe magie e sedandomi a lianco mi tenne
fermo e fori e con una Mieti.i .u Mosso a lei dalla quale non
potevo cadere. Il mio cui pò Ix.imo ossuto spariva nella sua
premi, nelln niiii mimo s« m.i stava tutta la mia spalla. Poi,
cucchiaino dietro cucclimmo, me lo fece bere tutto, pure
quello che ributtavo fuori e che raccoglieva in una bacinel-
la sulle mie ginocchia.
 
Chissà dove aveva trovato quel pollo, chissà quanto le
era costato. So oggi che per la disidratazione è l'alimento
più adatto. In quel momento ero troppo debole per riusci-
re a rifiutarlo, lo subivo come una tortura alla quale non
potevo scampare. Morire diventa scomodo se qualcuno ti
vuole per forza salvare, pensavo bollendo di febbre addos-
so a lei.
 
Tornò a portarmene finché non fu consumato tutto quel
pollo, fino all'ultima spremitura. Presi a gustarlo spingendo
la lingua contro il palato. Aveva più sapore di quello che
sono disposto ad attribuire a un brodo di pollo. L'abbraccio
della sua spalla contro il mio corpo trasmetteva più forza di
quella necessaria a sorreggermi. Nel suo zelo segreto ferve-
va un eccesso, uno spreco che non dava tregua. Era severa,
brusca di modi, come rimprovero di chi trascina via senza
parlare.
 
Finirono le febbri, durava solo la dissenteria, salii su un
aereo, le ho scritto qualche cartolina, qualche volta. La vita
che da me svaporava distratta, profumata, mi fu rimessa
dentro a cucchiaini, più mia di prima, immeritata, spesa.
 
16. Il conto.
 
A ogni trasloco mio padre orientava di nuovo il suo letto
con i piedi al Vesuvio. Era il verso del suo sonno, comunque
profondo dopo i sorsi del vino della sera. Una notte di scos-
se e giravolte di pavimenti e lampade non si riuscì a sve-
gliarlo e fu lasciato a casa mentre i tarantolati della città si
accampavano in strada.
 
Vesuvio, terremoto, solfatara, il suolo da ventriloquo
sbollisce in superficie l'intruglio costipato delle sue viscere.
Chi di noi guardando il mare ancora un poco azzurro non ha
pensato che è riparo più sicuro dei palazzi di tufo? Miriadi
di noialtri hanno affidato al mare la loro via di fuga. Stiamo
col morso del terrore in gola, diventiamo famosi cantanti a
forza di gridare scampo nei sonni, diventiamo rauchi per
ceneri e lapilli finiti dentro i sogni. E il santo protettore è un
soldatino di sentinella contro il torrente dell'incendio lungo
il piano inclinato del vulcano. Il popolo correva con la statua
avvocata al ponte della Maddalena per l'ultimo sbarramen-
to. Uno di queste parti, senza poterci fare niente, senza
accorgersi, viene su costruito da un vulcano.
 
Così da ragazzo guardai dalla sua parte, la sua forma di
pagnotta rigonfia, al finestrino di un treno che mi staccava
dal luogo e solo verso il suo zuccotto a forma di cratere mi
uscì di bocca: addio. Lasciavo il mio posto, quello che spet-
ta di nascita, dove si diventa un minerale a forza di crescere
ossa e si diventa bosco a forza di radici di capelli e peli in
faccia e al pube, dove la voce bianca dell'infanzia si arrug-
ginisce e ringhia raschiando la trachea. Partii tradendo tutti,
padre, madre, sorella, casa, studi, i pochi amici e le mille set-
timane di residenza, tante servono a fare diciotto anni.
 
Nessuna ragazza si soffiava il naso al marciapiede del
binario, solo quella nessuna, non tradii. Traditore di vita
apparecchiata, già intitolata, andava solo svolta, invece nien-
te, uno si afferra per un bavero e si sbatte via senza uno strac-
cio di lettera, di mestiere in mano, d'indirizzo nuovo, zitto e
imbottito di mai più. Ovunque tranne qui, qualunque malo-
ra tranne questa mezz'ora di pazienza ogni trequarti d'ora.
Tradire e non poterlo fare con il sollievo della vigliaccheria,
ma dovendo pure ricorrere al più assurdo coraggio mai pos-
seduto prima, chiesto in prestito al futuro, indebitandosi con
lui. Tradire è sentirsi i polmoni bruciati, l'aria della fuga scot-
ta negli alveoli, la libertà rubata deve essere feroce, altrimen-
ti non regge al rimorso del dolore di chi resta.
 
La città bandiva i suoi assenti. Chi non l'abitava veniva
iscritto nel registro segreto degli espulsi. Napoletano è tito-
lo solo per residenti, la nascita non basta. Conta chi resta,
ogni altro è forestiero. Napoletano: proviene poco da un'af-
facciata su 'na iurnata 'e sole, molto di più dipende dal suo
monte pandoro lievitato a fusioni. Nella casa di ognuno sta
l'acquerello notturno delle lave incendiarie, il mare illumi-
nato a sangue. Napoletano è adoratore del vulcano fino a
lottizzare le pendici, risalire al cratere e costruirci dentro
magari uno stadio con le gradinate già evidenti. Pensieri di
uno che si stacca ragazzo senza salutare e guarda al finestri-
no di destra il vulcano che gli gira le spalle con lo strascico
dei pendii attenuati su Caserta.
 
 
Non ho più pensato al verbo tradire fino a molto più
tardi, nell'autunno dell'ottanta. Avevo trent'anni, non più
contati a settimane ma a città e distanze. Ero a Torino dove
stava finendo in una sola stagione di foglie scrollate tutto
l'incominciato di politiche aspre, antagoniste, di una gene-
razione. Sbarravo insieme ad altri operai i cancelli di una
fabbrica per urto e resistenza contro un diluvio di licenzia-
menti. Durammo una quarantena e una quarantina di notti
e giorni, quanto la cataratta di Noè, noi senz'arca.
 
Quando si ritirarono le acque, gli operai restarono fuori.
La storia del decennio di forza e di sollievo operaio finiva lì.
La storia sa tradire, non c'è da brontolare, basta esserci stati
dentro e averle dato la pesata giusta. Pensieri di uno che
arrivava da Torino col treno alla città del vulcano. Non por-
tavo con me il verbo tornare, chi se ne va di lì perde diritto
al verbo. Ci può andare, laggiù, tornare, no.
 
Dal finestrino di sinistra il vulcano al mattino era indo-
rato ai bordi. E a buona cottura, a mezzogiorno sarà pron-
to a tavola sul golfo.
 
Dalla casa rividi l'affacciata sul largo. Dal suo grandan-
golo di balcone giravo il collo dal Vesuvio fino alla punta di
Posillipo serrando in mezzo la costa di Sorrento e l'isola di
Capri, stesa a diga del golfo. Io non ero più io, trent'anni,
dodici lontano, un estraneo passato ad altre usanze, un ope-
raio del nord.
 
La città che da ragazzo mi sembrò violenta era di burro,
le mani non riuscivano a toccarla. Stringere la maniglia del
vecchio tram e non sentire niente, neanche il minimo
appoggio: l'organo del tatto decideva a nome di tutto il
corpo la separazione. Sbandavo sul sedile della funicolare di
Mergellina che scarrucola dentro il buio della galleria di
tufo. Ti ho tradito e basta. Mi resta l'onore secondario di
averlo fatto gratis, non per fare fortuna, non per soldi stra-
nieri. Per il niente dei miei venti anni esposti alle risse poli-
tiche del mondo, al grimaldello degli urti di piazza, la leva
semplice delle insurrezioni. Ho trent'anni e arrivo al luogo
di partenza a mani vuote. Al binario nessun fazzoletto di
ragazza, così sorrido della simmetria.
 
Scendevo dai viali insaccati di nebbia per stare una
domenica affacciato sul molo, sulle vele, sulle prue dei bat-
telli che portano alle isole. Guardavo il risaputo che avevo
dimenticato. Luca, il cugino giovane, quella sera m'invita a
una pizzeria di Fuorigrotta e così la vedo, lei la ragazza da
stropicciarsi gli occhi. E siedo, parlo e bevo insieme come la
più stabilita cosa da gran tempo e quei minuti fanno le veci
degli anni e l'accompagno a casa e non si toglie più la sua
matassa di capelli dalle mani, non si scioglie e invece devo
partire, risalire. Cominciano lettere e treni andirivieni da
Torino, da Napoli, di notte, un vetro di finestrino per cusci-
no, tutta la paga alle biglietterie, ne restava per una sera, un
cinema, un pretesto.
 
È l'autunno del terremoto, lei mi trova un lavoro di
manovale in un cantiere della città scossa e piena di stam-
pelle. Lascio il nord per abitare insieme. Città e ragazza, le
confondevo, dimostravano ch'ero partito a vuoto, vedi,
potevi stare qui, a trent'anni non dovevi cominciare da zero,
dal bianco di calce, dalla pala che rigira l'impasto a colpi del
tuo fiato e l'inverno per strada non stavi a sgocciolare il
muso contro la tramontana.
 
Città, ragazza, fate ch'io sia un estraneo, che il mio
eccomi sia quello di uno sconosciuto, uno dei tanti piovuti
nei paraggi, artisti e muort 'e famme, scappati da qualche
pentola di carcere, da qualche America fallita. Portatemi a
Santa Lucia e dite: questo è il borgo marinaro, quello è
Castel dell'Ovo.
 
La domenica andavamo in cerca di balconi, dove appog-
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giarci di profilo, Cuma, Ravello, Baia, L'Epomeo, dove c'era
da starsene di fianco, darsi le nocche delle dita, appoggiarsi
di tempia. Non che facevamo discorsi, però stavamo e quel-
lo stare era tutta la durata promessa.
 
Gli altri giorni uscivo dalla stanza ch'era ancora buio,
strisciavo via lasciando poche tracce di caffè, la rivedevo a
sera.
 
La città era ingombra di puntelli, il lavoro da farsi era
rimasto a prima dell'avvento delle macchine. Niente beto-
niera, s'impastava a mano per strada la collina di rena,
ghiaia, cemento, scaricata dai camion.
 
Gli operai erano anziani, venivano dai paesi di pianura,
facce contadine. La sera rientravano a terminare a casa qual-
che opera sospesa. Erano forti, di quelli che si spezzano di
colpo per non essersi risparmiati mai. Solidali tra loro, dava-
no poca confidenza all'estraneo. Loro sì mi facevano la gra-
zia di darmi per piovuto da lontano. Non staccavano a ora-
rio, ma quel poco più tardi per non dare a vedere che tene-
vano fretta di finire. A mezzogiorno per non impicciarmi
dei fatti loro, cacciavo un libro e ci masticavo sopra.
Prendevo venticinquemila lire al giorno. Era una buona
vita, magra, ma con città e ragazza.
 
Lei mi chiedeva: cambia, non sei fatto di questo. Non
rispondevo. Nel mestiere sarei durato altri sedici anni. Dai
silenzi ripartiva con un sorriso o con la minaccia di un
finto pugno in testa. Qualche sera rientrava tardi, per
qualche festa, qualche compagnia, un concerto. Saltavamo
un giorno, le lasciavo una lettera in cucina. Era bello scri-
verle da vicino, imbucare la posta sotto il tovagliolo.
 
Avevo una bella giacca, eredità di uno zio morto giova-
ne. Le piaceva, una volta mi chiese di indossarla per una
serata, un invito a una festa. Non andavo, non conoscevo,
non ci sapevo stare. Mi cucinavo un intruglio, leggevo qual-
che storia d'oltremare, poi il sonno mi abbatteva con una
martellata in mezzo agli occhi. Nell'alba seguente ritrovo la
giacca su una sedia in cucina, s'era spogliata lì per non fare
un rumore che non avrei sentito in nessun caso. La sollevo
per ripiegarla e dalla tasca esce un foglio, un conto di risto-
rante, due coperti, a Sorrento, una bella somma, la data
quella della sera prima. Nessuna festa, solo la premura d'im-
bastirmi una balla per non darmi pensiero. Tradito? In quel
punto, in quel momento sì, uno schiaffo in faccia, da met-
terci una mano sopra per non far vedere. Tradito, ma non
era il verbo intero, lei era lì, dormiva dentro le lenzuola
comprate insieme ai piatti, tradire era se non stava lì. Me ne
accorgo, lo so dire adesso, allora no, uscii di casa con due
fogli in tasca, il conto e la lettera tolta dal tovagliolo, dimen-
ticando il libro che mi salvava il viaggio nel vagone tra
Campi Flegrei e piazza Cavour. Imbucai la mia lettera in un
cestino e di quell'altra carta mi è rimasto il ridicolo dettaglio
di un vino bianco, una marca pregiata.
 
Senza il libro del viaggio si affumicavano i pensieri: è
arrivato il conto, è un foglio di via, urgente come un "vatte-
ne", cosa vuoi da città e ragazza, te ne sei andato a smaltire
lontano il tempo migliore, qui nessuno conosci e nessuno ti
può riassumere gli anni mancati. Cosa vieni a fermarti nella
città spalata e ammucchiata, dove basta uno scirocco a stac-
care tegole, cornicioni, intonaci? Non è posto da nozze. La
ragazza ha da sporgersi sopra l'avvenire come sopra un bal-
cone di montagna, tu le puoi offrire un vicolo. Che ti ami
non basta ad arrivare al giorno dopo, e che tu l'ami: grazie,
lei è la festa, la fortuna, il tuo posto, tu sei il dente estratto
da mascella che ritrova il punto di partenza nel cavo del suo
abbraccio. Lei è il tuo posto, ma tu non sei il suo. Pensieri
da cavallo, scosso, senza fantino che gira in tondo nel senso
antiorario della corsa. Mi sfinisco apposta nelle ore di can-
tiere. "Chiano, guagliò, c'amm'arriva' a stasera ancora
vive", piano, ragazzo, che dobbiamo arrivare a stasera anco-
ra vivi, mi dice il manovale anziano, fermandosi un momen-
to.
 
Ma la pala oggi in mano mia si muove da sola, è lei che
regge le braccia e spinge nella schiena. Insiste: "Che hai
magnato ieri sera, polvere da sparo?".
 
E dopo un po': "Vuoi pure 'a pala mia?".
 
Ha ragione, vado al doppio dei suoi colpi di pala, se ne
offende e io non riesco a rispondergli neanche con un fiato
di sorriso. Stacco tardi anch'io, per una volta non ho fretta
di tornare a casa, aspettarla e sedermi di fronte. Buffo sen-
tirsi come un dente, non quello del giudizio.
 
La cucina è spenta, non preparo la cena, non apparec-
chio i piatti, niente vino. Siedo con il foglio del conto aper-
to e aspetto. Lei ritorna, saluta, vede e si mette a sedere.
 
Quanto siamo rimasti zitti, poi che parole mandate allo
sbaraglio nel campo dei centimetri che le nostre mani non
potevano attraversare: ho scordato. Deve avermi detto di
non fare così, ma io non so più di che materia fosse quel
così, se bruciava o era spento.
 
Ora che è vita andata, recito l'atto di dolore: mi pento e
mi dolgo, mi dolgo e mi pento di averle presentato il conto.
La presunzione di avere diritto mi gonfiava la vena della
fronte. Avanzavo il mio rauco reclamo e più sacrosanto era,
più era goffo: le chiedevo conto, e mai si deve tra chi sta in
amore. Non esiste il tradito, il traditore, il giusto e l'empio,
esiste l'amore finché dura e la città finché non crolla. Poi
esistono i bagagli e si ritorna profughi, senza la giustifica
della maledizione di una guerra, senza una malasorte da
spartire con altri. Di quel conto tutto era stato già pagato e
il saldo era che bisognava alzarsi di sedia, di stanza e di città.
 
 
17. Il pollice arlecchino.
 
Per il Natale del '56 regalò a se stesso tutta l'attrezzatu-
ra, tele, tavolozza, tubetti che spremevano il doppio con-
centrato dei colori e un cavalletto di legno, ma grande come
un cavallo. Nel poco spazio di casa stava scomodo tutto spa-
lancato. La pittura era bestia da aria aperta.
 
Era stata una spesa robusta e se ne vergognava, perciò
era burbero: "Non si tocca," disse a noi bambini, aggiun-
gendo un altro articolo all'ordine delle cose proibite. Con
gli anni crescevano di numero come noi di altezza. Poi viene
l'età in cui diminuiscono e smettono gli utensili proibiti. Ad
accostarsi all'albero vietato si è cacciati dal giardino, ma se
proprio non ci si accosta, quella pianta muore e bisogna
lasciare comunque il recinto.
 
A differenza della storia antica, mia sorella non aveva
desiderio di quell'albero cavalletto piantato storto in mezzo
alla stanza dei libri. Ero io che sfioravo la setola dei pennelli,
la fascetta colorata avvolta intorno ai tubetti, il bordo del
telaio, però di più toccavo il legno forte che reggeva in brac-
cio la tela da dipingere. Oggi so che era di faggio, allora era
un pezzo di bosco in piena stanza. Combinò poco, aveva
bisogno di guardare lontano per dipingere, aspettava l'estate.
 
Sull'isola portammo quel carico in più. Contro le prote-
ste di mamma fui coinvolto come complice col rango di
ausiliario. Lui si accollò il cavalletto e le tele, io pennelli e
colori. Così per ricompensa ottenni di assistere, zitto, alle
sedute di pittura. Disegnava a matita sulla tela, poi spreme-
va i colori, li mischiava sulla tavolozza e si metteva a inse-
guire il paesaggio. Faceva un quadro in un paio di giorni,
barche, pini, il castello, scogli, mare, non facce, non perso-
ne, non interni, ma aria illuminata.
 
Alla fine delle ferie la tavolozza era incrostata dei più
bei colori. Dai tubetti era sprizzata luce, chiasso, prepoten-
za. Dove si posava il ricciolo di olio cominciava una zuffa
con gli altri colori intorno che volevano sopraffare l'intru-
so, ricoprirlo. Il bianco aizzava più di tutti: gli altri se lo
volevano mangiare, poi restavano ammalati di lui, sbiadiva-
no. Il nero era il più pericoloso, tutti lo evitavano, come
faceva la gente con il carbonaio che passava coi sacchi per
le scale. Guardavo meno il liscio del pennello sulla tela, di
più scrutavo la rissa dei colori sul mercato della tavolozza
che aveva un buco per il pollice e il suo stava inzuppato nel
sugo dell'arcobaleno.
 
Di ritorno in città mamma non volle il mucchio ingom-
brante delle tele, da noi lo spazio si contava a centimetri.
Lui non si credeva artista e meno che mai pensava di spun-
tarla con lei. Si rassegnò a salvare due o tre tele. In città
abbandonò il cavalletto, per impedimento di veduta.
 
Cominciò a fare acquerelli che ingombravano meno.
Privo di sfondo, di spinta dello sguardo al largo, il sole d'in-
verno era un passaggio di pennello sopra gli ultimi piani.
 
Sfogliava i libri dei pittori e provava a ripetere i loro
quadri su fogli di disegno. Per me fu addio alla tavolozza, al
pollice arlecchino: i colori nuovi erano una terra in una
vaschetta, da rianimare con un poco di acqua. Non c'era il
chiasso di sorgente, strilli di smalti attaccabrighe.
 
Non potevo mettermi alle sue spalle, non c'era niente da
vedere. Era questa e così la città, un ripostiglio stretto dap-
pertutto, un figlio non poteva stare dietro a un padre per
mancanza di spazio. Il gioco largo dell'estate si era rattrap-
pito, l'olio lucente dei colori si era spento nel fango colora-
to delle acquette. Nel naso non mordeva l'acido dell'acqua
ragia. Lui non si scoraggiava, io sì, ero un bambino spesso
prigioniero e resistevo agli sconforti con la prima risorsa
dell'infanzia, la pazienza, una promessa fisica di crescere, di
consistere poi.
 
Una sera che aveva finito di rifare in acquerello la stan-
za di Van Gogh, si sentì forse felice. Mi chiamò a vederla
mettendola a confronto con quella riprodotta sul libro. Era
umida di ultimi tocchi e rispetto al modello era più mossa,
scossa nelle linee. Ma era bella, c'era spazio in quella stan-
za, anche se era stretta si vedeva che c'era posto anche per
un cavalletto, che però non c'era. "C'è," disse, "lui sta
dipingendo la sua stanza dall'interno. Noi non lo vediamo,
ma lui da le spalle alla porta e sta dietro il suo cavalletto."
Capii per la prima volta che in ogni quadro ci si mette vici-
no, pure addosso all'autore, nel suo stesso punto. A leggere
molti libri, vedere molti quadri uno prende così spesso il
posto dell'autore da diventare come uno di loro. Dura poco,
resta però l'impressione di coincidere. Gli chiesi: "Si diven-
ta pittori a forza di guardare?". Fu scontento della doman-
da, mi rispose serio: "No, a forza di fare".
 
Per fargli piacere gli dissi che la sua stanza era venuta
più pulita di quella del libro. Questo gli piacque, mi poggiò
la mano sulla nuca e poi: "Ho dimenticato di dipingere la
polvere".
 
Il suo tono m'incoraggiò a chiedere ancora: "Perché
copi?". Sapevo il perché, non c'era mondo intorno, non un
centimetro di orizzonte, niente era lontano, ma tutto stretto
addosso.
 
 
Non rispose questo. "Non copio, imito, ripeto un dise-
gno, cerco di rifarlo per stare vicino al pittore, per accom-
pagnarlo. Io non so dove ha cominciato lui, magari dalla
finestra, io invece dal letto, ma alla fine lo raggiungo per
forza di imitazione, per ammirazione."
 
E ancora: "Sai cosa vuol dire ammirazione?" aprii la
bocca per dire sì, che io ammiravo lui, ma non mi pareva la
stessa cosa che lui provava per i pittori. "Ecco, tu segui
un'altra persona non per essere uguale a lei, ma perché
provi affetto per le sue mosse, le sue pantofole, per la paglia
della sua sedia..." si confuse, non proseguì. Non capivo. Per
me fare come un altro era copiare e a scuola si veniva rim-
proverati. Fare come un altro: non potevo, era una recita e
non ho saputo agire così.
 
I suoi acquerelli si asciugavano sugli spalti della libreria,
non li guardavo più. Li ho ritrovati in un vecchio album da
disegno dopo la sua morte. Sono quindici riproduzioni da
pittori impressionisti. Li ho incorniciati e ora stanno insie-
me sopra un mio muro.
 
Formano un balcone di colori, ultimo frutto della sua
vista intera e affacciata. Sono le prove dimostrate della sua
forza di ammirazione, prima che si appannasse l'acqua degli
occhi e gli restassero le pupille secche, da acquerello, sul
lontano. Per ammirare così, serve amore e chi non lo sa fare,
come me, ne manca.
 
18. Il pilastro di Rozes.
 
In geometria non esistono solidi con una faccia sola, in
montagna si. Il pilastro di Rozes è addossato alla vasta
muraglia della Tofana e offre un solo lato, a sud, dritto e a
piombo.
 
Nell'estate del '44 due giovani pensarono di aprirci una
linea di scalata in pieno centro. Altri loro coetanei moriva-
no di guerra mondiale e di guerra civile, la vita dei ragazzi
allora valeva poco. Pensarono di dare valore alla loro sca-
lando quell'acuto triangolo gigante. Compirono un capola-
voro di alpinismo, salirono senza scansare tetti, strapiombi,
filarono dritti fino in cima per oltre cinquecento metri. Era
luglio, giornate lunghe di luce. Piantarono chiodi dove la
scalfittura del calcare offriva un invito al ferrodolce battu-
to dal martello. L'insieme di quei colpi punteggia una sca-
lata che porta il loro nome: Costantini-Apollonio. Se dalla
cima cade un sasso, non sia mai, arriva a terra senza batte-
re sulla parete.
 
Avevo già provato a salirla, però a metà il giorno s'era
abbuiato di nuvole, il vento s'era attaccato alle corde come
un campanaro, i tuoni ringhiavano su qualche cima intorno
avvisando di sbrigarsi. Non si faceva in tempo a uscire in
cima, bisognava ritirarsi e presto. La rinuncia in montagna
è un atto di umiltà, perciò difficile. La minima cordata di
due, pure se è d'accordo, ha sempre uno che incassa meno
bene la ritirata, che avrebbe voluto rischiare un po' di più.
E triste calarsi con la corda e scendere giù dai tetti che si
erano saliti poco prima, obbedendo allo stile di issarsi solo
sfruttando roccia e appigli, non chiodi.
 
Ti distrai coi fulmini. Mettono radici in aria alla cieca,
per attrazione della terra, picchiano sulle pareti in cerca del-
l'anima di ferro delle montagne. Qualcosa, una piccola sca-
rica li chiama e corrono pazzi di luce sui bersagli. Chi porta
in scalata l'acciaio dei moschettoni è una lucciola da fulmi-
ni. A volte è bastata la spinta dell'aria sbattuta da una scari-
ca vicina a staccare dalla parete una cordata. Sarà per un
altro anno, ti dici, mentre il pilastro diventa un biscotto
inzuppato, e d'asciutto ti resta solo quel pensiero di tornar-
ci. Poi si arriva al rifugio e si mastica in silenzio tra famiglie
in vacanza che scrosciano di chiacchiere più del temporale.
 
E così ci sono tornato, un'alba di tre anni dopo, con una
ragazza svelta e spiccia. È scontenta che io non porto il
casco. Il suo se lo calca bene in testa, uno zuccotto rosso che
mi darà allegria, vedendolo salire. "Se ti rompi quella testa
vuota, ti mollo lì," mi dice prima di partire, mentre mi sto
legando in vita il nodo chiamato dai marinai gassa d'aman-
te. Le rispondo: "So che potresti piantare uno sposo sul gra-
dino dell'altare, ma uno scemo di compagno di cordata con
un buco in testa, quello no". "Non ci contare, "dice," passo
e chiudo."
 
È un'alba calda, il cielo aperto, ma dal fondo di valle
sale la condensa. Scalo i quaranta metri della fessura d'at-
tacco, sono un po' lento, arrivo alla sosta, mi guardo intor-
no e non vedo niente, sto dentro una nuvola. Il pilastro è
imbottito d'aria fradicia. Sotto i piedi qualche squarcio di
luce sulle ghiaie: sarà così per l'intera scalata.
 
Tiro tre strappi di corda per avvisarla di attaccare l'ar-
rampicata. In montagna cerco di non fare rumore, di non
dare voce al compagno di cordata. Desidero passare in
punta di piedi e di dita, zitto, perché sono sulla parete un
corpo estraneo alla materia. Per me è una creatura gigante-
sca e io una sua pulce che viaggia di nascosto. Non pianto
chiodi, non per rispetto dell'ambiente, ma perché non
voglio che s'accorga di me. Uso quelli che sono già in pare-
te. Non l'addomesticherò mai, mai potrò azzardare un'inti-
mità. La risalgo solo per la sua bellezza. La ragazza viene su
agile, dalla fessura spunta il papavero rosso del suo casco.
 
Riparto, vado svelto sui punti che ricordo, la nuvola da
peso al mio fiato, protegge il mio silenzio. Dal fondo di valle
non sale un rumore.
 
A ogni sosta scambiamo veloci il materiale, non parlia-
mo, riparto appena è pronta a darmi corda. A pochi metri
già non mi vede più, affida ai polpastrelli l'intelligenza per
la misura giusta della sicura. Senza accorgermi del tratto
percorso, sbuco sulla terrazza della prima cengia. Sulla testa
un ingombro di tetti sbarra il seguito. Ci guardiamo in fac-
cia, da ora in poi si va in strapiombo, ci sarà da sbuffare. Mi
muovo, mi struscio aderendo alla roccia, stringo una scaglia
gialla che mi conduce sotto il primo tetto. Sporge di un paio
di metri, passo corda nei moschettoni, mi raccolgo sotto, da
un appiglio mi allungo, afferro il bordo, un taglio che lo
spacca, pianto il tallone a fianco della mano, sono sopra, mi
fermo.
 
Tocca a lei. Non ama gli strapiombi, la sento che bor-
botta perché non riesce a liberare un moschettone, poi sof-
fia forte, vedo la sua mano che sporge da sotto in cerca della
presa sopra il tetto, dieci a destra le dico, lo agguanta, ci
accoppia l'altra mano, tiene forte e si tira, ecco il rosso che
s'affaccia sul tetto, un piede scalcia, poi trova appoggio e in
un attimo è accanto a me, senza essersi appesa alla corda
neanche un poco. Mi vergogno di dirle brava, perché è
come dire che anch'io sono stato bravo e invece siamo solo
giusti per quassopra, solo giusti giusti. "Mi potresti pure
dire brava," protesta, io sto zitto, faccio la mossa di guarda-
re in alto, al prossimo tetto che ci aspetta. Siamo venuti per
questo, ci mettiamo impegno e lo passiamo.
 
Siamo a metà parete, sotto lo strapiombo che chiamano
schiena di mulo. La nuvola è fitta, non sappiamo che tempo
sta facendo fuori di lei. Ci guardiamo: usciamo. In gergo
vuol dire: in vetta, si va dritti, si prosegue la scalata. Ci affi-
diamo alla tenuta della nostra nuvola che non si disfi in
pioggia e bagni roccia e corda.
 
Siamo due: in parete è molto più del doppio di uno.
Attacco le vertebre basse della schiena di mulo, sbuffo su
prese viscide, metto corda in tutto quello che offre la via,
anche un cuneo di legno che è lì da cinquant'anni. Supero
la difficoltà, lei segue, in crescita di agilità. Fuori dalla sezio-
ne dei tetti ha più sicurezza. Mi raggiunge. Siamo in un
camino spaccato che non mostra fine, dritto e stretto. Mi
tiro su scansando la sua testa, il nostro due si distacca di
nuovo a dipanare una bava di corda tra noi: siamo un'unica
bestia che s'infila, si ritrae, s'attoreiglia intorno a un anco-
raggio e poi si sfila verso l'alto. In cima al camino lei perde
un appoggio, scivola di piede, s'aggrappa con uno strappo
di nervi, le scappa di dire: "tieni," certo che tengo stretto,
ma non serve, neanche stavolta s'appende alla corda, recu-
pera invece da sola.
 
Andiamo dritti sopra, dove la parete s'inclina e la linea
di salita è meno evidente. La nuvola insacca il pilastro,
andiamo un po' a tentoni, trovo qualche traccia, consumo
tutto il tratto di corda che ci separa, cinquanta metri, mi
accorgo che non me ne può più allungare, mi fermo a uno
spuntone. Il sacco della nuvola perde una pioggerella che
stuzzica gli occhi, vedo il suo punto rosso che arriva lucci-
cante risalendo dal fondo grigio di vapore e pietra. Ci guar-
diamo le facce gocciolose. Siamo quasi fuori, anche se non
si vede la cima. Siamo due, il contrario di uno e della sua
solitudine sufficiente.
 
La corda s'ammucchia sopra i piedi, lei si avvicina e io le
guardo il nodo stretto in vita. Non per controllare se è a
posto, ma per affetto verso un'alleanza di corda. "Che stai
guardando?" dice la sua voce. "Guardavo il tuo nodo." Se
lo controlla: "È a posto, no? Si può sapere a che pensi?".
"Al numero due," rispondo.
 
"Be', quando arrivi al tre fammi un fischio," dice per
dire qualcosa.
 
"Per oggi faccio con il due," dico accettando la battuta e
rimettendomi a scalare il bordo del pilastro. Ci finisco sopra
dopo un ultimo salto di rocce, mi guardo intorno e non c'è
altro, niente più parete, oplà. Dei segni di passaggio indicano
la discesa. Arriva anche lei, siamo usciti davvero in cima, non
ce n'è più, si siede, tiriamo fuori il pane, del formaggio, un
coltello, il tempo d'inghiottire, poi la nuvola, stufa di noi, si
sbriciola in grandine. Lo scroscio pizzica il mio cranio sguar-
nito di casco e questo è il castigo per burla della mia man-
canza. Riawolgiamo le corde, come due camerieri che spa-
recchiano, ci caviamo le scarpe d'arrampicata e infiliamo le
ciabatte del ritorno. Scherziamo per la grandine sparsa a
manciate come riso fuori d'una chiesa di nozze, scendiamo
senza voltarci indietro, estranei dopo avere sfiorato per le giu-
ste ore la pietra, la bocca sempre a un fiato dal baciarla.
 
Tutti i nostri passi hanno seguito un desiderio. Per esau-
dirlo abbiamo dovuto metterci i piedi sopra e calpestarlo.
 
 
19. La fabbrica dei voli.
 
"Costruiamo case agli altri, ma la nostra è ancora incer-
ta", traduco in italiano questa frase di muratori del sud,
intesa sui cantieri. Nella sua lingua è: "Fravecammo 'a casa
all'ate, sulo 'a nosta sta 'n prugetto". Per quasi venti anni di
mestieri operai molte volte ho appeso panni negli spogliatoi
insieme a gente di ogni età e geografìa. La gran parte era di
sud e da loro ho ascoltato quella frase, pronunciata con
caparbietà di malinconia.
 
Mi tornava in mente nel tempo in cui ero operaio di
rampa all'aeroporto militare di Sigonella, in mezzo agli agru-
meti della piana di Catania. Ero stato assunto da una ditta che
si occupava di tutti i servizi a terra di quella grande base aerea,
la più importante del Mediterraneo intorno alla metà degli
anni ottanta. Si lavorava sull'intero giro del giorno, nove ore
per turno, spesso due turni di fila. Stavo in un gruppo di ope-
rai di Napoli piazzati, spiazzati, dentro un alloggio di perife-
ria. Si stava tre per stanza, ognuno la sua branda, il suo turno
diverso. Ho imparato lì la premura di aiutarsi tra uomini.
 
Ci aiutavamo: chi aveva una pausa dal lavoro faceva la
spesa per gli altri, cucinava, teneva pulito l'alloggio.
Rientrando dal turno si faceva piano per non disturbare il
sonno di chi riposava. Soffrivano di fitta nostalgia quei
napoletani trasferiti in un sobborgo di Catania, operai sulla
rampa degli aerei. Era un maldidenti della loro anima, indo-
lenziva le facce, i sorrisi. Ero fortunato, senza mogli e figli
da nessuna parte non avevo un luogo verso cui voltarmi,
vivevo senza il loro torcicollo. Le nostalgie sono malarie che
hanno bisogno dell'umido degli occhi. I miei erano asciutti
come l'esca di tòtano. Quelli che hanno qualcuno da un'al-
tra parte hanno inventato i ponti. È una costruzione che
non mi sarebbe venuta in mente.
 
È male vedere uomini che a sera si passano una mano
sulla faccia per asciugarsi un rosso di palpebre. E bene che
gli uomini abbiano sentimenti da lacrime.
 
Sulla rampa stavamo a servizio di ogni specie di aerei da
carico e da passeggeri. I DC 8 portavano soldati in parten-
za o in ritorno da licenze, che avevano sacchi militari dan-
natamente pesanti. Li caricavamo e li scaricavamo a mano.
Siccome ero agile entravo io nella bassa stiva dei bagagli.
C'erano i grandi aerei da carico: i C 130 Hercules, i C 141
grandi il doppio, e poi il più potente di tutti, il C 5 Galaxy
che era una nave in cielo e aveva bisogno di una pista spe-
ciale. Quando arrivava era sempre senza avviso, fuori della
scheda di lavoro del giorno. Si sentiva da lontano in cielo un
rumore metallico di motori marini, sulla rampa sembrava di
stare vicino alla sala macchine di un bastimento. Aveva una
voce diversa da tutti gli altri aerei. Per noi quei chiassi mec-
canici erano voci e li conoscevamo coi nomi storpiati nel pas-
saggio dall'inglese al napoletano: 'o siuantùri era il C 130,
C one thirty nella sua lingua.
 
Svuotavamo e riempivamo a forza di spinta: i carichi erano
organizzati su "pallets" di acciaio, piatte slitte che scivolano
sui binari del vano di carico. Noi spingevamo, eravamo mac-
chine di spinta. Fuori la pianura era una graticola di asfalto a
perdita di vista, d'estate fumava di aria abbrustolita.
 
 
Ci ho passato due estati, una delle quali molto infervo-
rata da avvenimenti. La Libia doveva avere molto irritato gli
Stati Uniti e la Nato e perciò nel Mediterraneo del sud si era
concentrata una buona flotta con due portaerei. Queste
venivano a rifornirsi di tutto a Sigonella facendo la spola
con gli elicotteri giganti, neri, i Chinook. Arrivavano a
ondate. Caricare e scaricare al volo un Chinook è un'espe-
rienza simile a un pezzo di frutta dentro un frullatore. A
motori accesi si entrava nella stiva di carica che vibrava e
sussultava scatarrando un chiasso maledetto. Sui due lati i
jet dell'elicottero sparavano un vento bollente che se non ti
abbassavi ti buttava a terra, non ancora cotto, ma non più
del tutto crudo. La consegna era la più frenetica velocità.
Partivano a volte anche senza aver completato il carico, ti
buttavano fuori e via col prossimo. Quando era finito ci si
ritrovava fradici di sudore nelle tute e l'aria calda della
rampa d'estate per cinque minuti ci sembrava fresca.
 
Fu una stagione di lavoro imbizzarrito da quel supple-
mento di traffico. Noi operai eravamo spiritati, grilli che sal-
tavano da una carcassa all'altra di quelle macchine assortite
che ci piombavano addosso dal cielo. Eravamo più di cento,
la gran parte catanesi. Con alcuni di loro si stabilì un'amici-
zia, di quelle che succedono in momenti di emergenza. Sono
rapporti forti, leali, ma fondati sullo stato di eccezione.
Sono unici, non sopravvivono. Lasciano ricordo come un
buco nel muro, una cicatrice.
 
Nei momenti di pausa vedevo le nuvole a tazza, nitide e
viola, intorno all'Etna. I vulcani s'intendono con le nuvole,
come un pastore con le pecore. Le chiamano, le radunano,
spremono il loro latte sulle rughe del fuoco. Così un uomo
di Napoli, un operaio magro senza grasso di nostalgie, guar-
dava il vulcano in fondo alla pianura e pensava alle rotte
segrete delle fiamme che univano il Vesuvio d'infanzia con
l'Etna delle cento tute di operai. Un tracciato di forni sot-
terranei imparentava le più colossali bocche da fuoco del
sud, passando per le Eolie. Prima di risalire a un unico Dio
che azzerava in un colpo numi e divinità, dev'essere stato
bello rivolgersi alla spalla di un vulcano per chiedere un
aiuto, anche solo una proroga.
 
E quando tracimava di fuoco e inceneriva l'aria, doveva
essere giusto offrirgli il sentimento del terrore, per devozio-
ne, non per spirito di conservazione. Dalle mie parti aveva-
no fatto fortuna con le eruzioni. Ercolano, Pompei s'erano
addobbati a musei di storia fulminata. L'Etna da Sigonella
nei turni di notte chiamava a voltarsi. Il basso del cielo sul
vulcano era scottato a sangue, come i nostri occhi.
 
"Fravecammo 'a casa all'ate, sulo 'a nosta sta 'n prugetto",
mi tornava in mente a Sigonella il proverbio amaro dei mura-
tori. Eravamo al servizio dei voli, ma noi non volavamo mai.
Quei napoletani restavano inchiodati a terra a veder partire
motori verso tutte le destinazioni, anche per Capodichino,
aeroporto della loro città. Quante volte li ho sentiti dire per
scherzo e per affanno: "Mi nascondo in mezzo al carico e tra
un'ora arrivo a casa". E per cinque secondi gli passava davan-
ti agli occhi vuoti la faccia di sorpresa dei suoi se l'avessero
visto spuntare all'improvviso. E quando uno di loro mi chie-
deva: "Tu no?" rispondevo di no ma solo con la testa, che a
dirlo quel no era troppo duro per loro da sentire.
 
Infine fummo tutti trasferiti, noi napoletani, e Catania
finì.
 
Prendemmo un aereo, ci salimmo sopra senza tuta. Per
loro fu come uscire da una detenzione, per me solo cambia-
re branda. Avrei fatto l'operaio di cantiere a Milano, cam-
biavo di rumore. La fabbrica dei voli era finita.
 
 
20. La congiunzione e.
 
All'entrata del bosco spezzo i fili dei ragni che avvolgo-
no i confini. Sono i sigilli stesi di notte, denunciano l'intru-
so. Salgo tra i primi abeti ancorati a pilastro e fondamenta,
carico il piede dove non fa rumore. Per essere accolti in un
bosco bisogna bisbigliare passi. Finché vado sono uno
lasciato passare. Se mi fermo e mi siedo con le spalle a un
tronco, vedo famiglie di alberi in movimento. Quando mi
fermo è il bosco che si muove.
 
"Ancora."
 
Non tutti i fusti spiccano verticali seguendo la linea più
dritta per salire a luce. Alcuni pendono di un angolo verso
valle, mettono cima obliqua. Fanno maggiore sforzo di
radice. Azzardano altre linee, offrono appoggio al fulmine,
che ha bisogno di invito. Gli alberi maestri hanno rami
verdi pure al suolo, gli alberi secondi li hanno verdi solo
in alto. È una gerarchia. Nel bosco non intendi la regola, i
tronchi stanno sparsi alla rinfusa, ma niente sorge senza il
loro permesso.
 
"Ancora."
 
Chi veniva con il mulo e l'ascia, sapeva togliere al bosco.
Chi viene con il camion e con la motosega, lascia spoglio.
 
 
Non si vede ma il legno trema quando s'avvicina il ferro.
Non ha una difesa. Contro il fulmine il bosco sacrifica un
albero a bersaglio. Poi sul piede bruciato s'impianta il fungo
della rimembranza, rosso di malincuore.
 
"Ancora."
 
Ogni spicchio di luce che arriva fino a terra è contato,
cade come da impianto a goccia. Il fitto dei rami apre una
via al raggio che raggiunge la tua mano adesso. Gli abeti
hanno spostato in alto la griglia dell'ombra. Per calarti sulle
ciglia il largo di luce di una foglia. Nel bosco l'assemblea
degli alberi decide ogni cosa. Ti hanno accolto, ora sei tra di
loro benvenuta.
 
Queste parole sbucavano da me per compagnia, faceva-
no sorridere il tuo fiato fermato a riposarsi. Lasciavi per un
po' correre gli altri dietro ai funghi. "Non vanno a raccolta,
ma a una battuta di caccia al porcino."
 
Ci eravamo dispersi, anzi tu eri dispersa e io da lontano
seguivo il tuo spariglio dalla comitiva. Non ho il gusto di
staccare funghi dal terreno, quella volta venivo per guardar-
ti. Così le voci sbiadivano in alto e di lato e t'eri appoggiata
di schiena a un sasso imbottito dei corti aghi del larice.
Arrivai alle tue spalle senza rumore, il mio piede in monta-
gna lo sa fare, lo cerca, per essere preciso e di passaggio.
Avevi occhi anche sulla nuca, le donne possiedono la vista
su uno che le segue. Gli uomini invece hanno il senso orien-
tato solo sull'innanzi. Eri seduta con la faccia a monte, venni
a sedermi dirimpetto. Come la più solita cosa noi stavamo
nel bosco in perfetto disparte e mai era successo prima e
mai fu ripetuto. Era il più stabilito appuntamento, che non
ha alcun bisogno di essere fissato, calmo come alla consue-
ta ora. Parlai del bosco. E tu chiedevi ancora e stavi a senti-
re le parole zingare che leggevano al bosco il suo disegno.
"Come conosci?"
 
Ci ho dormito dentro. Ci ho acceso un fuoco in un cer-
chio di pietre, ho bruciato pigne e rami spezzati. E venu-
ta la neve, al mattino mi sono pulito con quella mani e
occhi.
 
Arrivato al punto di racconto quando la luce fu aper-
ta dal bosco e lasciata spalancata sulla tua mano e sopra
le ciglia mi hai guardato dritta, più in fronte che negli
occhi. "Hai nella voce un ardore compresso, di uno che
viene da un freddo." E sull'attaccatura dei miei capelli
dove scendeva un angolo di luce anche per me, puntasti
un'apertura di sorriso da far chiudere gli occhi. Così ti
sei alzata, il tuo fiato governato, il mio spezzato e sei
salita con il cesto al braccio ancora vuoto. Sono rimasto
un poco. L'angolo di luce al tuo posto si ricopriva d'om-
bra.
 
Era l'agosto di quanti anni fa, eri moglie, madre di figli
piccoli. Quella sera un'occasione di cantare, la tavolata di
persone estive riunite da una festa e poi due macchine par-
tono e si va a proseguire in pochi la musica sopra uno stru-
mento a corda in una capanna sul bordo di un bosco. Vedi,
è in legno di abete, lo riportiamo a casa, dissi della chitarra.
E prima di arrivare alla stanza dei tronchi, nella macchina
noi stretti vicini, tu sotto una coperta mi hai cercato la mano
e l'hai tenuta. Ho stretto gli occhi per strozzare il tempo. Gli
occhi ci riescono. Uno si volta verso di noi e dice che il suo-
natore si è addormentato.
 
Ho amato e conosciuto i corpi accalorati e presi nel-
l'avvinghio, ma quella mossa tua è una bandierina pianta-
ta in mezzo al vento di una cima, dove non si può più sali-
re in alto verso un'intimità maggiore, dove quella rag-
giunta è inabitabile. Da li bisogna scendere. Così so dire
adesso. Allora la tua mano è stata la congiunzione e, la
particella che sta tra due nomi e li accoppia più di abbrac-
ci e baci. La tua mano minuta serrata nella mia inutilmen-
te larga, serrata a serratura chiudeva noi due dentro e tutti
gli altri fuori.
 
All'arrivo non volevo lasciarla, non io per primo,
dovevi farlo tu. L'hai ritirata tiepida di carezza, l'hai
rimessa al suo posto in cima al polso, al corpo separato.
Venimmo ai canti nella capanna, cercavo la tua voce nel
gonfio del coro per raggiungerla con una terza nota, un
controcanto che di due gole ne faceva una e la chitarra era
un organo di abete tra gli abeti. S'inoltrò la notte, finì la
prolunga cantata della sera. E risalimmo in macchina, noi
due non vicini, era normale. Noi due non vicini e niente
altro da aggiungere al giorno del bosco e della mano
offerta in congiunzione.
 
Ce ne ho messo a ripetere che era tutto, che per poco
che era stato reggeva la pienezza dell'intero. Non capisco in
tempo, ho bisogno di andare e ripassare sopra l'evidenza
per ammetterla e per dimenticarla.
 
Da poco ho rivisto la stanza dei tronchi, tornando da
una corsa in montagna dove metto per amore di salita un
ritmo di fanfara nei talloni. Sono passato di ritorno a valle,
sbandato di stanchezza. Sono entrato. Eravamo lì, sulla
panca, noi due vent'anni almeno in meno e non c'erano gli
altri e nemmeno la chitarra. C'era la coperta con le nostre
mani nascoste sotto a fare congiunzione.
 
 
Meidl, o meidl ich 'Il bai dir fregen
vos ken wachsen, wachsen on regen
vos ken brenen un nit oifheren
vos ken beinken, veinen on treren?
 
Narisher boker vos darfst dufregen
a shtein ken wachsen wachsen on regen,
liebe ken brenen un nit oifheren
ein hartz ken beinken, veinen on treren.
 
Ehi tu ragazza dimmi se sai
cosa può nascere anche senz'acqua,
cosa può ardere senza estinzione,
e soffre e piange senza le lacrime.
 
Sciocco ragazzo, cosa mi chiedi?
 
Senz'acqua crescere potrà una pietra,
senza estinzione brucia l'amore
e senza lacrime soffre e piange un cuore.
 
(Canzone popolare yiddish).
 
 
21. Vino.
 
Astemio fino a diciannove anni e molti giorni, non mi
piaceva bere neanche le bibite con la schiuma frenata sotto
il tappo. Trovavo gusto nelle acque, le riconoscevo: la pio-
vana, di fontanella pubblica, di rubinetto, di pozzo, di neve
e poi quella di maggio, un'acqua a parte che faceva bene agli
occhi e odorava di fulmini. Quella benedetta non l'ho bevu-
ta, ho resistito alla tentazione.
 
Una volta c'erano gli acquedotti che riempivano le broc-
che delle tavole, si versava da bere dal tubo di cucina. Ero
astemio, un buongustaio di acque. Nient'affatto mite, m'ero
inselvatichito lasciando all'improvviso da ragazzo la casa di
origine, mangiando in un'altra città i pasti di una mensa che
inacidiva le viscere. A lasciare la tavola dove si è cresciuti
per tutti i centimetri e i pasti comandati, uno si procura un
vuoto allo stomaco, un angolo acuto che non può essere
raggiunto.
 
Anche alla mensa niente vino, partecipavo di altre fer-
mentazioni. Intorno scalpitavano le rivolte di strada e m'in-
ghiottivano. Insieme a molti spuntati tutti insieme ero pres-
sato a uva nell'annata indecente e decisiva millenovecento-
sessantanove. Braccianti fucilati dalla polizia nel meridione,
le bombe nelle banche a settentrione, gli anarchici incolpa-
ti a torto e apposta: era l'anno dell'ira, ira pura. Per molti
diventava svolta di non ritorno indietro da parole spietate,
di risposta. Dirle costrinse a obbedirle. Da astemio posso
dire a freddo che non fu una sbronza, ma l'avvento a secco
dell'odio.
 
Nel disordine nuovo c'era un posto per ognuno. Per
tutti, anche per me, s'era aggiunto pure lo sbaraglio degli
amori nuovi, che non escludevano nessuno, né i poveri né i
brutti. Le ragazze, le donne s'innamoravano per impulso di
generosità, spargevano felicità tra quelli ai quali non tocca-
va mai. È successo allora e poi non più. Era l'amore degli
insorti, un dono della febbre politica, senza la quale non
poteva sorgere. Abbracci e arresti, lacrimogeni e baci e poi
le notti sul colle del Gianicolo andare per cantare in coro e
farsi sentire dai nostri rinchiusi dentro Regina Coeli. Erano
le nuove serenate, le voci delle ragazze spaccavano il buio.
 
All'osteria i compagni bevevano il vino pallido e solfora-
to dei Castelli, debole di gradi, facile all'aceto. Sulla tovaglia
di carta schizzata di unto scrivevo un biglietto d'amore e lo
recapitavo alla ragazza, alla sua scuola, il giorno dopo. Non
servivano postini ai nuovi amanti inferociti.
 
Vedevo bere vino, una sostanza che intorbidiva gli occhi
degli anziani e finiva in singhiozzi. Ai giovani dava voglia di
rissa, un poco di coraggio, ma toglieva sveltezza e precisio-
ne. Dopo il primo pugno in faccia metteva vergogna, perché
il vino, e non io, aveva ricacciato l'insulto e l'insolente.
Essere astemio era un vantaggio sleale.
 
Un'altra volta mi sono vergognato di un muso insangui-
nato, ma era sobrio anche lui. Stava in un gruppo di operai
che di notte volevano sfondare la barriera dove altri operai
stavano a veglia per tenere chiusa in sciopero a oltranza la
fabbrica contro i licenziamenti. Li sorprendemmo tra i viali
di notte nella nebbia e fu primo sangue, non peggio di così,
ma sangue amaro, duro da ammettere anche quando ti dai
ragione. La nocca sbucciata sulla faccia colpita, pronta a
raddoppiare, e invece un dolore ti piglia e ti disarma l'ira.
Senza arrivare al capolinea di soffrire pietà, ti fermi alla ver-
gogna e smetti lì.
 
Era astemio l'amore, una pizza addentata tra le dita alla
tavolata dove noi due stavamo accalcati e soli con più forza
ancora, che il chiasso dei compagni ci proteggeva l'intimità,
ce l'infittiva. È successa la stessa cosa con più miracolo in
qualche aula dei processi politici dentro il gabbione dei rin-
chiusi in massa. Si mettevano in piedi, ben serrati e tra le
loro scarpe una coppia di loro si sdraiava per darsi l'amore.
Tutt'intorno stava il cerchio dei carabinieri, poi veniva il
poligono di sbarre e nell'ultimo anello i corpi dei compagni
a fare siepe all'amore accanito e benedetto che si accoppia-
va nel posto più nemico, sgusciando tra le maglie di catene.
Quello era miracolo, un colpo di santità dato alla vita. E
sono pure nate le creature, così. Succede di vedere festeg-
giato un piccolo di panda nato in cattività, si fa finta di nien-
te coi cuccioli nostri partoriti in prigionia.
 
Per noi due stretti di fianco la ressa dei compagni, la con-
fusione dell'osteria gremita era uguale a una nicchia di bosco,
in cui stare invisibili, appartati. Ci parlavamo a due centime-
tri tra bocca e faccia, ogni parola era un mezzo bacio, arriva-
va all'altro con il gusto d'insalata, di minestra. Se ci scappa-
va un bacio era per concludere un discorso. Un'allegria seris-
sima sviluppava l'amore. Era leale, senza sforzo di fare bella
figura, senza scuse né grazie e altre partite doppie. E se fini-
va te lo sbatteva in faccia che finiva, che uno dei due passava
via e niente questionari, come mai, perché, com'è successo,
ma tu m'avevi detto, scritto, fatto: niente, perché il mondo
scoppiava di rivolte da seguire e tu con le tue coronarie costi-
pate eri da schiaffi prima che da ridere. Giusto, ma intanto
non mi era capitato ancora e non lo sapevo com'era il guasto
della sua mancanza. La ragazza passava via da me e uno schi-
fo di dolore mi pigliava, ero rincitnillito a indolenzirmi tanto,
a lacrimare dietro i pugni stretti. Uno che sceglie di stare con
la moltitudine, può mai farsi azzoppare dalla perdita di inti-
mità con una persona sola? Non gli basta fare coppia con i
molti? La sorpresa di non sedermi accanto, di sedermi e
basta, di parlare agli altri e non guardarla mentre mi ascolta-
va, la sorpresa di parlare e basta, e tutto il resto del dafarsi
senza una sua parola, il dafarsi e basta, mi faceva sbandare, la
sorpresa. La solitudine che fa i peggiori agguati nella gioven-
tù, l'avevo contrastata con lei o con la comunità dei molti
arrabbiati di giustizia? Allora non lo sapevo e oggi non lo so
più, ma ci dev'essere stata un'ora mia per conoscere di cosa
era fatto il rovescio delle solitudini, il contrario di uno.
 
Intanto ero furioso con me che m'ammalavo di malinco-
nia a stare senza il suo fianco. Diventavo attaccabrighe, in
mezzo a un'assemblea, se quello in piedi sulla cattedra a
parlare non mi andava a genio, lo prendevo per le scarpe e
lo tiravo giù. Succedeva la zuffa e c'era chi mi dava ragione.
L'ira politica s'appestava di scatti scalmanati, di ulcere
infiammate. Era morto il sonno, di notte al ciclostile, all'al-
ba ai volantini, a mezzogiorno ai cantieri a prendere accor-
di con gli operai sul dafarsi, poi riunioni, poi, poi, senza
potermi togliere lo stesso la pagliuzza dagli occhi.
 
Allora una sera di dicembre dell'anno d'impazienza mil-
lenovecentosessantanove andai a Napoli a rimettermi nel
cerchio delle facce. Ero già un intruso. Guardavo sforzato il
posto da cui mi ero staccato. La messa a fuoco regolata sul
vicinissimo della faccia amata e sul largo di una folla in cor-
teo, non si fissava nelle stanze lasciate, tra le usanze. Il man-
giare della casa era buono, buono di anima, conteneva la
cura, i piatti non facevano rumore, accompagnati e non
sbattuti davanti. Ci trovavo un'aria di ospedale: un anno da
loro lontano ed ero rivoltato fino allo stordimento, ma
dov'ero stato, da che guerra punica tornavo così rimbambi-
to? Ammaccato negli occhi davo colpa all'amore che non
allentava la presa neanche negli urti di piazza. Anzi proprio
in quelli volevo dimostrare ch'era tutto finito, che non
m'importava di lei e invece dimostravo ch'era della mia vita
che non m'importava.
 
Così una sera di Napoli e di dicembre e con l'aggravan-
te dell'anno, nello scantinato di Danny mio cugino si festeg-
giava qualche fatto loro e mi sedetti comodo sempre con
quella fitta di mancanza al fianco e mi presentarono una
bella sottana di paglia intorno a un vetro, di cognome
Chianti, la presi per il collo e mi versai dalla sua bocca il
primo bicchiere di vino della vita. L'assaggiai, aspro, io
digiuno e traditore d'acqua: il guasto in bocca affiorò sulla
faccia con una smorfia tesa agli zigomi. La trattenni, era
maschera che mi serviva, briglia e morso.
 
Un principio di mitezza mi staccò la pena dal fianco,
durò poco più di niente. Bevvi il secondo sorso, una pasta
di sputo tra la bocca e il naso, poteva diventare uno starnu-
to invece spuntò agli occhi: e no, lacrime no, presto un altro
sorso le ricacciò in gola. Mischiate al vino l'addolcirono,
così vuotai il bicchiere. Danny, lo scantinato, i suoi amici
cantavano appoggiati a una chitarra, io oscillavo a tempo
stringendo nella mano la sottana di paglia.
 
Danny mi aveva insegnato le mosse giuste delle dita per
la prima canzone alla chitarra, la prima e non le altre, che
sarebbero venute da sole sotto la pizzicata delle corde. Lui
dava avvio, poi il seguito era mio. Mi appoggiai al suo vino
e sbandai forte. Ogni sorso era un colpo di scure ai piedi,
sotto il tavolo un taglialegna mi stava abbattendo. Quando
volli alzarmi crollai a rami aperti, a terra. Mi fecero la grazia
di non badare a me, era una sera di loro amori in corso. A
contatto del suolo il mio furore se ne andò in pausa. Buffo
sentire intorno un canto di ragazzi innamorati che si ama-
vano così, dentro una sera, in coro. Piantato sul pavimento
non mi feci trasportare via. Mi lasciarono sotto una coper-
ta. Non ero astemio, più.
 
Nel periodo seguente ho provato a fare col mio corpo il
miracolo delle nozze di Cana. Pieno d'acqua volevo trasfor-
marlo in pieno di vino. Non con un colpo solo, ma con
regolare sostituzione dei liquidi, bevendone tanto quant'ac-
qua pesavo. Mi riuscì in parte, solo con il cranio. Alla fine
dell'esperimento l'avevo affogato. Insieme a lui in fondo
allo stesso stagno di vino c'era il corpo dell'amore perduto,
una ragazza coi capelli sciolti stava immobile senza dare più
unghiate ai miei tendini, ai nervi.
 
C'è voluta più tardi l'epatite virale per riportarmi all'ac-
qua e alle papille vergini. Fu un anno d'intervallo e poi
dacapo. Da allora il vino è solo compagnia, per pareggiare
la giornata con un bicchiere alzato al livello degli occhi. Per
uno che beve di sera i sorsi sono baci a tutte le donne assen-
ti, e gli occhi che si chiudono, un inchino.
 
 






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